Agnello caddi nel latte…

Della necessità di prospettiva, insita nell’animo umano…

Della fatalità della morte, insita nella vita dell’uomo …

Da Thourioi (V-IV sec. a.C.)
Della ricerca di un mondo migliore, parte integrante del nostro più intimo inconscio …

Ma non appena l’anima abbandona la luce del sole,
a destra …… racchiudendo, lei che conosce tutto insieme.
Rallegrati, tu che hai patito la passione: questo prima non l’avevi ancora patito.
Da uomo sei nato dio: agnello cadesti nel latte.
Rallegrati, rallegrati, prendendo la strada a destra
verso le praterie sacre e i boschi di Persefone.

Colli 4 [a 67]= Kern f 32 F

Vengo dai puri pura, o regina degli inferi,
o Eucle ed Eubuleo e voi altri dei immortali,
poiché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice;
ma la Moira mi soverchiò, e altri dei immortali
………..e la folgore scagliata dalle stelle.
Volai via dal cerchio che dà affanno e pesante dolore,
e salii a raggiungere l’anelata corona con i piedi veloci,
poi m’immersi nel grembo della Signora, regina di sotto terra,
e discesi dall’anelata corona con i piedi veloci.
“Felice e beatissimo, sarai dio anziché mortale”
Agnello caddi nel latte.

Colli 4 [a 65] = Kern f 32 c

Vengo dai puri pura, o regina degli inferi,
o Eucle ed Eubuleo e voi dei, quanti altri siete demoni,
poiché io mi vanto di appartenere alla vostra stirpe felice,
e ripagai la pena di azioni per nulla giuste,
che mi soverchiasse la Moira oppure il bagliore delle folgori.
E ora giungo supplice presso Persefone,
poiché benigna mi mandi alle sedi dei puri.

Colli 4 [a 66] b = Kern f 32 e

Da Hipponion (Vibo Valentia) [IV sec. a.C.]

Di Mnemosine è questo sepolcro. Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade: c’è alla destra una fonte, e accanto ad essa un bianco cipresso diritto;

là scendendo si raffreddano le anime dei morti.
A questa fonte non andare neppure troppo vicino;
ma di fronte troverai fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi,
che ti chiederanno nel loro denso cuore
cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso.
Di’ loro: sono figlio della Greve e di Cielo stellante,
sono riarso di sete e muoio; ma date, subito,
fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine.
E davvero ti mostreranno benevolenza per volere del re di sotto terra;
e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine;
e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono
gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso

Colli 4 [a 62]

Storia di Salmoxis, dio dei Traci. Erodoto racconta che, in origine, egli era uno schiavo di Pitagora:

Si fece costruire una sala (…) insegnava che né egli stesso né i suoi commensali né tutti i loro discendenti sarebbero morti, ma sarebbero andati in un luogo tale che in esso, sempre sopravvivendo, avrebbero avuto ogni felicità. E mentre faceva e diceva questo che ho narrato si faceva intanto costruire una casa sotterranea. E come la casa fu completata scomparve alla vista dei Traci e, sceso giù nella dimora sotterranea, vi abitò per tre anni. Al quarto anno invece riapparve fra i Traci e così divennero loro credibili le cose che Salmoxis affermava

Erodoto 4,95

Da Eleuthernai, Creta (III sec. a.C.)

Io sono riarso di sete e muoio. – Ma bevi, orsù
dalla fonte sempre corrente, alla destra, dov’è il cipresso.
-Chi sei? e donde sei? – Sono figlio di Terra
e di Cielo stellante

Colli 4 [a 70] a

Da Farsalo (Tessaglia) [metà IV sec. a.C.]

Troverai alla destra delle case di Ade una fonte,
e accanto ad essa un bianco cipresso diritto:
a questa fonte non accostarti neppure, da presso.
E più avanti troverai la fredda acqua che scorre
dalla palude di Mnemosine
: e sopra essi stanno i custodi,
che ti chiederanno perché sei arrivato.
Ma a essi racconta bene tutta la verità.
Di’ loro: sono figlio di Terra e di Cielo stellante;
il mio nome è Asterio. Sono riarso di sete; ma lasciatemi bere alla fonte.

Colli 4 [a 64]

Le laminette d’oro scoperte solitamente in tombe, ripiegate con cura e inserite in mano o in bocca, oppure appoggiate sul petto del defunto (uomo o donna che sia), ci parlano di speranza. Ma anche di paura e della esigenza di essere sicuri di non sbagliare strada, una volta morti. Sono vere e proprie mappe, con le istruzioni precise di dove andare e cosa fare e cosa dire, una volta cominciato il viaggio al di là della vita.

