Notturno #2

L’ultimo rintocco della mezzanotte è il momento in cui finalmente tutto quello che è accaduto durante la giornata comincia ad avere un senso.

Memorie dal Mediterraneo è una dichiarazione di intenti, più che il titolo di un blog, e forse è arrivato davvero il momento di ricordare in maniera più organizzata: chiedo a Chopin di ispirarmi e do inizio ad alcune brevi riflessioni, tra la mezzanotte e l’una.

Danza

Torno a scrivere in notturna, questa volta con un accompagnamento d’eccezione: Maurizio Pollini e Chopin, la storia di una ricerca lunga e meticolosa e di un’alchimia bellissima. Lascio che il n.3 mi riempia i polmoni e mi immagino girare su pavimenti di lucido marmo, in un ballo senza passi, quasi uno zebekiko in salsa polacca.

Musica

Oggi ho deciso di coccolarmi un poco e così sono entrata nello scrigno delle meraviglie che è la libreria di un caro amico. Mentre indovinavo un pensiero da regalare, Andrea mi ha messo davanti agli occhi un’edizione dell’Odissea che ancora non mi era capitato di vedere: la versione di Emilio Villa, effervescente intellettuale che nel 1941 si cimenta con il vecchio aedo cieco e decide di tradurre l’opera dell’astuto viaggiatore, rendendola più moderna. Ho appena dato un occhio veloce e mi ha colpito l’espressione “Musica diva, con la quale viene chiamata in causa la Musa ispiratrice.

Mi piace l’idea di conoscere un approccio diverso al poema che mi ha seguito in ogni tappa della mia vita di viaggiatrice. Alla fine, per me l’importante è che non venga storpiata l’espressione-manifesto: navigando sul mare color del vino verso genti straniere.

Staremo a vedere, Andrea mi ha solleticato la curiosità e sollecitato una recensione o anche solo un pensiero a margine. Sfida accettata.

Canto

In questa giornata finalmente diversa, finalmente molto simile alle mie 24 h tipiche – cioè quelle che sembrano durare 30 h – ho avuto il tempo di ascoltare una trasmissione radiofonica che mi lascia spesso perplessa: su Radio3, alle 14.30, va in onda “L’idealista“, una serie di canzoni concatenate seguendo un filo rosso “ideale”. Oggi era il turno di medicamenti, cure, medicine e così mi sono ascoltata Lithium, dei Nirvana, e Xanax and wine, degli U2. C’era poi un componimento jazz ispirato al Valium, ma a quel punto mi ero già persa dietro mille pensieri…ad esempio quanto mi sarebbe piaciuto poter prendere qualcosa che annullasse la mia percezione della realtà, quasi un incantesimo da Bella Addormentata, e che mi facesse risvegliare alla fine del periodo di quarantena.

Un amico ha fatto riferimento al laudano e l’associazione di idee più veloce della luce mi ha presentato l’immagine di Elizabeth Siddal, languida moglie di Dante Gabriel Rossetti. La sua vicenda sarà presto da me narrata in coinvolgenti incontri via Zoom, ma il riferimento al laudano lo posso spiegare in due parole.

Elizabeth posò come modella per la celeberrima Ophelia di Millais, ma si ammalò probabilmente di polmonite, tanto che il pittore venne affrontato dal padre della ragazza che minacciava una denuncia. Ripresasi, entrò nel cerchio magico della Confraternita Preraffaellita e si innamorò di Dante: una relazione estremamente dolorosa, fatta di discussioni accese e riconciliazioni struggenti, probabilmente anche di un tragico aborto. Elizabeth, che aveva cominciato a scrivere poesie e a dipingere, continuò a soffrire della polmonite e il laudano che usava per calmare i dolori fisici divenne prezioso alleato anche per quelli emotivi. Un giorno la dose le fu fatale e Dante restò a piangere una moglie suicida.

Il cerchio si chiude

Il laudano, dunque, ha sempre esercitato su di me un certo fascino: il termine evoca crinoline e merletti – almeno a me – e una certa grazia, tutta ottocentesca e britannica, di assumere medicinali potenti all’ora del tè. Ma se cerco l’origine di questo oppiaceo, mi imbatto in Paracelso, medico alchemico del Cinquecento, il cui nome vero era Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim.

