Scherza coi fanti e lascia stare i santi

Ci sono serate di questa estate senza progetti che mi ispirano il gioco. La mente si accende in una serie di associazioni di idee e un particolare insignificante diventa il fulcro di una ricerca matta e divertitissima. Così, stasera ho deciso di rincorrere un santo ungherese!

Allo sfacciato (e ignaro) Cavaradossi che vaneggia di recondite armonie, il cappellano sibila in contrappunto “scherza coi fanti e lascia stare i santi”, io però, come lo scapestrato artista, decido di ignorare il saggio adagio e parto per Bamberg!

Storie dell’anno Mille

Il santo che attrae la mia curiosità ha un nome fin troppo noto: Amerigo. Inevitabile pensare al Vespucci, ma qual è il santo cui il celebre esploratore – e dunque anche il continente nuovo – deve il proprio nome? Sant’Amerigo è forma “dolce” di Sant’Americo, la versione italiana di un nome piuttosto diffuso in ambito sassone: Emerich.

Rincorrendo questo santo germanico si capisce subito una cosa: nessuno ha idea chiara né dell’etimo, né tantomeno dell’agiografia di Emerich. Se “rich” è abbastanza universalmente inteso come “governante”/”potente”, “emer” è variamente interpretato e addirittura legato a “heim”, cioè patria.

Sembra abbastanza chiaro che indichi una qualità di regnante o comunque di nobile. Ma quale Emerich è diventato santo? Cominciamo con l’individuare due possibili celebrazioni: una a novembre e l’altra proprio domani; in questa estate apparentemente noiosa decido che il “mio” Emerich/Americo verrà festeggiato il 15 luglio!

Per questo motivo la mia prima tappa è Bamberg, in Sassonia: perché l’Emerich di domani sembra essere stato “confessore a Bamberg”, ecco l’unica nota biografica che riesco a recuperare.

Ma non è verisimile, la traccia non può essere così flebile. Vediamo cosa si sa del santo del 4 novembre: San Emerich di Ungheria, nato nel 1006 e morto nel 1031.

Ecco, ora si comincia a ragionare…

Nomen omen

La storia di San Emerich, nato ad Alba Regalis, odierna Székesfehérvár, mi convince fin dalle prime battute. Il giovane dal nome che ispira un giusto governare è il principe ereditario del trono magiaro, figlio di Re Stefano I. Nella sua breve vita, Emerich è educato da un monaco benedettino proveniente da Venezia e il padre si impegna personalmente affinché il futuro re sia formato al governo giusto e illuminato.

Ma le cose andranno diversamente, il principe morirà giovane, e quindi la Storia confeziona per Emerich una biografia ricca di personaggi inventati ad arte e dai nomi estremamente suggestivi.

Nel 1022 Emerich si sposa, con chi? Alcuni dicono con la figlia di Costantino IX Monomachos, altri con la figlia di Romano III Argyro. Entrambi sono sovrani bizantini, contemporanei al Nostro: il “combattente solitario” e il nobile che fonda il suo lignaggio sui tesori accumulati (argyros è il denaro). Della prima ipotesi resta il nome della supposta sposa: Irene Monomachina, ovvero “la Pace che combatte da sola”, mentre meno battute sono altre due teorie, che legano il principe ungherese alla Croazia o alla Polonia.

Ditelo con i fiori

Eppure, il “governatore della patria” e la “pace che combatte da sola”, non sono destinati a un lungo matrimonio: come un Adone d’altri tempi, Emerich muore, ucciso da un cinghiale durante una solitaria battuta di caccia. E proprio come un eroe greco, le sue ossa vengono traslate cinquanta anni dopo la morte: quando troppo numerosi sono i miracoli e le guarigioni attribuite alle reliquie del giovane principe.

Emerich muore giovane, dunque, e viene raffigurato con un’armatura, segno del suo ruolo di principe e cavaliere, e con il giglio, simbolo di purezza, particolarmente caro alle cronache cattoliche (e curiosamente presente anche nelle tradizioni dei re taumaturghi).

Muoio disperato

L’agiografia di Emerich è scritta su di un canovaccio antico come il mondo: giovane, nobile, puro. Il principe consuma la vita prima ancora di poterla assaporare… e mi piace ricordare che i giardini di Adone si celebravano verso la fine di luglio, quando la canicola si prestava a “bruciare” velocemente i germogli di una vita appena accennata.