Nelle laminette l’iniziato ai misteri beve dell’acqua che fa ricordare (Mnemosine) e si presenta come un essere divino, figlio di Terra e Cielo, parte egli stesso di una natura ultraterrena, che, nel momento della vita da uomo, si è dimenticato, ma che ora deve ricordare, per poter partecipare dell’immortalità.

Orfeo, il mitico cantore tracio che raggiunge l’Ade, per recuperare l’amata, ma riesce a fuggirne, è solo una delle figure cui si riferiscono importanti pensatori e filosofi, primo fra tutti Pitagora. Lo strumento di Orfeo è musicale, non c’è lotta, non c’è guerra, ma la natura si piega alla volontà di chi la comanda attraverso armonie ancestrali.

Eppure, per poter esprimere in pieno i suoi poteri rigeneranti, Orfeo deve passare attraverso la dissacrazione del corpo: le Menadi lo straziano, solo la sua testa continua a cantare. Le Menadi lo collegano all’altra grande divinità invocata per garantire la vita eterna: Dioniso. Anche lui deve sopportare torture estreme, per poter rinascere:

I misteri di Dioniso sono difatti assolutamente inumani. Intorno a lui ancora fanciullo si agitano in una danza armati i Cureti, ma i Titani si insinuano con l’astuzia: dopo di averlo ingannato con giocattoli fanciulleschi, ecco che questi Titani lo sbranarono, sebbene fosse ancora un bambino, come dice il poeta dell’iniziazione, Orfeo il Tracio.

Colli 4 [a 37] = Kern f 34

Clemente di Alessandria, nel Protrepticon (2,17), riflette, da cristiano, sui riti selvaggi dei pagani, e sembra ignorare che proprio da quei riti i cristiani traggono la terminologia che entrerà presto nell’uso: “l’agnello di Dio“, “in sacrificio per voi“, “questo è il mio sangue“, “questo è il mio corpo“. “Mangiatene tutti“. “Torno alla casa del padre mio, padre vostro“.

Roberto Calasso (Le nozze di Cadmo e Armonia) ricorda cosa “bolle in pentola”, cioè nel lebete su cui è seduta la Pizia a Delfi:
sotto quel coperchio si erano mescolate sin dall’origine le carni dell’agnello, che le Tiadi, al seguito di Dioniso, smembravano là vicino, sulle pendici del Parnaso; e le carni della tartaruga (…) nella pentola bollivano insieme Apollo e Dioniso, era quella la commistione, l’odore acutissimo di Delfi.

Molte, troppe cose sarebbero da dire riguardo ai fili che collegano religione misterica pagana e religione cristiana. Sono fili mai troncati, che si possono seguire passo dopo passo. Di base c’è ora e sempre la richiesta di una guida: dimmi cosa devo fare per arrivare ad una serena vita eterna.

Nella Grecia e nella Magna Grecia di IV – III sec. a.C. sembra che questi riti e le filosofie associate allettassero soprattutto i meno abbienti, che agognavano il riscatto, anche se dopo morti.

E noi?

Cosa stiamo aspettando? Quando vogliamo essere salvati? A quali riti siamo disposti pur di guadagnarci un po’ di serenità? Forse, la tragica risposta è in queste considerazioni: analfabetismo

Anche se avevamo una esigenza, anche se volevamo la salvezza.. abbiamo dimenticato come chiederla e come cercarla, non sappiamo più cosa dire o cosa fare, riempiamo laminette (bacheche) di lettere, ma non sappiamo più seguirne le istruzioni …

Bibliografia essenziale:

G. Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche, Adelphi 2001
A. Bottini, Archeologia della Salvezza, Longanesi 1992
G. Colli, La sapienza greca, I. Dioniso. Apollo. Eleusi. Orfeo. Museo. Iperborei. Enigma, Milano 1981.
O. Kern, Orphicorum Fragmenta, Berolini 1963

dellamorte dellamore

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“più bello e più completo di prima”

Ogni Museo Archeologico ha il suo “totem”, un oggetto che ne cattura l’anima e lo rappresenta in tutto e per tutto. A Firenze, il simbolo del Museo Archeologico è la Chimera d’Arezzo, compare infatti anche nel logo del Museo. Eppure, mi suscita sempre un tenero sorriso la reazione dei ragazzi delle scuole (elementari e medie) che si illuminano e indicano chiamandolo per nome il vaso che intravedono in un filmato oppure in una immagine: il Vaso François è di casa nelle spiegazioni dei professori fiorentini.