Teofrasto, rieccomi a te! Come sottolinea Giuseppe Squillace nella edizione “Sugli odori” pubblicata per Olschki, è fin troppo suggestivo collegare i due omonimi e cercare nel discepolo di Aristotele una vena di alchemica follia. Paracelso, dicevo, dà il nome di laudanum a una resina estratta da foglie e fiori del genere costus, impiegata fin dall’antichità; solo i discepoli di Paracelso associano il laudano all’oppio e il resto è Storia, come si dice.

Eccomi allora ancora una volta, salutare il solitario rintocco notturno e ritrovarmi nella bottega del farmacista appassionato di erbe e piante e profumi e unguenti. Stasera l’aria carica di pioggia impaziente di rovesciarsi su di noi si impregna di un aroma difficile da combinare: una coltre di oppio, ma dal nome più subdolo.

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Notturno #1

L’ultimo rintocco della mezzanotte è il momento in cui finalmente tutto quello che è accaduto durante la giornata comincia ad avere un senso.

Memorie dal Mediterraneo è una dichiarazione di intenti, più che il titolo di un blog, e forse è arrivato davvero il momento di ricordare in maniera più organizzata: chiedo a Chopin di ispirarmi e do inizio ad alcune brevi riflessioni, tra la mezzanotte e l’una.

Angeli e Demoni

Ho appena concluso la serie Good Omens, un piccolo gioiello di British humour, tratto dal libro di Neil Gaiman e Terry Pratchett. I riferimenti all’Antico Testamento sono molto raffinati e, come sempre, mi piace godermi una arguta trasposizione della mitologia biblica nel mondo contemporaneo. La chiave di lettura dell’Armageddon si avvicina molto al mio modo di guardare il mondo: persa nella fascinazione della società degli umani, convinta che ci sia molta più filosofia tra cielo e terra, che non in un pantheon di creature divine e trascendenti.

Incensi e mirre

In questi giorni mi immergo nella lettura della traduzione italiana di “Sugli odori” di Teofrasto, con prefazioni e saggi e documenti che arricchiscono incredibilmente la già pregiata edizione. Nell’aria umida di una stagione monsonica, uno degli inevitabili effetti del cambiamento climatico in atto, ogni riferimento agli antichi profumi sembra diventare palpabile essenza ed entrarmi nelle narici, per allargarsi attorno alle pupille e scendere inarrestabile fino alle labbra socchiuse. Il sacchetto rosso che sparge il suo aroma nella mia borsa ormai da quasi un anno è lì a ricordarmi di quando affondai la mano in una coppa di mirra, a Wadi Mousa, di fronte l’ingresso al sito di Petra.

Chissà quanto incenso è stato bruciato per invocare quelle creature soprannaturali cui abbiamo affidato le nostre anime nei millenni, chissà quanta mirra è stata utilizzata per conservare i corpi, nei millenni, e cercare di garantirci una vita senza fine.

Megiddo

Armageddon: il termine giunge come “rivelazione” nell’Apocalisse di Giovanni, e si riferirebbe alla collina di Megiddo (Har-Megiddo). Qui in Good Omens viene portato il presunto Anticristo, qui si dovrebbe sprigionare la battaglia alla fine del mondo. L’archeologia ha trovato i resti delle tante battaglie combattute: una centro fondamentale per le vie carovaniere, a conferma del fatto che la Storia è fatta di viaggi.

In questa notte irrequieta i pensieri si affollano attorno all’immagine di vita e di morte, personale o collettiva, e l’aria della mia stanza si riempie di profumi antichi, resine e cortecce, gli alberi della vita che si offrono in sacrificio per aromatizzare le mie riflessioni.

Conclusioni

L’ora sta finendo e le Memorie si cristallizzano, proprio come gocce di mirra odorosa. Il Mediterraneo mi aspetta sorridente. Su una collina a sud di Haifa gli uomini hanno voluto immaginarsi la fine del mondo, che avesse il profumo delle spezie vendute al mercato e l’aspetto di un luogo brulicante di persone: il posto più vivace dove distruggersi, il caos degli inizi che ingoiasse tutto ciò che aveva creato.

