Il mito dipinto: cogli la prima mela

Ancora Turner, il pittore di luce, che interpreta un mito antico e questa volta ci regala un capolavoro sia da un punto di vista artistico che esegetico. Nel 1806 egli presenta un quadro intitolato: “La dea della Discordia sceglie la mela della discordia nel giardino delle Esperidi”. Il dipinto ha un discreto successo, ma viene pubblicamente acclamato nel 1808, quando Turner decide di inserirlo in una esibizione presso la propria galleria. Sarà poi John Ruskin, celebre critico d’arte e artefice delle carriere di molti artisti inglesi, a decretare definitivamente l’ingresso del quadro nel Parnaso della pittura inglese dell’Ottocento.

Si fa presto a dire mela d’oro

Al Museo Archeologico di Firenze è esposto
questo piatto
con un Paride spaventato che cerca di sottrarsi al giudizio! Si data al Vi sec. a.C. e non c’è traccia della mela. Questa iconografia è una delle più comuni per il mitico Giudizio.

Il titolo del quadro è decisamente descrittivo e lascia sperare che il mito ritratto sia facilmente identificabile, invece l’opera di Turner è il prodotto di secoli di analisi dotte del mito classico e risulta essere una elaborazione decisamente artificiale, per quanto affascinante. Infatti, la cosiddetta “mela della discordia” è un oggetto tanto citato quanto pochissimo (se per nulla) rappresentato dall’arte antica: la prima menzione della mela gettata da Eris – dea della Discordia – nel bel mezzo del banchetto nuziale di Peleo e Teti è nei Cypria, poema perduto del ciclo omerico.

Le nozze di Peleo e Teti sono forse il banchetto nuziale più noto del mito greco: i due sposi invitano tutti gli dèi tranne la dea della Discordia, per evitare brutte sorprese, e questa getta in mezzo agli invitati una mela d’oro con incise le parole “alla più bella” (anche su questo ci sono varie interpretazioni, le fonti più antiche non riportano le parole precise). Subito Era, Atena e Afrodite si presentano a “ritirare il premio” e Zeus, imbarazzato e non volendo subire le ire delle escluse, le invia insieme a Hermes dal pastore Paride, che altri non è se non uno dei figli di Priamo – il re di Troia. A Paride viene chiesto di scegliere quale dea premiare, lui sceglie Afrodite e..il resto è storia! La dea dell’amore gli promette le grazie della più bella donna del mondo e così il principe troiano si porta a casa Elena, moglie di Menelao re di Sparta. La guerra di Troia nasce proprio da questo scambio di favori.

Tuttavia, nessuna fonte antica afferma esplicitamente che la mela d’oro che tanti addusse lutti sia quella del Giardino delle Esperidi. Dei Cypria abbiamo solo un riassunto, ma non si fa riferimento alle Esperidi, il primo autore a ipotizzare questa provenienza è Colluto, autore, nel V secolo, del “Rapimento di Elena”, che Aldo Manuzio pubblica a Venezia nel 1521 e rende famoso, nonostante la pochezza letteraria del testo.

Una mela per stregarli tutti!

D’altronde, le altre due volte in cui il mito classico fa riferimento a mele d’oro si parla proprio dell’albero delle Esperidi. Il più antico è il riferimento alle mele che Ippomene lascia cadere dietro di sé per rallentare la corsa di Atalanta e riuscire a sposarla: Afrodite gliele aveva affidate prendendole proprio dal Giardino delle Esperidi e il trucco ebbe successo, ma decretò anche un tragico destino per i due amanti. E naturalmente la dodicesima fatica di Eracle, che si spinge fino all’Atlante ( luogo e Titano) e gli chiede di introdursi nel giardino e prendergli tre mele. Perciò è verosimile che, anche tra gli eruditi alessandrini, i più severi studiosi dei dettagli del mito, fosse accettato tacitamente che anche la mela d’oro del banchetto di Peleo e Teti provenisse dallo stesso, maledetto, albero!