Chissà se “olezzava la terra” il giorno in cui il cinghiale decise di recidere la vita di Emerich. Chissà se il cinghiale sia mai esistito. Chissà se Emerich sia morto disperato.

Ma l’ora è fuggita per me, la ricerca ha dato qualche frutto insperato e da oggi Emerich sarà un po’ meno ignoto.

Le veloci ricerche da me condotte devono molto alle pagine di Wikipedia, chiedo venia.

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Quanto costa un mito?

“Al giorno d’oggi la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di niente”

Oscar Wilde, “Il ritratto di Dorian Gray”

Quando vuoi condividere la conoscenza delle passate civiltà, cerchi sempre di scegliere l’argomento più affascinante e provi quasi sempre un “colpo di teatro”, che cambi la prospettiva di chi ti sta seguendo. Ma puoi stare certa che otterrai l’attenzione degli astanti soprattutto affrontando temi della vita quotidiana degli antichi: come trascorrevano la giornata, dove abitavano, cosa mangiavano, come si vestivano, ecc.ecc.

Un’idea brillante

Perciò l’idea di Giovanni Marginesu e del suo “Il costo del Partenone” è un successo annunciato (e in effetti già in ristampa, a pochi mesi dall’uscita). Giovanni è innanzitutto un amico, con il quale condivido ricordi intensi dell’avventura ateniese presso la Scuola Archeologica Italiana in odòs Parthenonos, ma a livello accademico è uno studioso attento e ben noto per i suoi studi epigrafici, soprattutto legati alla storia di Atene e alle vicende degli edifici dell’Acropoli: la sua capacità di indagare la storia attraverso decreti, rendiconti, liste di magistrati, è affascinante. Giovanni è in grado di fare, letteralmente, parlare le pietre, soprattutto se iscritte e con indicazioni onomastiche!

Questa sua ultima fatica si allontana dagli ambienti paludati dell’accademia e si offre a un pubblico più vasto, invogliando fin dal titolo: “Il costo del Partenone. Appalti e affari dell’arte greca”. L’agile libro, completo di appendici che ci fanno entrare nell’economia quotidiana di una famiglia ateniese del V secolo a.C., propone un’analisi che ancora non avevamo trovato così chiara nella miriade di pubblicazioni sull’arte e sulla storia greca antica: cosa significa organizzare e sovvenzionare un’opera pubblica? Quali sono le figure coinvolte, quanto vengono pagate e da chi? Chi ha interesse a promuovere l’arte, quale è il rapporto tra pubblico e privato?

Costo o prezzo?

Il libro è articolato in 4 capitoli, ciascuno propedeutico alla comprensione del successivo. Giovanni Marginesu costruisce la sua analisi come un mosaico e ci fa entrare sempre di più nella mentalità antica, quella che ha sentito la necessità di creare oggetti d’arte che ancora oggi ci lasciano a bocca aperta. Ma ogni considerazione passa attraverso la lente della transazione commerciale e quindi per l’autore è fondamentale stabilire innanzitutto quali costi hanno le singole voci e qual è il prezzo dell’opera d’arte finita.

Ciò che è costato tanto in termini di materia prima e di manodopera, però, può in effetti avere un prezzo inferiore a un’opera meno complessa, perché le regole che determinano i prezzi spesso non seguono quelle più concrete dei costi. Una serie di appendici alla fine del libro aiuta il lettore a orientarsi nel paniere ateniese del V e IV secolo a.C. e permette di comprendere quale fosse il potere di acquisto di una famiglia mediamente benestante e ovviamente anche quello di una polis, una città-stato. Appare chiaro, dunque, fin dalle prime battute, che l’arte ha determinato un “mercato” ben definito, fatto di spese vive e di prestigio, di nomi famosi e di richiesta di visibilità.