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Il mito dipinto: prova a prendermi!

Lo scorso settembre mi sono immersa nelle sale della Pinacoteca Ambrosiana perché volevo mostrare a un’amica la magnificenza del cartone di Raffaello per la Scuola di Atene. Nel “perderci” tra i dipinti, dentro e fuori dalla balconata, proiettate in un’atmosfera da Promessi Sposi (il Cardinale Borromeo, che volle la Biblioteca e la Pinacoteca) ma in salsa Liberty, ci siamo soffermate su di un quadro in particolare.

In una sala di passaggio, nella penombra, il soggetto ci è sembrato interessante ed è stata la mia amica a farmi venire in mente una possibile lettura interpretativa: il giovane che conduce in braccio una donna nuda, ma dal volto di leonessa, poteva essere Peleo che portava trionfalmente a casa la Nereide Teti.

Il tempo era poco, la foto venne fatta in fretta e furia, così come quella alla didascalia. Quando poi ho deciso di inaugurare questa serie di articoli su miti classici trasposti su tela, il quadro mi è ovviamente tornato in mente e ho cercato informazioni (e una foto migliore) online, ma – non trovando nulla – ho deciso alla fine di rivolgermi direttamente alla Pinacoteca. Mi hanno risposto in pochissime ore, fornendomi foto e scheda di catalogo; eravamo in piena quarantena, perciò – scusandosi – mi hanno mandato delle immagini scansionate. Una cortesia eccezionale, che però mi ha catapultato in un vero dilemma!

Ecco l’immagine inviatami dall’ufficio della Pinacoteca

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei

La scheda di catalogo relativa al quadro

La scheda del catalogo, infatti, mi informa che il dipinto è opera di Luca Giordano, eccezionale artista, autore di numerosi quadri di soggetto mitologico, raffinati per scelta del mito e spesso complicati perché votati all’allegoria. Questo milanese viene tentativamente interpretato come “Atalanta e Ippomene”: il compilatore della scheda si protegge con un punto interrogativo, tuttavia nel breve testo suggerisce che l’identificazione è suffragata dalla presenza di elementi marini (i cavalli) esattamente come marino è il riferimento di Ovidio a Ippomene “caro a Nettuno”.

Una storia scabrosa

A questo punto, però, io resto perplessa e ripercorro la storia di Atalanta e Ippomene: la giovane cacciatrice, rifiutandosi risolutamente di piegarsi a una vita da moglie sottomessa, aveva convinto il padre a darla in moglie solo a chi l’avesse battuta nella corsa. Come forse ricordate, in un precedente episodio avevamo già visto che le mele d’oro delle Esperidi erano riuscite a rallentare la corsa di Atalanta, permettendo a Ippomene di vincere sia la gara che la mano della bella selvaggia! I due erano perciò convolati, ma la passione li aveva presi in un luogo poco consono: un bosco sacro alla dea Cibele. Ora, a difesa dei due sposini, va detto che la dea frigia era nota per avere un culto estremo, dove i freni inibitori erano gettati alle ortiche e i fedeli si contorcevano in orge animalesche…tuttavia, ci sono delle regole che vanno seguite anche per le orge! E di certo, copulare senza permesso in uno spazio sacro non è consigliato, da nessuna divinità. Atalanta e Ippomene vengono dunque puniti: come contrappasso vengono trasformati in leoni, che, secondo i Greci, rimanevano casti tra loro. I due vengono quindi aggiogati al cocchio di Cibele, la tremenda Grande Madre.