Un dono nuziale

Cratere del Pittore di Licurgo, 360-340 a.C.
Conservato al Museo Jatta di Ruvo di Puglia.
Ringrazio Giovina Caldarola per la foto

L’albero delle mele d’oro era stato un dono della Madre Terra a Era, nel giorno del suo matrimonio con Zeus. Una circostanza interessante, dato che proprio in un altro matrimonio un suo frutto doveva recare tanto danno. Esiodo ci racconta l’occasione del dono e ci dice che fin da subito era stato affidato alle Esperidi, perché lo coltivassero, e a Ladone, perché lo custodisse. Questi era una creatura mostruosa, dall’aspetto di serpente, fratello (!) del serpente avvolto attorno all’albero da cui pendeva il vello d’oro, nella Colchide.

In poche parole, abbiamo qui la creazione della figura mitica del drago custode dell’oro, che sappiamo avrà moltissima fortuna soprattutto in età medievale e poi nel romanzo ottocentesco.

Si fa presto a dire Esperidi!

La individuazione del luogo esatto del Giardino dall’albero d’oro è uno dei colti divertimenti degli autori antichi: in fondo, Esiodo lo aveva collocato “al di là dell’Oceano”, perciò poteva trovarsi davvero dappertutto. Il termine espero indicava Occidente, ma quell’estremo Occidente era difficile da identificare con un luogo preciso. Erodoto, Plinio, Strabone, Ateneo, sono solo alcuni dei celebri nomi di chi cercò di suggerire un luogo plausibile: le attenzioni di molti sembrarono concentrarsi sulla regione africana della Libia e Ladone fu il nome attribuito a un fiume sinuoso, che facesse pensare alle sinuosità del serpente. Un altro tema che ha appassionato gli autori antichi è stata l’identificazione del frutto: si trattava davvero di un melo? O non era piuttosto un arancio? A questo proposito posso suggerire, tra i tanti, un articolo che mi è sembrato interessante ed esaustivo: L’aureo pomo delle Esperidi.

Le Esperidi di Robert Graves

Nel 1955 Robert Graves pubblica “I miti Greci”, un volume che rimane pietra miliare negli studi di mitologia. L’autore, infatti, raccoglie notizie dai testi antichi e ne traccia alcune linee interpretative che ancora oggi sono alquanto suggestive. Graves è stato un importante studioso dell’antico (indimenticabile anche la sua opera sull’imperatore romano Claudio), ma ha cominciato come poeta e ha fatto parte del gruppo di giovanissimi soldati-poeti della Prima Guerra Mondiale. Quando affronta la questione del Giudizio di Paride egli afferma convinto che la questione della mela sia stata influenzata dal mito di Eracle e delle Esperidi: la scena dell’eroe che prende la mela dalle tre ninfe avrebbe condizionato l’iconografia di Paride con le tre dee. Sulla ubicazione del Giardino, poi, Graves è convinto che si tratti di una metafora del tramonto e ne dà questa splendida descrizione:

I nomi delle Esperidi, descritte come figlie di Ceto e Forco o della Notte o di Atlante il Titano che regge il cielo nell’estremo Occidente, si riferiscono al tramonto. A quell’ora il cielo si tinge di verde, di giallo e di rosso e ricorda un albero di mele carico di frutti; e il Sole, tagliato dalla linea dell’orizzonte come una mela purpurea, cala verso la morte nelle onde dell’Occidente. Quando il sole è tramontato appare Espero. Questa stella era sacra alla dea dell’amore Afrodite e la mela era il dono di cui si servivano le sue sacerdotesse per allettare il re sacro, che uccidevano cantandogli canzoni d’amore. Se si dimezza trasversalmente una mela, si può vedere in ogni metà una stella a cinque punte.

(Robert Graves, Miti Greci, Longanesi 1983, Cap. 33. I figli del mare. Nota 7)

La scelta di Turner

Potremmo continuare a lungo, disquisendo sulle diverse tradizioni delle Esperidi e del loro albero d’oro, ma questo post vuole concentrarsi su ciò che accade all’antico mito una volta che viene dipinto da Turner. I suoi riferimenti classici erano vari e molto prestigiosi, tuttavia ammetto di non aver trovato neanche tra i mitografi inglesi a lui contemporanei una descrizione della scena così come lui la ritrae: la figura di Eris/Discordia potrebbe essere ispirata ai cenni che ne fa Virgilio (nel libro VIII dell’Eneide), ma l’idea dell’incontro con le Esperidi sembra proprio una invenzione di Turner.

