Riesci a vederlo?

Sabato santo, Radio Tre trasmette il Parsifal, uno dei racconti elaborati da Richard Wagner intorno al tema della ricerca del Graal. La musica riempie la stanza di ineluttabilità, c’è un senso profondo di predestinazione negli accordi, interrotti dal canto austero o disperato dei protagonisti.

Il Graal si può dire che abbia accompagnato il mio percorso educativo: la “coppa di un semplice falegname” nella versione di Indiana Jones, la ricerca sgangherata dei Monty Python, le trame d’opera di un vecchio libro enciclopedico appartenuto alla prima arpa del Comunale di Firenze, il ciclo arturiano nei quadri preraffaelliti e infine la versione di Marion Zimmer Bradley.

L’eroina della Bradley è Morgaine, quella che da tutti gli altri autori viene utilizzata come antagonista, e la scena dell’apparizione del Graal è estremamente suggestiva, un colpo di teatro, si potrebbe dire: Morgaine è la sacerdotessa del lago che torna a Camelot dopo anni, ma l’energia che promana dal suo gracile corpo la trasfigura, perciò gli astanti non si rendono conto di chi hanno dinanzi e pensano di essere testimoni dell’apparizione di un angelo. La coppa in questione era stata conservata ad Avalon, nel luogo più sacro, utilizzata per i rituali delle sacerdotesse. Solo distrattamente veniamo ricordati del fatto che probabilmente era stata portata lì da Giuseppe di Arimatea.

Dal ciclo di arazzi commissionati a Morris & Co. da William Knox d’Arcy nel 1890 per la sua sala da pranzo. Questa è la scena in cui la fanciulla chiama i cavalieri a partire alla ricerca del Graal. https://en.wikipedia.org/wiki/Holy_Grail_tapestries

Allora è davvero il “vaso”, il recipiente (vd Graal in Treccani) sottratto dalla tavola dell’ultima cena di Gesù di Nazareth? O forse, ancora meglio, quello utilizzato per raccogliere il sangue di Gesù morente? Un oggetto che il buon Frazer avrebbe senza dubbio definito magico, un collettore di energia, il simbolo di un sacrificio estremo, dato che il vino rosso che ha contenuto è immediatamente associato al sangue versato dal Cristo. Parafernalia di un culto orientale che cerca di distinguersi dai cugini pagani, il Graal approda ad Avalon insieme ad altri strumenti di culto, ma è l’unico a guadagnarsi la fama di reliquia inestimabile.

In fondo, nel vaso/calice, risiede il potere più grande di un culto: quello di essere condiviso e di con/av – vincere altri adepti. Così, il calice passa di bocca in bocca in quella mattina assolata a Camelot, e a porgerlo è una figura angelica, che subito dopo scompare – insieme al Graal.

Ritrovare quel calice, bere nuovamente da quella coppa, sperimentare di nuovo quella sensazione appagante di condivisione, ecco cosa significa la ricerca del Graal. E così, la leggenda che vanta il maggior numero di varianti nella storia della tradizione, offre ai monarchi cristiani il canovaccio su cui mettere in scena il proprio potere divino e ai cavalieri fornisce il codice etico cui uniformarsi.

Robin Williams in “Il Re Pescatore” di Terry Gilliam (1991). Il Re Pescatore è l’ultimo di una stirpe di Re guardiani del Graal, secondo il ciclo arturiano.

Il Graal ha il potere di guarire. Le leggende che nascono intorno al Graal parlano di malattie fisiche, solitamente ferite che non si rimarginano, ma non si accontentano di presentare un’allegoria facilmente manipolabile, aggiungono che, chiunque abbia la ferita inguaribile, è anche afflitto da una tristezza profonda, inconsolabile, e da un male di vivere che toglie luce agli occhi. Dunque il Graal guarisce l’anima, prima che il corpo. Perciò il cavaliere che lo raggiungerà dovrà essere decisamente un puro di spirito, nella versione ripresa da Wagner addirittura un “folle”, inteso come ingenuo e innocente.

Giuliano Pini, Lohengrin. Con Lohengrin il cigno è protagonista e sottolinea la purezza dell’eroe, ma anche un valore ultraterreno, il legame con il divino.