Se Atalanta e Ippomene non sono mai ritratti dagli antichi nel momento della loro trasformazione, le immagini di Cibele e dei suoi leoni sono diffusissime. Questa statuetta è datata al II secolo d.C. ed è esposta al
Metropolitan Museum di New York

Questa storia dei leoni casti, che quando si accoppiano lo fanno solo con i leopardi, notoriamente più lussuriosi, è una notizia che si legge in Plinio (Naturalis Historia libro 8 par. 43 e seguenti) e più tardi in Pausania (III.24.2) Probabilmente si tratta di una convinzione che si sviluppa in ambiente ellenistico e poco ha a che fare con la genesi del mito dei due amanti, ma viene aggiunto in qualche versione più tarda come particolare “piccante”. Qui trovate un breve elenco di fonti antiche a riguardo.

Una donna pericolosa

Io però, guardando e riguardando il quadro, proprio non riesco a convincermi di questa spiegazione: non solo la trasformazione dovrebbe riguardare entrambi, ma la scena sembra effettivamente quella di chi sta portando via la donna, non di chi se la sta spassando o anche solo di chi sta camminando tranquillo con la legittima moglie.

Perciò torno a considerare la prima ipotesi: Peleo e Teti. La fama del figlio di Eaco e della bellissima Nereide è legata principalmente alle loro nozze. Anche in questo caso, abbiamo visto che la mela gettata proditoriamente in mezzo al banchetto di nozze è proprio quella che farà scoppiare la guerra di Troia. Un conflitto che vedrà tra i principali protagonisti proprio il figlio della coppia: Achille. Ma la loro storia d’amore comincia ben prima delle nozze ed è forse una delle più celebri tra dea e mortale che sia mai stata raccontata.

La splendida Nereide aveva destato l’attenzione del padre degli dèi (padre non a caso, il tonante Zeus, pervasivo come la pioggia di novembre, annovera tra la sua progenie quasi metà dei protagonisti delle vicende mitiche greche!), ma un oracolo era intervenuto a calmare i bollenti spiriti: il figlio avuto da Teti avrebbe detronizzato il padre. Le fonti attribuiscono l’oracolo a due personaggi dal ruolo estremamente importante nella cultura mitica greca, Apollodoro (Biblioteca III 13.5) menziona Themis, un’ancestrale divinità, depositaria della giustizia cosmica, ma un altro filone (che arriva fino a Ovidio) afferma che le tragiche parole provengono da Proteo, il vecchio del mare.

Dunque una profezia tutta marina, mutevole, come lo sono le creature acquatiche, ma estremamente tragica quando si tratta di determinare il destino degli esseri viventi.

Interviene perfino Prometeo, il dio che “vede prima” ciò che sta per accadere e, secondo la versione di Igino (Fabulae 144, ormai nel I secolo d.C.) proprio in virtù della riconoscenza per averlo avvertito, il titano verrà liberato da Zeus. Dunque Zeus decide che deve allontanare da sé anche solo l’idea di possedere Teti: la farà sposare a un altro, un umano, ché tanto agli umani ne capitano già di tutti i colori, una più o una meno non fa differenza! Ma non pesca a caso, sceglie un suo nipote, nobile re di Ftia, Peleo. Il ragazzo si è già distinto nella caccia al cinghiale calidonio, in effetti è già stato sposato una volta (!) ma farlo innamorare di Teti, la splendida, è un gioco da ragazzi.

Una corte rocambolesca

La dea, però, non è d’accordo e quindi fugge. Ora, essendo una creatura marina, Teti ha la capacità di mutare forma, infinite volte. Mi è sempre piaciuta questa idea che avevano i Greci di non potersi fidare dell’acqua: quella dolce poteva irretirti con le eccitanti forme delle ninfe e quella salata poteva portarti a una morte atroce e beffarda (sirene, Scilla, mostri marini) e convincerti a gettarti tra le braccia della tua stessa rovina.

Teti si trasforma in…animali feroci: serpente, tigre e leonessa! Le scene di Peleo che tenta di afferrarla sono estremamente significative: non è un inseguimento, ma una lotta! Peleo è raffigurato come Eracle in uno dei suoi scontri più duri: le braccia dell’eroe avvinghiano la dea alla vita, mentre le membra divine prendono forme disparate.

Finalmente Teti si stanca o si convince, non potremo mai sapere la verità…e i due convolano a nozze.