Anche le sale del Museo di Firenze, che hanno accolto magnanimamente le idee di arredamento dei più disparati Direttori, sembrano proteggere ed esaltare l’antico vaso. La Chimera ha conosciuto le glorie del piano terra, le bizzarrie di un corridoio e ora le atmosfere evocative di una sala condivisa, ma il Vaso François ha sempre ottenuto una posizione centrale nei diversi spazi che ha illuminato con la sua ingombrante presenza.

Secoli di interpretazioni, di letture, di ricostruzioni. Ogni volta un tassello in più e ogni volta un modo nuovo per offrirlo agli studiosi e ai curiosi. Il blog della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana parte proprio da lui per inaugurare la rubrica “Accadde oggi”. E cosa accadde?

Accadde quello che ogni Direttore di Museo, ogni appassionato di cultura, ogni addetto alla vigilanza …teme come la peste! Accadde proprio per mano di un addetto… accadde in una data decisa dalla cabala: 9-9-1900. Accadde che il vaso venne rotto in 638 frammenti.

Undici anni più tardi, un altro addetto alla vigilanza avrebbe osato l’inimmaginabile: sottrarre al Louvre il suo simbolo italiano! Anche in quel caso era stata una insopportabile ingiustizia ad armare la mano del vigilante. A Firenze si trattava di una questione personale, a Parigi l’idea che un dipinto italiano dovesse stare in Italia.

In entrambi i casi gli oggetti vivevano per se stessi, non per l’umanità. I due vigilanti si prendevano una rivincita sul destino iniquo e per farlo utilizzavano un “ostaggio da vetrina”.

Il fascino inequivocabile del Vaso François è sopravvissuto agli eventi, anche a quelli naturali come l’Alluvione di Firenze del 1966.

Nel frattempo, studiosi di tutto il mondo si sono accalcati attorno alla sua argilla dipinta, alle sue figurine dettagliatamente individuate dalle brevi didascalie, ai suoi volumi poderosi e rassicuranti, e hanno tratto considerazioni che illuminano la conoscenza del mondo antico, e quindi anche di noi stessi.

Qualche anno fa ho avuto l’incredibile esperienza di rimanere seduta ad un tavolo, nel magazzino del Museo, con “accanto” il Vaso, estratto dalla sua vetrina speciale per essere fotografato per l’ennesima volta. Mi ci è voluto un bel po’ di sangue freddo per decidere di sedermi, con gli occhi fissi alla pancia prominente, le mie pupille in quelle di Peleo che accoglie gli invitati alle sue nozze, o in quelle di Atalanta, orgogliosa unica donna nella mitica caccia.

Non era un vaso, era una presenza da rispettare, amica e giudice nello stesso tempo: giudicava la mia passione e mi ricordava che quel che osserviamo non è mai la verità, ma il settimo velo di una danza incantatrice.

Undici anni fa, un gruppo di meravigliosi studiosi (nel senso di “studiosi del meraviglioso”) si è riunito a Firenze e ha discusso del Vaso. Lo ha fatto in un Symposion, come è logico, dato che il François è nato come cratere, come contenitore di vino ed acqua in una sala da simposio.

Da quel felice incontro è scaturito un volume, così articolato:

H. A. Shapiro: “The François Vase: 175 Years of Interpretation”
M. G. Marzi: “Was the François Crater the only Piece from the Dolciano Tomb?”
C. Reusser: “The François Vase in the Context of the Earliest Attic Imports to Etruria”
M. Iozzo: “The François Vase: Notes on Technical Aspects and Function”
J. Gaunt: “Ergotimos epoiesen: the Potter’s Contribution to the François Vase”
M. Torelli: “The Destiny of the Hero – Toward a Structural Reading of the François Vase”
B. Kreuzer: “Myth as a Case Study and the Hero as Exemplum
J. Neils: “Contextualizing the François vase”
R. von den Hoff: “Theseus, the François Vase and Athens in the Sixth Century B.C.”
J. M. Barringer: “Hunters and Hunting on the François Vase”
A. Lezzi-Hafter: “Where the Wild Things Are – The Side-Themes on the François Krater”

e il 20 marzo prossimo Palazzo Vecchio ospiterà la presentazione del volume.