L’innocente in questione – Parsifal – entra in scena dopo aver ucciso un cigno: la leggenda parla di un “animale sacro”, senza dare ulteriori spiegazioni, ma il cigno è l’animale associato alle Valchirie, è un candido animale acquatico che può trasformarsi in fanciulla, è, in altre parole, la versione norrena delle ninfe mediterranee. Il cigno è una creatura che accompagna rivelazioni e trasformazioni, dello spirito soprattutto. Per questo è sacro. Senza cigni ma circondato da donne che lo tentano, ecco come Parsifal si prepara a superare le prove che lo dovranno definire degno di ricevere il Graal.

Ma noi che “leggiamo avanti” sappiamo che tutto l’affannarsi di cavalieri, re e dame, è cosa ridicola dinanzi al Graal e al suo potere taumaturgico e rinnovatore: il Graal è sempre stato lì. Il re lo deve “disvelare” (anakalypto/apokalypto) e per convincerlo è necessario rivolgere la giusta domanda al sovrano, oppure bisogna essere inondati dalla Grazia divina e allora il velo cadrà dinanzi ai nostri occhi.

Cosa che, puntualmente, accadrà al giovane Galahad, figlio di Lancillotto del Lago, nipote – perciò – della Dama del Lago, versione anglosassone di quelle ninfe mediterranee che rapivano giovani uomini in prossimità di specchi d’acqua nei boschi: di solito si moriva (vd Hylas e le Ninfe), ma l’idea di fondo era che i giovani diventassero gli iniziati di un culto sacro di rivelazioni (vd. il commento di Servio al libro IV delle Georgiche di Virgilio, quando fa riferimento a rapimenti rituali in Egitto, dove i ragazzini erano tenuti lontani dalla città per un anno, accuditi da donne in grotte).

La ricerca del Graal è la ricerca di Sé declinata secondo la sensibilità cristiana, che rifiuta il ruolo di guida che da secoli le donne avevano esercitato sui giovani uomini. La protagonista femminile del Pasifal, Kumry, viene esorcizzata attraverso la conversione.

Arthur Hacker, Parsifal with the Grail Cup, 1894 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Hacker_Arthur_Percival_with_the_Grail_Cup.jpg

Nel racconto di Eschenbach, cui si rifà Wagner, Parsifal riappare nei giorni della Pasqua e finalmente riesce a ritrovare il castello del Graal, ma non a vedere il calice, che resta il premio solo per pochi eletti.

E tu, riesci a vederlo?

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St. Agnes! Ah! It is St. Agnes’ Eve!

The Eve of St Agnes 1856 Arthur Hughes 1832-1915 Bequeathed by Mrs Emily Toms in memory of her father, Joseph Kershaw 1931 http://www.tate.org.uk/art/work/N04604

Il 21 gennaio del 304 d.C. la piccola Agnese, tredici anni, viene trucidata a Roma. Il suo credo cristiano la rende una delle più giovani martiri ricordate dagli annali e le affida il ruolo di protettrice delle giovinette: torturata e violentata, ci dicono le cronache, uccisa per taglio della testa, sul suo cadavere si infierisce con il fuoco. Infine le spoglie vengono sepolte nel cimitero sulla Nomentana e sulla sua tomba si recano in pellegrinaggio le giovani, o le coppie di fidanzati; chiedono protezione della propria castità, oppure benedizione per un amore giovane e vissuto seguendo gli insegnamenti cristiani.

Un esempio semplice e destinato a perdersi tra i mille volti di cristiani del IV d.C., secolo di persecuzioni e di consacrazioni, il vero punto di svolta della diffusione del Cristianesimo. Se non fosse che il folklore inglese si appropria della figura della giovane santa e crea una consuetudine di sicuro fascino, rivolta proprio alle giovinette in cerca di marito.

“Agnes sweet, and Agnes fair, Hither hither now repair: Bonny Agnes, let me see, the lad who is to marry me”.

Detto scozzese

Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio, la notte di Sant’Agnese, le ragazze che cercano un marito dovranno seguire un rituale ben preciso:

They told her how, upon St. Agnes’ Eve,
       Young virgins might have visions of delight,
       And soft adorings from their loves receive
       Upon the honey’d middle of the night,
       If ceremonies due they did aright;
       As, supperless to bed they must retire,
       And couch supine their beauties, lily white;
       Nor look behind, nor sideways, but require
Of Heaven with upward eyes for all that they desire.