Questa scena di lotta affascinò soprattutto Pindaro, che seppe renderla in tutta la sua sensualità in pochi, brillanti, versi nella Ode Nemea n.4 (vv. 60-65).

La metamorfosi nelle Metamorfosi

Tornando al quadro di Luca Giordano, credo che uno dei modi migliori per carpirne il soggetto sia verificare le fonti cui il pittore poteva attingere. Ovidio e le sue Metamorfosi sono il testo “sacro” per chiunque voglia sfoggiare una cultura classica, ma anche il libro delle meraviglie per chi cerchi la suggestione di immagini fantastiche. Il poeta latino pesca generosamente dal cesto del mito greco e seleziona (o a volte modifica) quelle storie che prevedono la magica trasformazione di uno o più personaggi. Nel libro XI, dunque, egli decide di raccontare la difficile corte di Peleo a Teti e scrive così:

Il testo è tratto dal libro XI delle Metamorfosi di Ovidio
Qui ho preso lo screenshot: http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi/undicesimo.htm

Questo piccolo, grande amore

Ho voluto inserire qui la foto da me scattata, giusto per aggiungere un po’ di pathos verso la fine di questa ricerca del soggetto!

Accosto il testo al dipinto e cerco di capire quali elementi ho sotto gli occhi: il ragazzo del quadro sembrerebbe un pastore e in effetti, nel paragrafo successivo all’amplesso con Teti, Peleo è descritto da Ovidio come il giovane figlio di Eaco che portava armenti e greggi con sé.

I cavalli marini sembrerebbero un riferimento più che appropriato alla Nereide, una sorta di cocchio nuziale?

Sulla sinistra, dietro alle due figure, sembrerebbe di scorgere una grotta, forse quella menzionata da Ovidio, dove Teti era solita riposare e dove Peleo le avrebbe teso l’agguato?

In alto a destra, tra le nubi, un anziano dio sta guardando la scena, potrebbe forse essere Zeus, che si sincera che tutto vada secondo i piani?

I piccoli putti volanti mi lasciano perplessa, lo confesso: inizialmente pensavo ad Amorini, che sottolineassero l’aspetto erotico della scena, ma le loro ali di farfalla li avvicinano piuttosto a piccole psychai, animule, che in questo contesto non riesco a collocare.

Resta la scena dei due protagonisti: Peleo, imperterrito, continua a trattenerla a sé, convinto che, prima o poi, si stancherà e sarà finalmente sua.

Teti sta forse tornando umana, ma, ancora con il volto ferino, guarda questo umano nipote di Zeus e forse come lui testardo in fatto di donne, e si chiede se non sia meglio farselo andare bene e stare a vedere come andrà!

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Il messaggero

Un’ombra allungata al sole meridiano, pochi battiti d’ala ed era già al panificio.

La sosta, un po’ lunga, tra i rami di un pino e poi sopra la statua della donna seduta, quella con la spiga.

Era ormai la quarta volta che giungeva in quella città e cominciava a riconoscere i luoghi e a cercare gli angoli più noti; il viaggio era stato, al solito, molto lungo, ma quel pezzo di pane rubato di nascosto lo aveva rinfrancato.

L’odore pungente gli annunciò di essere sulla buona strada: si stava avvicinando e come ogni volta decise di farsi annunciare da uno stridulo verso monosillabico. La fullonica era più vuota, questa volta, pochissimi schiavi erano al lavoro, gli sembrò strano, ma non ci badò più di tanto.

Finalmente arrivò all’edificio buio e vide che già c’era una fila pronta a entrare, con fiaccole accese: si appoggiò sull’erba, di fronte all’ingresso, poi zampettò audace tra le gambe di quegli uomini e si infilò nel corridoio centrale. Felicissimus gli era accanto e lo riconobbe al tatto: gli slegò il piccolo rotolo di carta dalla zampa e lo sostituì con un altro, che gli diede una sensazione di fresco inaspettata.

Udì che i canti cominciavano sommessi e decise, per una volta, di rimanere ad ascoltare: non comprendeva cosa stessero dicendo, gli piaceva il suono e la cantilena continua. Rapito dalla musica rischiò di essere calpestato due volte, a quel punto uscì zampettando e subito si librò in volo.