Ruskin, come accennavo, dedica al dipinto un’analisi approfondita: nel quinto volume di Modern Painters introduce – a suo modo – il tema mitologico e poi si fa interprete delle scelte formali dell’artista. Qui potete leggere un articolo interessante sul commento del celebre critico, io posso dirvi che, secondo Ruskin, Turner ha voluto rappresentare la crisi della società inglese: il drago sarebbe l’ingordigia e la passione per l’oro, che guida l’inglese medio e ne offusca l’etica, tanto è vero che la tela sembra essere caratterizzata da una luce soffusa (e qualcuno la accostò a un arazzo, più che a uno dei luminosi dipinti turneriani). Le sorelle, figlie di Esperia e Atlante, sarebbero personificazioni di alcuni aspetti del potere femminile in relazione alla casa e alla famiglia: le mele ne sarebbero la corruzione.

Ode alla Discordia

Non ho gli strumenti per giudicare l’analisi di Ruskin. Sembrerebbe, a una prima lettura, chiedere un po’ troppo al quadro e ai suoi soggetti, soprattutto considerando il fatto che questo è uno dei quadri giovanili di Turner, quando ancora la sua inclinazione allegorica era meno sviluppata. Preferisco chiedere direttamente al pittore e leggere i versi con cui egli ha voluto accompagnare la tela: li ha intitolati “Ode alla Discordia” e in essi sembra illustrare la scena. Turner confonde le nozze e afferma che Discordia cercava vendetta per non essere stata invitata al matrimonio di Psyche (secondo Gage questo sarebbe un riferimento allegorico). Così, cercando un modo per far rimpiangere la sua esclusione, si reca presso il Giardino delle Esperidi e interroga le ninfe. Queste le raccontano ciò che accadrà se userà le mele: dalle parole di Turner e dalla immagine della ninfa che porge due mele, sembra di intuire che ogni mela ha un proprio destino e la dea deve scegliere cosa provocare.

Amore avvertì la ferita e le fondamenta di Troia tremarono

Discordia ha scelto: la sua mela provocherà una crisi d’amore e porterà alla distruzione di Troia.

The Goddess of Discord Choosing the Apple of Contention in the Garden of the Hesperides exhibited 1806 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/N00477

Ecco, riguardo il quadro nel suo insieme: il paesaggio è davvero fiabesco, il colore dominante è scuro, ma i personaggi si muovono in una nuvola di oro e arancio – chissà che Turner non abbia avuto la stessa intuizione che avrà un secolo dopo Robert Graves, riguardo al legame tra il Giardino e il Tramonto. In alto, su di una roccia, la belva sembra allungare la sua immonda ombra su tutta la valle, eppure qui trova spazio anche la lettura antica di Ladone come fiume. Le gentili figure femminili sono dei tocchi leggiadri di sensuale serenità.

Eppure, la donna che cela le sue sembianze, assomiglia a una fattucchiera, giunta a operare la maledizione. Nel gesto semplice della ninfa si svolge un destino di morte.

Particolare del quadro (foto mia)
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Il mito dipinto: Io e Giove

Antonio Allegri detto Correggio, Giove e Io, 1532-1533
Conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna

quando il Tonante, ravvolta la terra di vasta nebbia, nasconde la ninfa, la ferma e le toglie il pudore

Ovidio, Metamorfosi, libro I vv. 598-9

Sono giornate nuvolose e umide di una pioggia primaverile che fa rabbrividire, per questo ho pensato di spendere due parole riguardo a un dipinto che considero estremamente moderno per l’epoca in cui è stato realizzato. Si tratta del dipinto a soggetto mitologico realizzato da Correggio intorno al 1530 e raffigurante l’amplesso di Giove con la ninfa Io, figlia del dio fluviale Inaco.