Copia romana dell’Afrodite di Cnido
Musei Vaticani

Uno dei tanti esempi concreti che il libro ci regala per meglio spiegare il complesso rapporto di arte, economia e politica, riguarda la celeberrima Afrodite di Cnido ed è tratto dal resoconto di Plinio:

Prassitele avrebbe creato due statue di Afrodite, l’una vestita e l’altra nuda e le avrebbe messe in vendita contemporaneamente. I Coi avrebbero avuto diritto di prelazione e, considerando che il prezzo fosse lo stesso, avrebbero preferito la dea austera e pudica. Agli Cnidi spettò invece la statua scartata. Essa ebbe tuttavia un destino glorioso. Il re Nicomede, desiderando acquistare la statua, promise di estinguere in cambio il debito cittadino. Gli Cnidi declinarono, perché ormai la fama della polis era legata indissolubilmente alla statua di Prassitele.

“Il costo del Partenone”, p.66

Nello scorrere le pagine dedicate all’analisi dei prezzi delle opere di arte antica ci accorgiamo di una cosa, per alcuni versi, incredibile: i vasi, i protagonisti dei musei più prestigiosi di tutto il mondo, quegli oggetti che hanno corrotto gli animi di storici dell’arte e di archeologi, diventando merce di scambio e oggetti di contrabbando, proprio quei vasi a figure nere o rosse, di impasto più o meno depurato e decorati con scene diventate icone del mondo antico, ebbene, i vasi erano di certo gli oggetti meno di valore che il mercato dell’arte potesse offrire. La pittura era invece l’arte regina e i dipinti potevano arrivare a costare cifre enormi. Esatto, proprio quella forma d’arte antica che non ci è stata conservata, se non su rarissimi pinakes oppure, di riflesso, grazie ai cartoni che circolavano, nelle ridotte dimensioni della decorazione di alcuni…vasi!

La torre di Babele

Uno dei bellissimi disegni di Manolis Korres, l’architetto che dirige i restauri dell’Acropoli.

Tra le tante riflessioni contenute nel libro, che hanno catturato la mia attenzione, una in particolare mi ha fatto riflettere: la scelta di occuparsi del Partenone non è dettata unicamente dalla fama del monumento, ma è quella più ovvia se si vuole avere un quadro il più completo possibile dell’importanza della storia dell’arte nell’economia di una città (diremo meglio, di uno Stato, visto che si tratta di una polis greca). Il cantiere di un santuario, infatti, è un luogo in cui si riuniscono maestranze diverse, in cui si utilizzano diverse materie prime, e nel quale vengono utilizzati soldi pubblici, perciò acquista un chiaro valore politico. Culturalmente parlando è anche il luogo in cui si scambiano idee, lingue, usi e costumi: leggendo le parole di Giovanni ho pensato immediatamente all’episodio dell’Antico Testamento, che colloca la nascita delle lingue del mondo proprio in un …cantiere edile!

Perle

Il libro di Giovanni Marginesu nasce da un’esigenza concreta: colmare il vuoto dell’analisi del rapporto tra arte ed economia antica. Ma nel farlo, l’autore si lascia andare spesso in considerazioni profonde, che riguardano la materia a lui più congeniale: la storia greca antica, gli eventi quotidiani che preparano ai grandi avvenimenti.

Le grandi opere edilizie si situano in momenti preparatori alla guerra

“Il costo del Partenone”, p. 45

L’osservazione dell’autore è estremamente pregante: il Partenone come noi lo conosciamo e studiamo è il frutto di un preciso programma edilizio impostato da Pericle e dalla sua cerchia, nell’ottica di costruire l’immagine di un’Atene vittoriosa sui Persiani e sede del complesso santuariale più importante al mondo. Questa importanza è certamente misurata in valore artistico e in valore monetario: sulla collina dell’Acropoli si decide il ruolo dell’arte nel prestigio di una intera comunità. Una comunità che, proprio il giorno dopo aver completato la grande opera dell’Acropoli, si impegna nel conflitto che ne determinerà il destino ultimo: la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.).

Questo rapporto tra impegno edile e conflitto militare è rintracciabile anche altrove, per esempio a Rodi, sede del meraviglioso Colosso in bronzo dorato, protagonista di un interessante excursus in questo pamphlet.