***

La neve?!

Ebbene sì, la neve. Anche qui, anche in questa città di uomini del sud! Era finalmente felice di ritrovarsi in un luogo così congeniale: si fermò solo una volta, sul bordo di una delle vasche del ninfeo, per lasciarsi ricoprire di leggerissimi fiocchi, poi riprese il suo volo felice. Direzione: fullonica e poi a destra e subito a sinistra! Che meraviglia, poca neve, ma pur sempre lei! Dimenticò perfino di gracchiare, questa volta, e atterrò lungo, saltellando fino quasi alla bianca statua in fondo al corridoio.

Felicissimus era invecchiato tanto, non sembrava riconoscerlo; o forse non era più lui? Gli slegò in ogni caso il messaggio dalla zampa e al suo posto legò un piccolissimo papiro, ma con uno spago grosso, che inizialmente lo fece sbilanciare. Questa volta, prima di ripartire, decise di zampettare di qua e di là, per godersi il paesaggio così diverso, bianco e gelido.

***

Sempre più difficile, volare in mezzo al fumo e non riuscire ad atterrare a causa delle alte fiamme!

Il dio da un occhio solo era stato molto dolce, questa volta. Lo aveva accarezzato, lisciandogli le piume e raccontandogli qualcosa – per lui inintellegibile – con un tono meno severo del solito. Sapeva di avere una responsabilità grande e aveva capito che i suoi viaggi servivano a mettere in contatto uomini molto distanti tra loro. Non riusciva davvero a comprendere che motivo avessero di scambiarsi informazioni: lui con le colombe mica ci parlava, poteva capitare di avere a che fare con i piccioni, ma era raro; e comunque loro erano decisamente stupidi! Mentre sorvolava le lande fredde e desolate e poi i picchi alpini, cominciò a ripensare a quando tutto questo era cominciato: insieme ai suoi fratelli aveva affrontato viaggi immensi, le cui vicende ancora riempivano i racconti dei più anziani. Alcuni si erano spinti verso il sole, nel regno sempre luminoso e caldo; a lui e alla sua famiglia era toccato un luogo più vicino, bagnato dal mare. Il suo signore tracciava simboli aguzzi su piccoli pezzi di carta e li legava con attenzione attorno alla sua zampa; quando giungevano in mano a Felicissimus, questi non li leggeva davanti a lui, ma gliene affidava degli altri, questa volta disegni. Non era in grado di comprendere la lingua del suo padrone e di Felicissimus, il Romano (così veniva chiamato al Nord), ma quei simboli sì, loro erano ben chiari nel suo cervello di pennuto. Nel corso degli anni erano divenuti sempre più scuri, sempre più premonitori di morte… non si sentiva più a suo agio nel percorrere il lungo volo.

Non trovò Felicissimus, perché attraverso il fumo ebbe difficoltà perfino a rintracciare la fullonica: per la prima volta si era perso! All’improvviso udì il canto a lui noto, la nenia, e decise di seguire le voci. Si imbatté in una ventina di individui, ognuno con in mano una torcia, intenti a scendere sotto il pavimento di un edificio molto grande: li seguì e si ritrovò in un corridoio buio e maleodorante, in fondo risplendeva il bianco marmo di una statua di giovane intento a uccidere un toro. Il canto si interruppe e per un attimo si udirono solo le urla di chi fuggiva, nella città sopra di loro. Lui saltellò poco convinto, fino a quando non fu raccolto da un uomo anziano, dalle mani raggrinzite: con gesto esperto gli sfilò il messaggio di Odino e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio da uccello. Immediatamente, nella sua mente presero forma due segni (rune le chiamavano lassù) e spiccò il volo più veloce che mai. Giunto ai piedi del trono del signore degli Asi, raccolse degli stecchi di legno secco e compose i segni. Quindi attese.

Il solitario occhio di Odino esaminò il disegno e annuì.

***

La città sotto di lui era irriconoscibile. Quasi completamente distrutta e ormai erano passati molti anni dall’ultima volta che era giunto a portare i dispacci, come poteva trovare il suo Felicissimus? E dove?