John Keats, Eve of St. Agnes, stanza 6

A letto senza cena, completamente nude e distese supine, con gli occhi rivolti verso il soffitto. In questo modo, durante il sonno, sogneranno il futuro sposo. Una variante è registrata in Scozia, dove, intorno a mezzanotte, dovranno recarsi in un campo a spargere del grano, recitando una filastrocca di invocazione a Santa Agnese (vd sopra).

Ci sono molti aspetti affascinanti in questi rituali, che attingono sia alla simbologia rurale del grano come allegoria della famiglia, sia a quella classica dell’oneiromanzia e del messaggio divino che giunge nel sonno. Significativo anche il periodo dell’anno scelto per il rito: siamo infatti ancora nell’ambito magico delle celebrazioni natalizie, dove la pausa forzata dovuta al clima e alla poca luce, richiede divertimenti, promesse, giochi anche maliziosi, un rapporto con il divino forse più goliardico. Dopo la dodicesima notte, quella tra il 5 e il 6, che spinge al trasformismo e al divertimento, ecco la notte di Sant’Agnese che gioca con le ragazzine indifese e con i loro sogni meno pudichi.

Un poeta poco romantico

Il 20 gennaio del 1819 John Keats è a Chichester; qui visita la cattedrale, restando affascinato da una tomba di cavaliere che diventerà il protagonista de “La Belle Dame sans Merci”, e viene ospitato da una coppia di amici. Il suo amore è solidamente affidato alle belle ciglia di Fanny Brawne e, nonostante la salute molto cagionevole, il giovane poeta è pieno di passione per la ragazza cui vuole promettersi. La ricorrenza di Santa Agnese gli ispira dunque una ballata, che però risulta troppo “osata” ed esplicita e così deve mettere mano a una seconda versione, più gentile e sussurrata.

Madeleine, la protagonista della ballata, è innamorata di Porphyro, ma le rispettive famiglie osteggiano la loro unione. Così, la notte di Sant’Agnese, mentre la ragazza segue il rituale sognando dell’amato, Porphyro, più pratico, si introduce furtivamente nella sua stanza, aiutato dall’anziana balia, e si nasconde nell’armadio, da cui esce per realizzare il sogno audace della fanciulla. Una volta “consumato” il doppio sogno, Madeleine decide di scappare con lui.

Galeotto fu il dipinto

Nella irresistibile ascesa del pensiero e della pittura preraffaellita, le ballate di Keats giocano un ruolo importante, perché i giovani pittori si lasciano spesso affascinare dalla sensibilità poetica dello sfortunato autore e traducono su tela alcune sue immagini letterarie. Ma i Confratelli vengono a conoscenza del lavoro di Keats attraverso l’insegnamento di Alfred Tennyson, brillante poeta inglese che canta del folklore, di Artù, dei sogni e degli incubi degli inglesi in cerca di sollievo dal nuovo, grigio, progresso della Rivoluzione Industriale.

Tennyson riprende le poesie di Keats e dà loro quella popolarità che non erano riuscite a ottenere durante la breve vita del giovane poeta. In alcuni casi Tennyson le rielabora, per esempio nel caso della Eve of St. Agnes: nel 1837 pubblica “St. Agnes’ Eve”, versione più breve e più romanzata. Perciò è a tale versione che dobbiamo la fortuna del tema nei quadri preraffaelliti.

Nel 1848 William Holman Hunt espone alla Royal Academy un quadro dal titolo “The flight of Madeleine and Porphyro during the Drunkenness attending the revelry” e ritrae Porphyro e Madeleine che escono di soppiatto dal palazzo della famiglia di lei, approfittando della ebbrezza delle guardie, impegnate in festeggiamenti.

William Holman Hunt. [Eve of Saint Agnes] The Flight of Madeleine and Porphyro during the Drunkenness attending the Revelry. Oil on canvas. 1848. 75 x 113 cm. Collection: Guildhall Gallery, London. Reproduced courtesy of the City of London Corporation. 

