Diario da Licodia – quale memoria?

Caro diario,

i giorni a Licodia Eubea sono scanditi dalla parola “sessione“: pomeridiana, serale, mattinata, visite guidate. Ogni momento del giorno è confezionato ad hoc e ospiti e visitatori sciamano tra piazzetta Stefania Noce, dove si apre la ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara – sede della Rassegna – e il Bar Sport, dove le colazioni diventano incontri internazionali, oppure la Badia, per pranzi e aperitivi, o ancora la piazzetta del Municipio, da cui partono le visite guidate.

La memoria di Jay

Io mi sto immergendo nelle proiezioni in sala, sotto il tetto settecentesco della chiesa, circondata dalle foto di Giovanni Jay Cavallaro che mi guardano e sembrano chiedermi: “Guardaci! Voltati! Sai chi siamo? Sai dove siamo? Ti interessa il nostro paese? Hai voglia di chiederci come viviamo, cosa facciamo? CA SEMU!

Ogni immagine in questa chiesa chiede di essere ascoltata per diventare protagonista della nostra vita. Ma di chi è la memoria che leggiamo negli occhi in bianco e nero? Non è la memoria di Jay, bensì quella della madre, anzi no, piuttosto della nonna. Eppure la ricerca delle sue radici ha attraversato le vite semplici di uomini e donne di Piedimonte Etneo e così una foto scattata a un bambino, mentre impara dal nonno – sullo sfondo – a tirare il fercolo della Madonna, diventa la memoria di quella famiglia, dove il nonno non è più e il bambino si sta facendo uomo.

La memoria di Yvette

Uno dei film in concorso illustra lo scavo fatto in un rifugio della Seconda Guerra Mondiale sotto Caen. La narrazione passa però dalla casa di Yvette Lethimonnier, una dolce signora che nel 1944 aveva 12 anni e che rievoca i momenti pieni di tensione, quando cercava di sfuggire allo sguardo attento dei genitori o quando il padre utilizzava la tromba di un grammofono per annunciare il pasto pronto per il gruppo di rifugiati. Il lavoro degli archeologi è di recuperare la storia del rifugio, per fornire una testimonianza dettagliata dell’impatto che la guerra ha avuto su Caen. Ma il filmato si concentra su Yvette, la quale viene fatta scendere 20 metri sotto terra per guardare il lavoro degli archeologi e rievocare i propri ricordi.

Questo è il momento in cui negli occhi di Yvette compaiono le lacrime, mentre si prepara a scendere. Eppure è lei a volerlo: “Forse così troverò un po’ di pace nei miei ricordi”.

Questo è il momento in cui nei miei occhi compaiono le lacrime, nel vedere la fragilità di Yvette dinanzi alla propria memoria, che diventa memoria di tutti e poi torna a essere solo sua, e di suo padre.

Maneggiare la memoria

Il nostro lavoro, mio caro diario, accende passioni ed entusiasmi e viene spesso associato a personaggi in viaggio, attrezzati per entrare nella terra (o nell’acqua) e sporcarsi dalla testa ai piedi, per poi lasciare muretti ordinati, tombe attrezzate, musei. Ma chi si interessa all’archeologia vuole capire, chiede ricostruzione storica, cerca certezze.

Negli ultimi anni, tuttavia, sta diventando importante, tra gli addetti ai lavori, riflettere su come gestire i resti umani che si trovano spesso negli scavi; l’archeologia non indaga esclusivamente civiltà lontanissime, perché anche un cimitero sette-ottocentesco deve essere documentato con la stessa attenzione di una necropoli minoica. Se nel filmato “The Trace of Time” Yannis Sakellarakis ricordava il pope che benediva le tombe di Fournì, qui in Rassegna abbiamo visto in “Nos vestiges” i dilemmi di Emma Bouvard-Mor, archeo-antropologa del Servizio Archeologico di Lione. Di chi sono quelle ossa? Della scienza o dei discendenti? Hanno più dignità ossa di Minoici oppure di cittadini di 10 generazioni fa?