C’era ancora? E la fullonica?

Tutto cadeva in rovina, tranne poche case e quel luogo che spesso si riempiva di gente festante, il teatro – aveva sentito che lo chiamavano così.

Si fermò sul ramo di un pino e guardò dinanzi a sé: in lontananza la macchia rossa dei bellissimi fiori, dalla parte opposta, vicino al fiume, qualcuno stava accendendo dei fuochi e uccideva capretti e galletti. C’era un silenzio innaturale nelle strade che un tempo erano state piene zeppe di uomini e merci; pochi carretti si trascinavano stanchi sul basolato grigio, mentre alcuni schiavi svuotavano magazzini già diroccati.

A un certo punto dimenticò il motivo per cui era venuto, decise di godersi l’aria profumata e la brezza tiepida che arrivava dal mare; pensò che lassù il dio monocolo era già scomparso da tempo, ma gli aveva affidato un’ultima missione, lasciandolo poi libero di decidere della propria sorte. Pensò che, in fondo, quel luogo meridionale gli era sempre piaciuto e che spesso aveva desiderato trasferirsi sui pini e in mezzo ai papaveri.

Fece un respiro profondo e, in memoria dei vecchi tempi, annunciò la sua discesa con un verso gracchiante: mentre planava il suo occhio captò la statua della donna seduta e fu allora che vide quanti edifici avevano perso il tetto. Forte di questa nuova informazione riprese a guardarsi attorno, alla ricerca della fullonica. Finalmente gli sembrò di individuarla, anch’essa priva di tetto, ma soprattutto vuota, senza più liquidi né schiavi, non più avvolta dall’odore aspro di ammoniaca.

Decise di restare a terra e di saltellare, alla ricerca di Felicissimus; finalmente vide il viottolo e arrivò all’ingresso…di cosa, però? Non si trattava più di un edificio buio, ma il tetto era crollato e in parte era stato portato via, anche le pareti erano di poco più alte di lui. Si avvicinò guardingo ed entrò: il corridoio si apriva dinanzi a sé completamente illuminato dal sole del mattino e così si accorse, dopo tanto tempo, dei disegni che erano stati fatti sul pavimento con piccoli cubetti bianchi e neri.

Era bravo a riconoscere i segni, vedeva un bastone, due serpenti, una corona, un falcetto, una frusta, un cappello un poco a punta… bianchi e neri, neri e bianchi. Questi colori lo fecero fermare a pensare; raggiunse la fine del corridoio, una statuetta a lui familiare del giovane che uccideva il toro era lì, immobile e mutilata: al ragazzo avevano staccato la testa. All’improvviso ebbe freddo, un soffio di vento gelido aveva attraversato l’aria immobile e profumata. Tornò all’inizio del corridoio e pensò che aveva bisogno di riposare, così si sistemò nel primo riquadro, accanto al bastone con i serpenti e alla coppetta.

Restò lì, fermo e pensieroso e si concentrò sull’immagine di Odino e poi su quella di Felicissimus. Infine il suo cuore di uccello desiderò, desiderò intensamente di non lasciare più quel luogo a lui così caro.

*Nel culto mitraico, il corvo è l’animale che simboleggia l’iniziato al suo primo livello. Stando alla leggenda di Mitra, il corvo, inviato dal Sole, avvisò il giovane dio di rincorrere il toro cosmico e ucciderlo. Nella simbologia del culto, l’iniziato doveva indossare una maschera da corvo e veniva chiamato corax (corvo in latino), a lui era associato Mercurio, il dio messaggero, e il caduceo, il bastone con serpenti annodati che Mercurio stringe in mano nella sua versione di psicopompo – accompagnatore delle anime.

Nella mitologia nordica il corvo è associato ad Odino e da lui inviato come messaggero.

Questo racconto è tratto dalla raccolta “La Storia che vive”, la sesta edizione di Archeoracconto che si è svolta presso il Parco Archeologico di Ostia Antica. La foto è stata da me scattata presso il Mitreo di Felicissimus, nel parco archeologico.

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