L’affaire Partenone

Il centro del libro è ovviamente l’Atene periclea e le vicende che portarono alla ricostruzione degli edifici dell’Acropoli, tra il 447 e il 432 a.C. Dalle sabbie del tempo emerge l’affaire Fidia, l’architetto e scultore accusato di appropriazione indebita; dall’analisi di Marginesu si comprende che la questione dei finanziamenti fu estremamente complessa, costantemente monitorata, eppure utilizzata per strumentalizzare l’opinione pubblica. Forse una delle immagini più forti che emergono dal capitolo dedicato al Partenone è proprio quella della Parthenos che Marginesu si immagina solitaria, nella sua perfezione di marmo, quasi abbandonata all’interno del Partenone:

Creando il colosso, gli Ateniesi prelevano una porzione della loro ricchezza in argento e la trasformano, quasi per rallentarla. E la rallentano, trasformandola in oro e “incrostandola” in una statua.

“Il costo del Partenone”, p. 83

Conclusioni?

Dopo aver attraversato l’arte greca nelle vicende dei suoi protagonisti più noti e in quelle dei suoi artigiani, spesso dimenticati dalla grande storia, ci ritroviamo in un capitolo che problematizza quello che già ci era stato servito come estremamente complesso: il fenomeno del collezionismo antico. Giovanni Marginesu ci offre una serie di esempi, dal sacco di Corinto alle grandi manovre di Ottaviano Augusto, nei quali vediamo all’opera proprio ciò che è stato teorizzato fin dall’inizio: il rapporto tra arte ed economia.

Leggiamo dunque anche le conseguenze del mercato delle copie, estremamente fiorente, e ci incuriosiamo dinanzi alle testimonianze dei primi casi di turismo culturale, alla scoperta di luoghi ma anche e soprattutto di statue: l’Afrodite di Cnido, già ricordata, ma anche l’Eros di Tespie, Efeso con le riproduzioni del tempio vendute ai turisti e il Colosso di Memnone in Egitto, la statua “parlante”.

Infine, giunto il momento di tirare le fila del discorso, Giovanni Marginesu svela le sue carte migliori, quelle della riflessione e del parallelo con i tempi moderni:

l’arte diventa lo spazio in cui si realizza un meccanismo di allocazione di risorse che la comunità produce in avanzo. Esse vengono spostate su altri piani rispetto a quello delle necessità quotidiane, ed elevate su dimensioni come quella sacra (…) o quella della memoria collettiva (…)

“Il costo del Partenone”, p.103

Nelle ultime pagine viene poi ripreso l’esempio del quadro: un oggetto artistico nella cui valutazione risulta essenziale l’elemento fiduciario. Il valore del quadro non risiede nella sua materia, ma scaturisce dal valore funzionale, vincolato al contesto civico e ideologico. Con il quadro l’arte supera un limite e si sgancia dalla dimensione materiale, per abbracciare la dimensione della convenzione.

Ecco, quindi, il punto di arrivo del libro e quello di partenza delle nostre riflessioni di lettori:

L’arte intrattiene una relazione ancestrale e insospettabile con la moneta. Entrambe (…) ambiscono a realizzare la creazione di oggetti che siano mezzi di scambio, unità di conto e veicolo del valore. Entrambe basano la loro funzione sulla regola della convenzione.

“Il costo del Partenone”, p. 104

La nostra lettura è arrivata alla conclusione, ora sta a noi utilizzare questo agile libro per comprendere meglio il pensiero degli antichi riguardo alla produzione artistica, per seguire le tappe che hanno determinato la storia dei più importanti monumenti dell’antichità, e infine per riconoscere nella società contemporanea gli stessi meccanismi che creano l’arte, la presentano al migliore offerente e definiscono la distanza tra conoscitori e appassionati, tra ricchi e poveri.

Giovanni Marginesu
Il costo del Partenone
Salerno Editrice, 
168 pagine
15€ 
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Notturno #4

L’ultimo rintocco della mezzanotte è il momento in cui finalmente tutto quello che è accaduto durante la giornata comincia ad avere un senso.

Memorie dal Mediterraneo è una dichiarazione di intenti, più che il titolo di un blog, e forse è arrivato davvero il momento di ricordare in maniera più organizzata: chiedo a Chopin di ispirarmi e do inizio ad alcune brevi riflessioni, tra la mezzanotte e l’una.

Mito

Stasera vi offro Horowitz. Da piccola ascoltavo rapita mia madre parlarmi di lui: un pianista eccezionale, già molto anziano, che aveva un tocco sulla tastiera…impareggiabile. Forse perché le sua dita, anziché arcuarsi e imprimere una forza netta, decisa, restavano lunghe e distese, “piatte”, ed erano i polpastrelli a far scaturire dall’avorio e dall’ebano liscio quei suoni leggermente sporcati eppure perfetti.