Maestri di cerimonia saranno altri tre grandi studiosi di immagini, i cui nomi risuonano alti nelle Accademie e tra giovani e meno giovani “guerrieri del mito moderno”.

Non perdete l’opportunità di lasciarvi guidare in una delle ultime favole della nostra era.

Sarà presente anche l’ultimo erede dello scopritore del vaso greco, quell’Alessandro François che ha dato un nome francese a questa merce rara, commercializzata nell’italica Etruria del VI sec. a.C.

Appuntamento, dunque, il 20 Marzo 2014

ore 10.00

nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze

Qui il programma della mattinata: Programma 20 marzo

E qui il volantino

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“Ero destinato ad essere sensibile”

Locandina italiana, qui il protagonista è solo Jep

Si è detto e scritto di tutto su La Grande Bellezza, ultima fatica di Paolo Sorrentino e in corsa all’Oscar tra i film stranieri.
Io non riesco ancora ad avere un’idea lucida su quel film: l’ho guardato per curiosità, a quasi un anno dall’uscita, con la netta sensazione di guardare un Fellini 2.0, una sorta di omaggio non richiesto alle atmosfere da “sogno o son desto“, con il protagonista perennemente con una mano in tasca e il sorriso a metà, pronto a trasformarsi in smorfia, di dolore o di disgusto.
C’è però un aspetto del film che mi ha colpito e che mi convince a sospendere il giudizio, magari rivederlo una o due volte, perché forse c’è qualcosa da capire che mi sfugge. L’aspetto in questione è la fotografia.
Un’inquadratura perfetta dopo l’altra, una luce che sembra fatta apposta per quel marmo, quei prati, quel fiume, quei volti… Una specie di Instamovie, vale a dire un film girato con la sequenza di foto Instagram, ora un po’ Mayfair, ora Earlybird o Sutro, ma anche Efe o Kelvin.

In Francia, invece, sottolineano il rapporto di Jep con il marmo romano

E cosa ritraggono le immagini così perfettamente patinate? Ecco, ho pensato che a questo si riferisse il titolo del film, alla bellezza monumentale, a quegli angoli di perfezione cromatica che circondano tutti noi (meglio se abitiamo a Roma) e dai quali non siamo più in grado di lasciarci suggestionare. Sono diventati scenografia, Instamania: il protagonista (strepitoso) si aggira spesso solitario, facendo riecheggiare il cuoio sui sampietrini (ah! un messaggio politico rispetto alle ultime polemiche?!?!), ma le statue, gli obelischi, le fontane che lo osservano mentre vaga silenzioso e sornione, le guardiamo solo noi. Non interagiscono con lui, sono quinte teatrali.

Anche il momento grottesco e molto felliniano della performance al Parco degli Acquedotti rinforza la sensazione: la pietra romana è lì per fermare la folle corsa di un’idiota, per provare la vacuità della zucca che risuona nella craniata, ma il suo ruolo è quello di un gigante buono che si fa beffe degli “umani”, intenti ad applaudire il nulla e ciechi di fronte al vero spettacolo.

Poi, nell’ultima scena, giunge chiara la battuta: “Stavo cercando la grande bellezza”. Il protagonista spiega come mai sono venti anni che non scrive più un libro: perché gli è mancata l’ispirazione. Questa

I Francesi paiono aver capito l’effetto Scajola

frase ha l’effetto di rilassare, finalmente si spiega il titolo, e contemporaneamente di innervosire, ma come? non ti accorgi di dove vivi? oh tu che hai una casa scajolica (i.e. di fronte al Colosseo)?

E così sono uscita dal cinema, confusa dalle tante immagini “belle” associate a contenuti di povertà morale disperante.