Una storia complessa

La figura di Io mi ha sempre affascinato, perché la sua storia è tanto inverosimile – eppure nel mito greco ci sono personaggi o episodi davvero incredibili – quanto fondamentale nel tracciare un legame solido e atavico tra la cultura greca e quella egizia. Se è vero che il mito esprime sottoforma di racconto immaginifico anche eventi storicamente verificabili, beh, con il mito di Io si raggiungono livelli che danno vertigini. Eppure, la storia dell’arte registra non moltissimi esempi di raffigurazione di questo mito; alcuni li abbiamo esplorati con l’episodio precedentemente analizzato: l’uccisione di Argo, il guardiano di Io trasformata in giovenca.

Non sono riuscita a trovare un’immagine antica con Prometeo e Io.
Questo fotogramma appartiene a un film spagnolo del 1969.

Tra le fonti più antiche troviamo Eschilo e il suo Prometeo incatenato. Permettetemi di suggerirvi una lettura coinvolgente ed estremamente moderna, che analizza la sorte del titano alla luce della sua ribellione al volere divino, ma da persona perfettamente consapevole delle conseguenze del suo atto (pro-meteo, da προμανϑάνω, è colui che conosce prima gli eventi): dunque, in ultima istanza, una riflessione sul concetto di libero arbitrio, ma fatta nel V secolo a.C. e nei versi scolpiti nel bronzo del grande tragico. Dunque, Prometeo incatenato riceve la visita di una donna dal volto di giovenca; è incredibilmente spaesata e ha un tafano che la tormenta, sta viaggiando da mesi e non sa più dove si trova e soprattutto dove sta andando! Il titano si fa raccontare quel che già sa e poi le rivela che le sue peregrinazioni avranno fine in Egitto, dove finalmente potrà fermarsi, partorirà il figlio di Zeus e riacquisterà le sembianze umane.

Il contatto in un nome

Epafo sarà il nome del bambino, letteralmente “il tocco”. Perché il tocco di Zeus ha ingravidato la donna. Questo bimbo avrà l’enorme responsabilità di annoverare nella sua progenie, dopo generazioni, anche Danao, il padre delle cinquanta giovani sfuggite all’odioso matrimonio con i cugini. La figura di Io, nel panorama mitologico greco, è perciò di enorme importanza, perché costituisce un anello di congiunzione con la civiltà alla quale gli Elleni si sentivano più debitori, quella egizia. Non a caso, Erodoto tenterà un’estrema storicizzazione degli eventi e interpreterà le vicende di Io con antiche razzie e scambi di schiavi.

La dea con le corna

Io accolta da Iside
affresco pompeiano

Io trasformata in giovenca viene raffigurata raramente con le sembianze animalesche, per lo più troviamo una bellissima donna con un paio di corna! Ma anche in questo caso, il pittore non indulge nella caricatura, bensì rende le due punte come un crescente lunare e così la ninfa diviene una sorta di personificazione della luna, o per lo meno di una sua fase. Inevitabile ripercorrere il fiume in piena del sincretismo religioso e associarle Hathor, la dea-mucca, e soprattutto Iside, la dea dai mille nomi, spesso raffigurata nell’atto di allattare il figlio Horus e identificata anche con la luna.

Se Io è la luna eterna peregrina, come la vedrà un pastore errante dell’Asia qualche secolo dopo, Argo e i suoi cento occhi sono indicati da Ovidio stesso come le stelle del firmamento: la simbologia è completa, eccoci dinanzi a un ennesimo mito cosmico che rende poetico il mistero del creato.

Una committenza complicata

Come se non bastasse la ricostruzione perigliosa del mito, anche il quadro di Correggio ha sollecitato diversi studi, ancora non compiuti del tutto. La ricostruzione più probabile lo colloca in un ciclo di dipinti ispirati agli “Amori di Giove” richiesti da Federico II di Gonzaga e da questi poi regalati all’imperatore Carlo V, perciò oggi ritroviamo la tela a Vienna.

In quanti modi ti amo?