Io, guardandolo in televisione, pensavo – sottovoce – che ricordava un poco il maggiordomo degli Aristogatti (!) Aveva un volto buffo, ma – a differenza del cinico maggiordomo – era sempre sorridente, sempre. Con lui la musica sembrava essere una compagna di giochi.

Ulisse

La mezzanotte sta per scoccare e io comincio ad ascoltare una conversazione: Edoardo Rialti, mio prezioso amico, dialoga con Tommaso Ragno. L’argomento è il Canto XXVI dell’Inferno della Divina Commedia; nel corso del Commento Collettivo, ideato e curato dalla rivista L’Indiscreto nelle persone di Francesco d’Isa e di Edoardo, Tommaso Ragno è chiamato a riflettere sul canto di Ulisse e Diomede.

Punti di vista

Ascolto il podcast di Edoardo e Tommaso Ragno e un poco sorrido: alcuni problemi di connessione creano dei momenti di silenzio di parole riempiti da un’eco di sonar, che cerca di ripristinare il ponte radio. E così, i due letterati, il critico e l’attore, come due personaggi di Dürrenmatt, si scambiano riflessioni sul mercante più astuto della storia greca, e lo fanno come se Tommaso Ragno fosse in collegamento da un sottomarino. Magari navigando sotto il mare color del vino, alla ricerca del senso più vero di un’idea archetipica: Ulisse.

Mentre ascolto gli scambi di ricordi e di emozioni legate alla figura dell’eroe di Itaca, penso al mio Ulisse e mi ritrovo a immaginarmelo su uno scoglio, a piangere: dietro di lui, in lontananza, la grotta di Calipso, con la ninfa seduta al telaio, a cantare. Ulisse invece è sulla riva e si commuove pensando che non c’è via di uscita, è condannato a rimanere su quell’isola, insieme alla ninfa e lontano da casa.

Anni dopo aver letto la scena per la prima volta, sono venuta a conoscenza della leggenda delle selkies, le creature marine che, stando alla tradizione scozzese, lasciano la loro pelle idrodinamica e diventano esseri umani, pronti a sposarsi con i pescatori o con le donne del villaggio più vicino. Una selkie può essere sia uomo che donna, una sorta di foca che si spoglia del tratto marino per indossare quello umano. Tuttavia, la nostalgia per la vita acquatica è molto forte e spinge le selkies a cercare la solitudine degli scogli per piangere di fronte al mare. Alcune non riescono a superare il dolore, indossano nuovamente la pelle di foca e si gettano in mare.

Mare

L’ora è fuggita, e io devo lasciare questo spazio notturno. Lo faccio con la nostalgia del mare: prendo la mia pelle di foca e mi reco sullo scoglio del mio inconscio. Sognerò probabilmente di alghe e salsedine, seguirò la scia luminosa che una luna immensa e bianchissima riflette sulla superficie increspata dell’acqua color velluto scuro.

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Notturno #3

L’ultimo rintocco della mezzanotte è il momento in cui finalmente tutto quello che è accaduto durante la giornata comincia ad avere un senso.

Memorie dal Mediterraneo è una dichiarazione di intenti, più che il titolo di un blog, e forse è arrivato davvero il momento di ricordare in maniera più organizzata: chiedo a Chopin di ispirarmi e do inizio ad alcune brevi riflessioni, tra la mezzanotte e l’una.

https://www.youtube.com/watch?v=8mvTq93HcP0&list=PLrc5kcEPpozKNdeJatoxHDLQrEOPf9gRl&index=15

Casa

Mi è difficile spiegare quali corde vengono toccate dall’ascolto dei notturni di Chopin. Immaginate una donna alta, magra, dai capelli che lambiscono le spalle e pettinati da una parte, biondo/castani. Lo sguardo concentrato, la bocca chiusa con le labbra strette, di tanto in tanto un lampo di rabbia negli occhi. Mentre le mani si muovono sulla tastiera e le pagine dello spartito vengono girate velocemente, perché tutta l’energia è concentrata nell’interpretazione.