Proprio questo quadro spinse Dante Gabriel Rossetti, che aveva già visto opere di Hunt, a contattare l’autore per proporgli di fondare la Confraternita dei Preraffaelliti. Hunt si rivelò il più severo dei confratelli, colui il quale più di altri attribuiva alla pittura una funzione quasi salvifica e infatti già riguardo questo suo dipinto egli commentò di aver scelto il soggetto pensando al contrasto tra la purezza di un amore onesto e la debolezza di un’orgogliosa intemperanza (quella evidentemente delle guardie ubriache). Dunque questo dipinto è una pietra miliare, sia nel complesso rapporto tra Preraffaelliti, sia nella scelta personale di William Holman Hunt, il cantore dell’etica e dei sentimenti puri.

Galeotta fu la Scozia

St. Agnes’ Eve (1854)
Sir John Everett Millais
Pen and sepia ink with green wash
Private Collection (fotocredit www.victorianweb.com)

Anche John Everett Millais fu affascinato dal racconto di Madeleine e Porphyro e decise di tradurlo su tela. Millais è il terzo “moschettiere” dei Preraffaelliti: a Rossetti, Hunt e Millais si aggiunsero altri quattro pittori, in quel settembre del 1848, ma i tre rimasero i padri fondatori per antonomasia. Il quadro però giunse nel 1853 e risultò ispirato alla versione di Tennyson, il quale aveva usato come voce narrante quella di una suora: nella notte in cui le giovani vergini sognano il loro amore e in cui Madeleine e Porphyro riescono finalmente a esaudire il loro sogno, la suora pensa malinconica alla sua condizione verginale, che mantiene pura per lo sposo celeste.

Stando a Effie Gray, Millais aveva voluto ritrarre se stesso in quel volto illuminato dalla luna, pieno di speranza eppure anche rassegnato. Effie era la moglie di John Ruskin, il critico d’arte divenuto mentore dei Confratelli, e nell’estate del 1853 aveva accompagnato il marito in un viaggio in Scozia, dove aveva incontrato il giovane Millais. Tra i due era scoppiata la passione, struggente per John Everett, perché la donna amata era sposata al suo amico e benefattore!

Ma John non sapeva che il matrimonio tra Effie e Ruskin non era mai stato consumato, che esisteva solo di facciata e dunque fu velocemente annullato, in capo a un anno Millais ed Effie erano sposi! Grazie, St. Agnes!

Una giovane promessa

Nel 1857 un giovane pittore, Arthur Hughes, presenta la propria versione della Notte di Sant’Agnese: un quadro composito, con tre pannelli dipinti su una tela unica e distinti grazie a una cornice che isola i tre momenti della storia. L’aggiunta della Stanza n.6 della poesia di Keats (vedi sopra) funge da didascalia poetica della scena.

The Eve of St Agnes 1856 Arthur Hughes 1832-1915 Bequeathed by Mrs Emily Toms in memory of her father, Joseph Kershaw 1931 http://www.tate.org.uk/art/work/N04604

Anche grazie a questo dipinto, esposto alla Royal Academy, il giovane Hughes si guadagnerà l’ingresso nella Confraternita. Ecco il commento di Ruskin:

‘A noble picture, apparently too hastily finished, and very wrongly put into this room … The half-entranced, half-startled, face of the awakening Madeline is exquisite’

Una versione aggiornata

Ma l’avventura della Notte di Sant’Agnese nell’immaginario preraffaellita non si ferma qui. Nel 1863, quando ormai le strade dei fondatori si sono divise, Millais torna sul tema e decide di affrontarlo in maniera diversa. Il suo destino è nell’Accademia, quasi rifiutando i principi rivoluzionari che lo avevano portato a solidarizzare con Rossetti e Hunt, perciò quello che vediamo non è un “tipico” dipinto preraffaellita. E il soggetto questa volta non è la suora, John Everett non sta più patendo le rinunce dell’amore, anzi è felicemente sposato e più volte padre con la sua Effie. Forse per questo, ora il suo soggetto è Madeleine, qualche minuto prima di svestirsi…

John Everett Millais, Madeleine Undressing [immagine wikicommons]
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Vieni giù un attimo

…Hear us, Michael,

Greatest angel,

Come down a little

From thy high seat,

To bring us the strength of God,

And the lightening of His mercy…*

Alcuin, Sequence for St Michael 
tradotto in inglese da Helen Waddell, Medieval Latin Lyrics 
(New York, 1948), pp.91-3

Il 29 settembre è una data che ho imparato a gustarmi e pregustarmi; da ragazzina la associavo ovviamente alla canzone dell’Equipe ’84, che mia madre non mancava di citare, ogni santo ventinove settembre, la mattina, prima di andare a scuola.

https://www.youtube.com/watch?v=71EFsQvQXxM

Quella data mi suggeriva pantaloni a zampa di elefante, una voce sgraziata, il motivo orecchiabile, pensieri di tradimenti giocosi.