Un ruolo

Questa Rassegna mi ha permesso di comprendere ancora meglio il ruolo degli storici e degli archeologi: è necessario dare a questa nostra società una prospettiva, un modo per riconciliarci con il passato, anche il più recente. Vorrei davvero che facessimo tutti come Yvette e guardassimo il lavoro degli archeologi sulla storia collettiva come un modo per affrontare e risolvere le nostre memorie personali.

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Diario da Licodia – 16 ottobre

Caro diario,

ieri sera ho finalmente potuto vedere il filmato diretto da Francesco Bocchieri che illustra l’esperienza dei camminatori dell’Antica Trasversale Sicula. Il titolo completo è “Antica Trasversale Sicula. Il cammino della Dea Madre” e la ‘voce fuori campo’ che commenta l’impresa dei camminatori è femminile, proprio quella Dea Madre che li segue e incita e aiuta, a suo modo, sostenendo i loro passi o criticando le loro manchevolezze.

Ma io non ci credo.

Vedi, la natura del pellegrino, da tempo immemore, è quella che spinge a mettersi per strada verso una meta precisa: per noi è ormai abituale pensare che la meta sia la tomba di un famoso santo, oppure un importante santuario; ci piace ricordare le origini medievali dei percorsi più celebri, quando erano forse proprio i pericoli a rendere più eroici i pellegrinaggi (e i pellegrini), quando, arrivati a destinazione, era fondamentale ricevere un oggetto che testimoniasse il successo dell’impresa. Quando il termine “pellegrinaggio” viene usato in maniera decisamente laica ci sembra quasi ironico e chiaramente connotante.

Nelle prime tappe della Trasversale i camminatori giungono a Gibellina e percorrono i cretti di Burri.

L’Antica Trasversale Sicula è, innanzitutto, una strada, individuata da Biagio Pace e attestata negli scritti di Idrisi: si tratta di un percorso nato per collegare centri diversi e quindi legato alla necessità, solitamente di tipo economico. Non ci sono santi alle origini di questo percorso. Ma nelle parole dei partecipanti, sapientemente registrate nel filmato, emerge spesso il termine “fede”: una fiducia riposta nell’essere umano.

Ecco perché secondo me questo percorso è un pellegrinaggio diverso da tutti gli altri. La Dea Madre è la Terra: una divinità che riceve la veste soprannaturale dagli uomini e dalle donne che la abitano e la percorrono. Negli occhi dei camminatori ho ritrovato l’origine del divino, nella sua purezza e nelle loro parole la necessità atavica di riporre la propria fede in qualcosa che li comprenda e li abbracci, senza limitarli a vuoti rituali.

Il percorso dell’Antica Trasversale Sicula è, secondo me, il modo migliore per cercare di ricucire gli strappi, come Alessandra Cilio ha detto in apertura della Rassegna.

I camminatori non sono solo italiani, ma vengono da tutto il mondo e viaggiano in tenda, godendo spesso dell’ospitalità delle comunità locali.

Tornare a fidarci gli uni degli altri, rispettandoci e condividendo quello che abbiamo di più prezioso: la nostra terra.

Come tutti i filmati della Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea, anche questo sulla Trasversale Sicula resterà visibile su streamcult per l’intera prossima settimana.

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Diario da Licodia – 15 ottobre

Caro diario,

l’aria è gelida qui a Licodia Eubea e questo ottobre non sembra proprio quello a cui mi aveva abituata la Rassegna del documentario e della comunicazione Archeologica! Ma il sole è caldo e anche quest’anno sono stata accolta dagli abbracci (mascherati e vaccinati) di quella che posso ormai chiamare la mia famiglia siciliana.

Ieri sera è stata inaugurata la Rassegna, giunta all’undicesima edizione, con un film che segna la filosofia di questo anno, così complesso e allo stesso tempo pieno di promesse: dopo la versione online del 2020, quest’anno siamo tornati “in presenza” e i cocci da raccogliere e ricomporre sono tanti. Così, come ha sottolineato Alessandra (Cilio, direttrice artistica della Rassegna insieme a Lorenzo Daniele), la selezione dei film e dei documentari è stata ispirata dalla ricerca di storie che parlassero di ricucire strappi, di far parlare insieme esigenze diverse, apparentemente inconciliabili.