La scelta di Correggio è estremamente moderna, come dicevo all’inizio, e l’analisi di Melania Mazzucco chiarisce bene la peculiarità della forma artistica. Nella serie di testimonianze artistiche che ritraggono il momento dell’amplesso non si vede nulla del genere e, a ben vedere, anche il racconto ovidiano, fonte principale per Correggio e per i pittori impegnati in soggetti mitologici tra Cinque e Seicento, descrive uno scenario molto più idilliaco e consueto: Giove cerca un po’ di privacy, soprattutto rispetto alla gelosia della moglie, e, da bravo dio del cielo e delle nubi, avvolge il luogo dell’incontro con una fitta nebbia. Soprattutto, tutte le fonti sono concordi nel descrivere Io come una ragazza impaurita dal dio, preda delle sue voglie, addirittura ricattata: se non si concederà, suo padre Inaco subirà l’ira di Zeus.

Ma Correggio è alla fine della sua carriera, celebrata per quei soffitti vaporosi di nubi. Perciò, da una parte immagina una scena sensuale, e dall’altra prende alla lettera la natura di Giove e ne fa nuvola che abbraccia: il particolare del volto umano che bacia Io e quello sbuffo che stringe a sé le carni della bella ninfa (la quale, a sua volta, cerca il contatto solido con la nuvola divina), sono destinati a incantare chi guarda e a fargli provare la pervasività del tocco divino.

Da notare che, per tradizione, qualunque donna si trovasse dinanzi alle vere fattezze di una divinità era destinata a esserne consumata, vedi la tragica fine di Semele. Qui Giove sembra aver scelto una foggia non aggressiva, come la pioggia dorata che ingravida Danae, eppure più confacente al suo ruolo di dio “adunatore di nembi” (νεϕεληγερέτα).

Un mito cosmico trova spazio nel cosmo

Ogni volta che penso a Io, alla violenza di cui è stata vittima due volte, una perché aggredita dalla voglia del dio e l’altra perché trasformata in animale a coprire una colpa non sua, non posso fare a meno di riflettere sulla terribile ironia che ha fatto battezzare Io uno dei satelliti del pianeta Giove. Pare che i nomi di Io e di Europa per i satelliti di Giove furono elaborati in pieno Seicento, dunque in un’epoca in cui le vicende delle due donne venivano narrate come sensuali incontri amorosi. Nulla di più logico che identificare Io con una luna in orbita attorno al pianeta, immagine della ninfa che compie il suo desiderio nella contemplazione del dio.

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Il mito dipinto: Argo dai cento occhi

Non riesco più a trovare le foto fatte da me all’epoca della visita a villa Emo,
fortunatamente c’è una pagina facebook provvista di informazioni e fotografie: https://www.facebook.com/pg/villaEmo/about/?ref=page_internal

Qualche anno fa ho partecipato a un’interessantissima visita guidata a Villa Emo, capolavoro palladiano riconosciuto dall’UNESCO. Al mio occhio di “cacciatrice di miti” sono rimaste impresse le decorazioni pittoriche degli ambienti, opera di Battista Zelotti. Non è stato tanto lo stile, quanto la scelta raffinatissima dei miti ad attirare la mia attenzione: il programma iconografico sembra infatti rimestare nel mare magno dei racconti mitologici e proporre agli sposi proprietari della villa una serie di esempi di morigeratezza e di infedeltà punita tra i meno ovvi e noti della tradizione classica.

Una scena idilliaca

Nella loggia centrale è lasciato lo spazio per la narrazione puntuale di una vicenda particolarmente complessa, il cui momento culminante è raffigurato in una scena campestre: una mucca bruca l’erba sulla sinistra, un giovane suona il flauto appoggiato alle colonne di un paesaggio di rovine (quasi una quinta teatrale), una terza figura è stesa per terra, sembra che dorma. In realtà siamo di fronte all’uccisione del pastore Argo da parte del dio Hermes, che proprio per questo riceverà l’epiteto di Argifonte (uccisore di Argo). La giovenca è in realtà la bella Iò, figlia di Inaco, così trasformata da Zeus, per proteggerla dalla furia della moglie Hera. Quest’ultima, intuito l’inganno del marito fedifrago, aveva messo la ragazza/mucca sotto il sicuro sguardo del pastore Argo, creatura dai cento occhi, così che Zeus non potesse più avvicinarsi. Ma il furbo Hermes riesce ad addormentare il guardiano e infine lo uccide.