Ecco, questa era mia mamma al pianoforte. E con questa immagine e il suono che ascoltate io sono cresciuta, tutta l’infanzia e l’adolescenza, e parte dell’età adulta. Perciò Chopin è quello che mi rimane, l’impronta di quegli anni fatti di dolore ma anche di immense gioie.

Un brano di musica classica, soprattutto Chopin, io lo abito come se fosse una stanza della casa della mia infanzia, la più accogliente.

Tempo

Negli anni delle medie mi capitò di dover scegliere un argomento per una tesina di educazione artistica: forse prefigurando gli interessi futuri, scelsi “la casa nel tempo”. Oggi sorrido di quel lavoro premonitore e penso a quante abitazioni antiche ho cercato di studiare e di scavare, negli anni dell’archeologia sul campo. In fondo, proprio questo è stato l’aspetto che mi ha sempre affascinato del mestiere, la possibilità di conoscere la vita quotidiana degli antichi. Perfino la religione l’ho sempre declinata al quotidiano, come quando mi imbarcai nello studio del culto di Iside in Grecia: arrivato per mare attraverso i canali dell’élite e approdato inizialmente nei sacelli privati, sotto forma di immaginette, e poi nei templi del dio guaritore – Asclepio – dove il contatto con le fasce più modeste della popolazione era inevitabile, anzi auspicabile.

Tempio

Forse i santuari che mi interessano di più sono quelli che mantengono chiara la loro struttura di base: una ierà oikia (casa sacra) che resta come sacello e attorno alla quale si sviluppa il resto del santuario. In fondo, costruire un tempio significa invitare il dio a risiedere in mezzo a noi.

Eroi

A proposito di questo argomento, mi torna in mente un luogo davvero magnifico: una casa di età geometrica, a Lefkandì (isola di Eubea, Grecia), dove gli archeologi hanno trovato due sepolture sotto il pavimento al centro della casa, la porta sigillata, e un cimitero piuttosto ben nutrito, formatosi di fronte alla porta sigillata. Tra i tanti articoli che vi potrei indicare ho scelto questo: https://www.storiaromanaebizantina.it/il-sito-di-lefkandi/ (non chiedetemi perché compaia in un sito sulla storia romana e bizantina…).

Il fascino del c.d. heroon di Lefkandì consiste proprio nella sua semplicità: non si tratta di un tempio imponente, né di un edificio eretto su un luogo scenografico, ma di una casa, probabilmente appartenuta alla famiglia più eminente della comunità, che diviene luogo sacro, al punto da orientare la sepoltura degli altri abitanti. In pochi metri troviamo la quintessenza del concetto di “comunità” e io, al solito, sguazzo in questa umanità alle prove generali.

Trillo

Anche Chopin indulge nei trilli, che però nelle sue partiture a me suonano un po’ troppo vezzosi: interrompono la sequenza di note malinconiche. Il mio “trillo” di oggi è stata una serata diversa da quelle degli ultimi 3 mesi: passeggiata in amicizia lungo l’Arno e cena alla Festa del Mugello! Questa sera la luce fiorentina disegnava ombre anche dove non potevano esserci, dava profondità anche alle pozzanghere e scolpiva le nuvole lasciandoci senza fiato e con un largo sorriso – sotto le mascherine.

Rubinstein continua a suonare e lo scopro incredibilmente simile alla bionda signora che metteva ogni fibra del suo corpo e del suo cuore nell’interpretazione del compositore polacco.

Stasera forse mi servono davvero i trilli, per distendere i nervi accavallati dalle settimane di tensione. Mi immagino una elfica arpista che giochi con i miei nervi, sussurrando parole nella lingua segreta e districando le corde dell’emotività. La stanza si riempie di nobiltà decaduta e di camerieri in livrea che offrono liquidi liquorosi in bicchieri dai nomi francesi. Chopin è seduto al pianoforte ed esegue la sua ultima composizione: gli occhi concentrati sullo spartito, le labbra chiuse in un accenno di smorfia arrabbiata, la mano che gira le pagine è la stessa che ogni tanto sistema nervosa il ciuffo.

Io lo guardo e penso a quella signora biondo/castana seduta nella grande sala.

Chopin plays piano in Radziwiłł’s Berlin salon at Palais Radziwill (Henryk Siemiradzki, 1887)
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