Il primo film “Sulle tracce del patrimonio archeologico. Le ragioni dell’archeologia” è un sapiente collage di immagini di repertorio, interviste in bianco e nero e interventi contemporanei dei protagonisti di una saga archeologica estremamente importante per il Mezzogiorno d’Italia: l’esplorazione della piana di Sibari negli anni ’60.

Partendo dalla figura di Dinu Adamesteanu, il film approfondisce la questione dello scontro tra la popolazione della piana, che sperava di uscire dalla condizione di mezzadria e sfruttamento, le proposte di chi voleva portare gli impianti industriali che avrebbero sfruttato i giacimenti di gas e petrolio, le ambizioni politiche di chi non voleva cambiamenti nello status quo del Mezzogiorno e infine le esigenze degli archeologi, che volevano riportare alla luce la storia di quei luoghi e renderne orgogliosi gli abitanti.

Dinu Adamesteanu è il primo Soprintendente della Basilicata, il “creatore” di questa regione nella letteratura archeologica. Colui il quale cerca il dialogo con gli abitanti, nel tentativo estremo di far prevalere la logica della storia da preservare. Adamesteanu è anche il primo a sviluppare l’uso archeologico della fotografia aerea. La sua figura, la sua voce, i suoi incontri con la popolazione, diventano un esempio virtuoso di quella archeologia che all’epoca non si chiamava pubblica, ma che mai come allora poteva avere la funzione di creare una coscienza sociale, oltre che di classe.

Alla fine la Cassa del Mezzogiorno finanziò gli scavi, ma solo per qualche anno: il tempo necessario per interrompere i sogni dell’industrializzazione e scavare un solco profondo tra gli archeologi e i cittadini. Gli scavi saranno ripresi più tardi, Sibari oggi è al centro di un Parco Archeologico, ma l’attuale direttore di parco e museo è consapevole del grande lavoro che ancora è da fare per colmare quel solco.

Il filmato di Farioli Vecchioli propone altre importanti riflessioni sull’incontro tra tecnologia e storia antica, oppure tra gli interessi dei tanti soggetti coinvolti in uno scavo. “Le ragioni dell’archeologia”, che sarà visibile su Rai Storia, aiuta a mettere a fuoco le sfide che ogni scavo archeologico propone agli specialisti e alla comunità.

Tra poco comincia la sessione pomeridiana del secondo giorno, visibile su www.streamcult.it e il programma è ancora ricco di storie che parlano di solchi riempiti, strappi ricuciti, della Storia che incontra le storie di ciascuno.

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La bella addormentata

Nel mondo ortodosso, erede della rigidità bizantina ma a cui aggiunge cupole e incenso, Maria di Nazareth non muore, si addormenta. Così la troviamo nelle chiese greche e in molte italiane, dalla storia radicata nello scomparso impero di Bisanzio. Si tratta della koimesis della Vergine, cioè della dormizione o dormitio, una versione di latinorum che le conferisce un sacro velo di ritualità.

Gita al cimitero

In un posto sperduto in Moldova ho fotografato il piccolo cimitero annesso a una chiesa: le panche e i tavoli, mi hanno spiegato, servivano per le celebrazioni del giorno dei morti, che cade in primavera.
Un tocco di tradizione classica in una regione ortodossa.

Koimesis (pron. chimesis) è un termine dalla storia lontana: esprime l’atto dello sdraiarsi per dormire e proprio questa azione era il fulcro della serie di riti cui si sottoponevano i supplici di Asclepio, il dio della medicina. Quando si avvicinavano a un santuario, cercando sollievo se non proprio la guarigione dalle loro malattie, i fedeli, dopo l’obolo e il sacrificio del gallo, venivano accomodati sotto un portico e invitati a passarvi la notte. La engkoimesis (incubatio), l’addormentarsi dentro il santuario, portava sogni salvifici: Asclepio, infatti, compariva al malato e gli suggeriva la terapia, oppure lo guariva nottetempo. Il giorno dopo, i solerti sacerdoti, ormai un po’ medici essi stessi, raccoglievano i racconti e procedevano a seguire le indicazioni del dio. Alcuni di questi racconti venivano trascritti su stele che ci hanno conservato testimonianze preziose.