…he is to take possession before Michaelmas**

Jane Austen, Pride and Prejudice

Non ricordo quando ho cominciato a sollevare il velo pop e a guardare negli occhi una delle tradizioni più suggestive: San Michele Arcangelo (insieme a Gabriele e Raffaele), che in Gran Bretagna e Irlanda corrisponde a una delle quattro date in cui viene diviso l’anno.

Michaelmas, ovvero “la messa di San Michele”, è tradizionalmente (per gli anglosassoni) il giorno in cui si passa dall’estate all’autunno, quando il raccolto è concluso e i lavoratori stagionali presso le fattorie si danno il cambio e ricevono la paga. A San Michele vengono fissati i traslochi, i rinnovi di contratto. L’intera, struggente, vicenda di Orgoglio e Pregiudizio, si svolge – molto simbolicamente – tra due San Michele: lo spazio di un anno solare calcolato sulla data così significativa per chi abitava in campagna.

Il 29 settembre solitamente si cominciava il semestre autunnale alle Università. A Londra, San Michele è il giorno in cui si elegge il nuovo sindaco.

Celebrato opportunamente vicino all’equinozio, Michaelmas – dicevamo – è uno dei quattro giorni cardine dell’anno da lavoratori timorati di Dio: si comincia con il Giorno della Signora, il 25 marzo Annunciazione di Maria, quindi San Giovanni o “mezza estate”, il terzo è San Michele e infine Christ-mas, cioè Natale.

In un gioco di solstizi ed equinozi trascorre il tempo del contadino e dello studente, dell’avvocato e del bottegaio. E questa tradizione dura ancora oggi in alcune aule di tribunale o nell’organizzazione dell’anno accademico.

Il gioco dell’oca

Sembra che, per celebrare San Michele, venissero organizzate, fin dall’età medievale, sagre a base di oca.

“Eat a goose on Michaelmas Day,

Want not for money all the year”.***

Detto popolare

Bestiario Medievale

Il giorno di San Michele bisogna mangiare un’oca per garantirsi fortuna e soldi tutto l’anno. Tuttora pare che la fiera di Nottingham sia la più celebre per le oche di Michaelmas.

Ecco che quindi prende corpo l’immagine di una festa pagana, la più rurale a cui possiate pensare, che la Chiesa cattolica (poi anglicana) decide di fare propria e cristianizzare, schierando giustamente un pezzo da novanta: l’Arcangelo che sconfisse il drago!

“Il gran principe”

Nell’Apocalisse Giovanni ha una visione chiara dello scontro epico tra il drago/Satana e Michele, l’Arcangelo, il Condottiero. Scintillante nella sua armatura, Michele sconfigge Lucifero che cade, ancora, misero, questa volta – dicono i britannici – su di un rovo di more. Il tabù relativo prevede che queste bacche non si debbano raccogliere dopo l’11 ottobre (antica data del giorno di Michaelmas).

Mi piace troppo questa idea della festa d’autunno dipinta secondo quadri a tinte forti: la battaglia tra la luce e l’ombra, tra l’estate e l’autunno, raffigurata come scontro tra Dio e il Diavolo, ma con una patina casereccia che fa rotolare il notevole deretano sui rovi di bacche succose (e nere!).

Di Michele potrei parlare per ore, tanto importante è la sua figura nel traghettare la luminosa energia biblica attraverso le acque più torbide e complesse della religiosità bizantina e infine nel mondo gretto e scurrile dell’Europa alto medievale. Preferisco concentrarmi sulla data simbolica di tale passaggio: un 29 settembre che suggerisce proprio quell’essere in bilico, sul limitare della nuova stagione e del nuovo mese, concentrati sulla gamba sospesa che sta per compiere il passo.

Oppure sui due piatti della bilancia che proprio Michele tiene in mano in una versione cristiana della “pesatura delle anime” di egiziana memoria.