Un guardiano affidabile

Stamnos a figure rosse V sec. a.C. Negli esempi greci gli occhi sono distribuiti su tutto il corpo.

Quando ho osservato l’affresco mi ha subito colpito la scelta del pittore: la vicenda di Iò è tanto celebre quanto raramente raffigurata, soprattutto Argo è poco presente nella iconografia antica. Una veloce ricerca mi ha permesso di tracciare a grandi linee la fortuna del mostruoso pastore: la fonte di Zelotti è sicuramente Ovidio e le sue Metamorfosi, dove alla sorte di Argo è dedicato un intero paragrafo, ma in età medievale altri autori erano stati affascinati da questa figura e l’avevano fatta diventare il guardiano per antonomasia, colui che tutto guarda perché dotato di numerosi occhi. Ricordo ancora la candida emozione da me provata quando, ragazzina, avevo associato il mito appena imparato con il nome della agenzia di metronotte più famosa nel mio quartiere.

A me gli occhi

Notate i pavoni ancora senza “occhi”

Ancora più interessante il fatto che Zelotti decida di raffigurare anche l’aspetto più fascinoso del mito, ovvero la pietà dimostrata da Hera/Giunone (il riferimento di Zelotti è la versione latina del mito) nei confronti del fedele guardiano. Nella scena successiva, infatti, vediamo la dea che giunge alla guida di un carro trainato da pavoni: ma questi non hanno i caratteristici “occhi”, perché, secondo Ovidio, gli occhi dei pavoni non sarebbero altro che quelli di Argo, trasferiti da Giunone sulle piume dei suoi fedeli animali da compagnia!

A chi appartieni?

C’è un’espressione molto usata al centro e al sud Italia per indicare che la famiglia è importante! Prima di sapere qualsiasi altro particolare della vita di una persona, si rivolge una domanda che serve a collocare il soggetto a livello sociale e gli/le si chiede a quale famiglia appartiene. Ebbene, il nostro Argo è stato variamente associato a creature mostruose, a partire da Apollodoro e dalla sua puntuale Biblioteca: Argo ha un aspetto mostruoso e dunque deve essere necessariamente il parto ignobile di qualche creatura dalle fattezze spaventose. Ma la testimonianza più antica sembra essere Eschilo, il quale in ben due tragedie – Le Supplici e Prometeo incatenato – fa riferimento al mito di Iò e dunque a tutti i protagonisti coinvolti. Eschilo presenta Argo come figlio di Gea, cioè la Madre Terra, e questo particolare mi spinge a una breve riflessione sulla saggezza popolare greca: molte creature mostruose erano dette figlie della Terra, qui abbiamo Argo dai cento occhi, ma anche i Centimani erano figli di Gea. Esseri che ispiravano orrore, poco o niente civilizzati, caratterizzati da un corpo anormale, dove c’era troppo di qualcosa, che agli esseri umani e agli dèi era invece fornito seguendo proporzioni armoniche.

Questo aspetto, in qualche modo, dà di Argo una visione meno spaventosa: è figlio della Terra, non può essere completamente malvagio. La sua fisionomia non sarà gradevole, ma egli è il prodotto della Madre di tutte le madri, perciò non può avere intenzioni cattive.

Il buon selvaggio

Un anonimo genovese del XVII secolo è autore di questo splendido quadro conservato alla Pinacoteca Ambrosiana.