Dunque questo addormentarsi ha un valore sacro e tale è considerato dai cristiani, allorché si trovano a organizzare questa religione della salvezza, fornirla di dogmi e di certezze, di riti e di preghiere: il fedele cristiano, una volta esaurita la sua vita mortale, verrà adagiato in un contenitore (il “sarcofago”, letteralmente, mangia la carne, forse sarà meglio chiamarlo “cassa”) dal quale si risveglierà nel giorno del Giudizio. Il luogo in cui si raccolgono le casse mortuarie è il “cimitero”, cioè il luogo della koimesis dei cristiani.

“Morire, dormire, sognare, forse”

A Creta, nella chiesa della Panaghia Kerà, l’icona della Vergine è distesa in un letto di fiori (foto mia)

Amleto (Atto III, scena I) riassume perfettamente secoli di dilemmi: la madre di Gesù Cristo, cioè di Dio incarnato, potrà essere considerata alla stregua di tutti gli altri cristiani? Per gli Ortodossi la risposta è certa: no, Maria non morirà, si addormenterà, circondata dai discepoli. I cattolici ci mettono qualche secolo in più – tipico – ma nel 1950 arrivano a una rivelazione sconcertante: Maria non muore, né si addormenta, ma viene chiamata da Dio e da Gesù in cielo, esattamente come aveva fatto suo figlio (un anno prima, oppure molti anni prima, ora non sottilizziamo!) la sua figura in carne e ossa viene assunta verso l’alto, di fronte ai discepoli attoniti. Gli Ortodossi assistono impassibili – è il loro bello – a questa decisione di Pio XII, il quale collega questo ultimo dogma mariano agli altri, perciò ora nessuno può più mettere in dubbio il ruolo di Maria nella vita di Gesù Cristo e nella fiducia dei fedeli (allitterante, ma pour cause).

La Vergine ortodossa, intanto, resta addormentata: le principesse del folklore aspettavano un bacio che le risvegliasse, lei invece non aspetta nulla, ma viene sottratta alla responsabilità della dimostrazione di santità, il vero fardello di ogni divinità, e resta intatta e adorata, ammirata e intonsa. Chissà cosa sogna, la Vergine addormentata, forse un bacio che le restituisca l’umanità perduta.

La bella addormentata e il bosco

Diana cacciatrice, di Guillaume Seignac

Le origini del dibattito tra assunzione e sonno vanno rintracciate nei primi secoli della religione cristiana: in questo approfondito articolo di ArcheoTibur sono raccolte molte fonti ed è chiaro che il trattato più importante a riguardo risale al V secolo d.C., il cosiddetto Transitus Mariae. Ma perché, una volta stabilita l’importanza di sottolineare il momento del “passaggio” di Maria di Nazareth, questa celebrazione viene istituita alla metà del mese di agosto?

Nel link di ArcheoTibur viene affrontata la lunga storia dei Nemoralia, le celebrazione in onore di Diana presso il lago di Nemi. La divinità romana, erede di Artemide, viene festeggiata in un luogo a lei proprio, un bosco con un lago, e nella sua molteplice natura: non solo la divinità della caccia, vergine gemella di Apollo, ma anche Diana/Ecate, la divinità ctonia che accompagna nell’Oltretomba, e Diana/Selene, infatti i Nemoralia si tengono tra il 13 e il 15 agosto, giorni e notti del plenilunio estivo, perciò la divinità lunare che sovrintende la fertilità.

E fu così che i paludati consessi di patriarchi guardarono il calendario e decisero che il popolo pagano non avrebbe perso la triplice Diana, ma la avrebbe sostituita con la madre di Dio, assunta in cielo o in terra addormentata, mentre sogna di essere una libera cacciatrice sotto la luna piena.

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