Un Arcangelo in equilibrio, tra Bene e Male, tra Pagano e Cristiano, tra il mondo rurale e quello moderno.

Chiesa di Santo Stefano e della Santa Sofia a Soleto (Lecce): particolare di San Michele che pesa le anime.
Le pareti sono completamente affrescate con scene dall’Apocalisse, dal Giudizio Universale, dalla vita di Santo Stefano e da altri passi biblici. Si datano alla fine del XIV secolo.

* Ascoltaci Michele / Grandissimo angelo / vieni giù un attimo / dal tuo alto trono / per portarci la forza di Dio / e la luce della Sua misericordia

** dovrebbe trasferirsi prima di San Michele

*** Mangia un’oca il giorno di San Michele/ non avrai bisogno di soldi per tutto l’anno

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“Il bosco mi culla”

L’anno scorso mi trovai tra le mani un libro Iperborea dalla copertina ipnotica: un orso e una ragazza, ritratti quasi come in una Matrioska sezionata. Pensai di prenderlo, ma solo la settimana scorsa ho deciso di regalarmi il libro. E, come molto spesso mi accade, “Cucinare un orso”, di Mikael Niemi, è arrivato proprio quando era più atteso, necessario quasi. Ho trascorso pochi giorni intensi a leggere il romanzo dello svedese Niemi e ora mi trovo orfana di Laestadius, il pastore che interrogava le piante.

“Il bosco mi culla”

Odori, ecco quello che ti lascia la lettura di “Cucinare un Orso”. Odori e colori, immagini. Sensazioni di acquitrini, torbiere, freddo. Il burro e l’avena, ma soprattutto…le patate!

La voce narrante è quella di Jussi, un sami salvato dal profeta del Risveglio: Lars Levi Laestadius. Inevitabile riconoscere in questa strana coppia di padre (pastore di anime) e figlio acquisito un Guglielmo da Baskerville e Adso in versione scandinava.

Il botanico della terra dei fiordi, che sogna di conversare con Linneo e che dà il via a una nuova religione, è infatti assai simile al principe della deduzione creato da Umberto Eco. E se Eco aveva attinto direttamente alla topografia holmsiana (Baskerville), Niemi, dopo aver suggerito a Laestadius i principi della nascente scienza delle impronte digitali, ce lo descrive tracciando una silhoette fin troppo nota:

(…) vidi che si era messo un bizzarro cappellino con la tesa e aveva alzato il colletto della mantella, come se avesse freddo. Il suo profilo spigoloso aveva un’aria profondamente assorta.

“Cucinare un orso”, p.339

Esattamente come Adso, il nostro Jussi è sedotto dal piacere della carne, che però per lui non è solo scoperta, è proprio innamoramento. Tanto che la “Rosa” sarà personaggio fondamentale per lo svolgimento della trama.

Libri

Un altro aspetto che traccia la linea retta di congiunzione con l’opera di Eco è la presenza dei libri: Laestadius possiede una ricca biblioteca, una rarità soprattutto nel modesto villaggio in cui risiede. Alcuni dei volumi sono opere sue, dedicate alla classificazione delle piante; perciò cerca di trasmettere a Jussi non solo l’amore per i libri tout-court, ma anche la passione per la lettura. E non manca di fare riferimento agli anni trascorsi all’Università. La cultura di Laestadius, tuttavia, è insidiosa: proprio come accadeva a Guglielmo, anche Lars Levi rischia di cedere alla tentazione della superbia. Il suo capire, dedurre, collegare gli indizi, lo porterà a rischiare vite innocenti, pur di dimostrare di avere ragione.

Apprendista stregone

Jussi è il buon selvaggio: ricorda la figura semileggendaria di Victor, comparso un giorno imprecisato del 1797, completamente inselvatichito dalla lunga frequentazione di boschi, foreste e animali. Laestadius è intenerito dal piccolo sami e lo accoglie per allevarlo come fosse suo figlio. Proprio per questo, il punto di vista di Jussi nel raccontare gli eventi è per noi prezioso: ascoltiamo le sue parole di figlio negletto “della strega”, fratello amorevole del “leprotto”, e vagabondo della natura.