Infatti Argo non aggredisce, ma obbedisce agli ordini che ha dato Hera: non fa del male alla giovenca, ma la osserva – giorno e notte – e la custodisce. La presenza di Mercurio e Argo nei quadri di Cinque- e Seicento è spiegata sicuramente dalla popolarità sempre crescente di Ovidio e dei suoi libri di meraviglie e “incanti”, ma è anche espressione di un messaggio chiaro: la vittoria della raffinata cultura sul selvaggio. Mercurio non affronta il gigante con la forza, bensì lo piega con l’ingegno del suono del flauto: Argo, che usava chiudere al sonno solo quattro occhi per volta, è costretto ad addormentarsi profondamente e così Mercurio lo può uccidere e così facendo sembra essere tornato alle celebri imprese della sua infanzia, quando aveva messo sotto scacco perfino Apollo. Il semplice, mostruoso guardiano viene ucciso dall’agile e giovane dio e così si compie un delitto del quale Hermes/Mercurio si fregerà per il resto della sua vita. L’uccisore di Argo, una medaglia al valore sul petto di chi vive di sotterfugi e si muove sinuoso tra la vita e la morte.

Il guardiano mostruoso resta a terra, decapitato, e i suoi cento occhi vanno a decorare le piume del simbolo stesso di bellezza e vanità.

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Il mito dipinto: Ero e Leandro

Joseph Mallord William Turner, 1775 – 1851 The Parting of Hero and Leander – from the Greek of Musaeus before 1837 Oil on canvas, 146 x 236 cm Turner Bequest, 1856 NG521 https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/NG521

Alla National Gallery di Londra è esposto un dipinto di Turner che colpisce per dimensioni e soggetto: ti fermi a fissarlo e per un attimo hai la sensazione che il mare ti stia risucchiando…oppure sono le tenui figure sulla destra, ninfe del mare, che ti stanno tirando dentro le torbide acque, chiedendoti insistenti di aiutare Leandro, che sta affogando.

Un romanzo alessandrino

Quanto è famosa la storia di Ero e Leandro? E soprattutto: quando l’ho letta la prima volta? Memorie dal Mediterraneo che si perdono nei meandri della curiosità personale. Così recupero qualche informazione e ricostruisco un palinsesto che emerge dalle acque di una letteratura alessandrina, dunque ellenistica, che ama tessere trame complesse attorno a semplici storie d’amore. Ma di quella prima stesura abbiamo perso le tracce ed è come sempre Ovidio che ci viene in aiuto.

Nella serie di lettere d’amore che egli immagina scritte da personaggi del mito, non mancano Ero e Leandro. Dalle appassionate parole dei due amanti si capisce che il loro amore è illecito, soprattutto – ironia della sorte – secondo la legge di Venere, della quale Ero è sacerdotessa. Inoltre è complicato dalla distanza di un braccio di mare particolarmente difficile da attraversare: l’Ellesponto, o “mare di Elle”, qui morta mentre cavalcava con il fratello il vello d’oro verso la Colchide, solcando le nubi e cadendo nei gorghi. Leandro deve attraversare l’Ellesponto a nuoto ed Ero lo aspetta: non sempre le condizioni del mare sono agevoli e nelle notti in cui non si possono incontrare, la donna è preda di dubbi laceranti. La luce che Ero accende dalla sua torre a picco sul mare funge per Leandro da faro e lo guida attraverso le onde.

Una storia bizantina

Ciò che le lettere di Ovidio non menzionano lo ritroviamo qualche secolo più tardi, nell’opera di Museo Grammatico, un autore bizantino vissuto tra IV e V secolo d.C. Egli descrive puntualmente la vicenda: Ero è una sacerdotessa di Afrodite e abita a Sesto, cittadina del Chersoneso Tracico. Durante una celebrazione in onore di Afrodite e Adone, un cittadino di Abydos, sulla costa della Troade, di nome Leandro, giunge in città e si innamora di Ero al primo sguardo. La ragazza ha fatto un voto di castità, consacrandosi alla dea, così, quando il giovane torna, nottetempo, e si introduce nelle sue stanze, nell’alta torre a picco sul mare, le schermaglie amorose prolungano non di poco l’atteso abbraccio. Ero si lascia affascinare da Leandro e i due cominciano una relazione clandestina: la sera lei si affaccerà con la sua lampada a rischiarare il tratto di mare e guidare Leandro. Trascorsa la notte insieme, egli riprenderà il mare per rientrare ad Abydos.

I due amanti godono qualche notte di puro idillio e struggimento, finché giunge la notte maledetta, quando Leandro viene travolto dalle onde dopo poche bracciate. Ero assiste impotente alla tragedia dall’alto della sua torre e da qui si uccide, gettandosi disperata sugli scogli.

Il fascino della storia d’amore

La vicenda di Ero e Leandro sembra inserirsi in una lunga tradizione di amanti sfortunati, cantati da poeti particolarmente dotti, tanto da incorniciare l’incontro tra i due in una celebrazione di Afrodite e Adone, l’amante della dea dell’amore morto anzitempo, una finezza.

Ma qui vorrei concentrarmi su Turner e sul fascino che questa storia ha avuto su di lui, per portarlo a dipingere il momento culminante della tragedia. In ambito inglese, la storia di Ero e Leandro fu narrata da Christopher Marlowe, celebre poeta cinquecentesco: Marlowe immagina un dialogo tra gli amanti, poco prima della fatale traversata. Shakespeare citerà il poema dell’amico in As you like it e Chapman lo completerà, nella convinzione che Marlowe volesse narrare l’intera vicenda, fino alla sua tragica conclusione.

Forse proprio il fatto di essere entrato a far parte della tradizione per la penna di un poeta tanto illuminato e seguito, ha reso il mito di Ero e Leandro particolarmente interessante agli autori del Romanticismo inglese. Il quadro di Turner è del 1837 e noi possiamo rintracciare almeno cinque celebri versioni poetiche: Byron nel 1810, Keats nel 1817, Leigh Hunt nel 1819, Thomas Wood nel 1827 e Alfred Tennyson nel 1830.

Il poeta che fece l’impresa

La pagina che la National Gallery dedica all’approfondimento sulla storia del quadro ci informa dello stretto legame tra Turner e Byron. Dunque è stato soprattutto l’esempio del poeta filelleno a influenzare l’artista della luce; Byron non si limita a scrivere dei due amanti ma, con un paio di amici, compie un’impresa eccezionale: attraversa a nuoto l’Ellesponto, novello Leandro. E poi compone un sonetto a commento di quella eroica traversata, chiedendosi come mai nessuno dei commentatori del testo antico avesse mai provato a vedere se i fatti narrati fossero …verisimili!

L’arte di dipingere poemi

Quella di Turner è la stagione dei pittori che creano di concerto con i poeti: quanti sonetti di Keats, quanti poemi di Tennyson, hanno trovato i colori sulle tele dei Preraffaelliti! Dante Gabriele Rossetti, primo della Confraternita, accompagna quasi tutti i suoi quadri con poesie scritte di suo pugno; Turner non è da meno e decide di corredare il quadro di alcuni versi per sottolineare il momento culminante di questa tragica storia d’amore.

Architetture fantastiche e dove trovarle

Osservo il quadro e rimango incantata dinanzi alla potenza della luce di Turner. Il destino di Leandro è avvolto dalla notte, ma a destra, la città di Sesto, con la torre da cui Ero illumina il mare, è circondata da una luce dorata, forse l’alba che sta sorgendo per l’ultima volta.

Eppure, quell’insieme di edifici mi sembra ricordare qualcosa a me ben noto… è un attimo: scorgo l’ingresso occidentale all’Acropoli di Atene, i Propilei. E mi chiedo se Turner non avesse in mente proprio quelle rovine, per rendere monumentale e molto greco a un tempo lo scenario evocatore. In fondo, Ero è una donna trace, quanto di più lontano dalla Atene classica. Ho fatto un breve giro di valzer tra acquerelli e dipinti dei Propilei dell’Acropoli nell’800 e ne ho selezionati due:

E così, dopo una notte di luna, al sorgere di un’alba tragica, Leandro scompare nei flutti abbracciato da mille Nereidi, mentre Ero guarda attonita e luna e sole si sfiorano per un attimo, contemplando il destino dei due amanti.

Io resto dentro il quadro un altro po’ e mi incanto a pensare alla forza di Atene di entrare nell’immaginario del pittore; penso ai pionieri di un’archeologia fatta di testi prima ancora che di resti. Rivolgo un silenzioso omaggio a Byron e alla sua voglia ostinata di diventare un eroe greco, ma passando attraverso l’identificazione con il mito.

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