Ma la vera poesia di Jussi è nel modo in cui si affeziona al pastore e alla magia che su di lui esercitano i libri, e leggere, e scrivere. Per lui la scrittura è davvero l’unico modo di sopravvivere:

Grazie per avermi registrato nel libro, altrimenti non sarei mai esistito

“Cucinare un orso”, p.504

Ogni volta che deve scrivere (non dimentichiamo che il suo ruolo è quello di Watson) il suo primo gesto è pulirsi le mani: solo così si sente proto a tenere in mano un foglio e una matita. Un rituale dolce e pregnante, soprattutto se fatto da un sami, che la tradizione assegna a una famiglia di noaidi, di sciamani.

Sciamani

La Siberia ci regala gli ultimi sciamani riconosciuti e tra le caratteristiche che rendono un uomo uno sciamano si contano l’essere emarginato dalla società e l’avere una qualche malformazione (congenita oppure provocata), soprattutto un qualche difetto nel camminare.

Seguendo gli insegnamenti del pastore Laestadius, Jussi riscopre le radici stesse dello sciamanesimo della sua gente: diventa esperto di erbe, impronte, odori, sapori. Legge i segni della natura e li interpreta.

E così l’orso del titolo non viene cucinato, anzi, appare e scompare quasi subito, eppure è una figura che aleggia, è la personificazione stessa di una natura che ci vuole parlare, che magari consideriamo crudele, ma solo perché non siamo in grado di interpretare i suoni gutturali con i quali ci parla.

Risvegli

“Cucinare un orso” è il racconto dei dubbi di un cristiano, Laestadius, che vuole riformare la Chiesa e si batte per i più deboli e il popolo. Che contrasta il commercio di acquavite, perché vede come si riducono i suoi fedeli, soprattutto i più poveri. E proprio quei poveri che vuole salvare potrebbero portarlo alla rovina, perché ben presto le sue prediche diventano luogo di estasi e trance: cosa stanno facendo gli abitanti di Palaja, e quelli del Nord della Svezia? Si stanno trasformando, anche loro, in sciamani? Senza che Laestadius abbia detto loro niente, questi fedeli hanno pensato al risveglio come a uno stato di alterazione che li faccia uscire dal torpore e scateni i loro animi imprigionati nel più severo luteranesimo.

Ma è anche il racconto di un grande sciamano: Laestadius era un sami, che aveva deciso di abbandonare la tradizione della sua gente per diventare un pastore cristiano e salvare, con la parola, la catechesi, e l’aiuto concreto, i Sami bistrattati dagli Svedesi. Eppure, la sua matrice sami non svanisce, anzi, fa sì che lui possa diventare un grande botanico: leggere, dunque, i segni della natura, proprio come farebbe uno sciamano sami. Così, gli incubi che spesso scuotono le sue notti, non sono altro che la lotta tra la propria coscienza e la propria natura: chi vincerà?

Omaggio

“Cucinare un orso” vuole essere un romanzo storico: preziosa la appendice in fondo al libro, che svela i meccanismi che hanno spinto Niemi a ricostruire una fittizia vita del padre dei Laestadiani.

Ma è anche la discesa e la risalita di un giovane sami. Il tormento di un uomo che riconosce Dio attorno a sé, ma non si fida degli uomini. La rassegnazione di una moglie che cerca di spiegare al marito l’importanza di coinvolgere sempre più donne nella catechesi del Risveglio.

Infine, è un inno al rapporto tra uomo e natura; se vuoi fare lo sciamano, abbandonati in grembo alla natura, ascolta annusa annota, e ricchi scrigni di tesori si apriranno dinanzi a te. La natura, che noi chiamiamo madre o matrigna…e se invece fosse un padre?

Mi sveglio in uno sconfinato silenzio. Il mondo attende id essere creato. L’oscurità e il cielo mi circondano. Resto disteso, gli occhi fissi sull’universo come due pozzi profondi, ma lassù non c’è niente, nemmeno l’aria. Nel silenzio il mio petto è scosso da un tremito sempre più forte. Gli spasmi si fanno più intensi, qualcosa là dentro sta crescendo e minaccia di evadere. Mi divarica le costole, come sbarre di una gabbia. Non c’è niente che io possa fare. Solo cedere a questa forza spaventosa, come un bambino che striscia a terra in balìa di un padre infuriato, senza mai sapere dove affonderà il prossimo colpo. Quel bambino sono io. E sono anche il padre.

Incipit di “Cucinare un orso”
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