Poi arriva Sanremo 2014. Io resisto, resisto, resisto, ma la forza trainante del gossip e dei commenti sapidi dei contatti fb mi induce in tentazione. Cerco di guardare qualcosa, di ascoltare qualcosa, ma per lo più leggo titoli e commenti alle serate. E scopro che anche Sanremo celebra “La Grande Bellezza”. Sarebbe bello poter dire che è un modo come un altro per fare il tifo per un prodotto italiano agli Oscar: la serata è il 2 marzo, il Festival finisce una settimana prima, perché no? è una sorta di lancio, un “in bocca al lupo” etc. etc.
Invece mi rendo conto velocemente che la situazione è un’altra. Sulla falsariga di un discorso già affrontato da Fazio con Settis, si cerca di “inculcare” l’amore per il bello, si cerca di dire che la bellezza è dappertutto attorno a noi (in pratica il messaggio opposto di “la bellezza è nell’occhio di chi guarda”) e che solo riappropriandoci del concetto di bellezza riusciremo a preservarla.
Fabio Fazio attacca con un riferimento ampio, nelle immagini che scorrono dietro di lui c’è l’Italia da cartolina, la bellezza fisica e geografica.. ma.. ahimè … viene “interrotto” da due che non apprezzano la bellezza, forse basterebbe che lo ascoltassero fino in fondo, allora capirebbero che.. no, no, meglio buttarsi!
[per amor di patria sorvolerò sulla lista disarmante, cantilenata con un sottofondo musicale imbarazzante, un elenco di frasi fatte e luoghi comuni, appiccicati come su un tazebao..]
Luciana Littizzetto attacca un monologo inverecondo.. parte dalla bellezza fisica, mette alla berlina TUTTI i difetti fisici più grevi e triti possibili e immaginabili, sferra un attacco frontale alla chirurgia estetica…e conclude con un appello alle principali marche di prodotti alimentari per famiglie e/o bambini: impiegate bambini disabili o down nei vostri spot, sono belli tanto quanto quelli normali…(esatto, così come leggete, non ci sono commenti possibili)
Il terzo giorno, in barba alle più elementari leggi di resurrezione, arriva Luca Zingaretti. Questo attore, da me molto apprezzato, decide di riproporre le parole di Peppino Impastato sulla bellezza da insegnare ai bambini. Il travisamento del messaggio comincia fin dall’introduzione: Impastato, dice Zingaretti, è nato a Cinìsi (in realtà sarebbe Cìnisi, cacchio, almeno il luogo di nascita…). Concluso il breve monologo, Fazio si avvicina ringraziando per le belle parole “contro la mafia”…(esatto, così come leggete, non ci sono commenti possibili)

A questo punto, sconcertata, ho ripreso gli appunti (mentali) annotati all’uscita del cinema, e ho deciso di provare a scrivere qualcosa.
Ne “La Grande Bellezza” la scenografia non si limita a strade e palazzi: le statue la fanno da padrone, con rimandi continui al mondo greco e romano. Solo un’altra volta mi era capitato di notare questo uso quasi filologico delle statue antiche: in “Le fate ignorantiOzpetek comincia il suo film con un primo piano su un busto di Antinoo, il giovane amato da Adriano e a cui l’Imperatore dedica un culto dopo la morte accidentale nel Nilo. All’epoca avevo pensato “Chissà quanti si rendono conto che un film su una donna che scopre l’omosessualità del marito, comincia con il volto del tenero amante di un grande Imperatore?”.
Con il film di Sorrentino ho avuto gli stessi pensieri, le scene rimandano continuamente ad un pensiero, ad un topos, ad un riferimento classico: la serata passata a farsi inoculare botox a botte di 700 euro è ambientata in una sala barocca di un palazzo principesco, ma al centro, su di un tavolo in marmo, spicca il volto candido di una testa apollinea, che dovrebbe ispirare armonia e “bellezza”; la suora-santa accoglie fedeli delle gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo appollaiata su di una grande poltrona di vimini. E’ rugosa, avvizzita, socchiude gli occhi, attorno a lei si agitano i fumi dell’incenso, non tocca per terra, ma ciondola i piedi. Come non pensare alla Pizia di Delfi? Dalle cui labbra pendono in molti, troppi, ognuno con interessi che vanno ben oltre la ricerca spirituale.

Il Colosseo, poi, incombe sulla casa del protagonista e sulle vicende umane che la agitano. Forse un simbolo degli antichi scontri fra gladiatori, o piuttosto il rimando alla trasformazione, da arena a chiesa a palazzo: “Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini”, tanto per intenderci.

Poi c’è un altro filone di bellezza che Sorrentino decide di regalarci: quello della fiaba. La Ferilli (una scelta a dir poco coraggiosa) viene abbigliata come l’ultima Biancaneve, con un bavero alzato che ci fa sempre dubitare se non si tratti piuttosto di Grimilde. Insieme a lei, il protagonista contatta un personaggio prestato dal mondo incantato delle favole: colui il quale possiede le chiavi dei palazzi di Roma. Sorrentino, siamo ormai a due terzi del film, decide di essere più didascalico, e, come un Propp qualsiasi, inquadra Roma da un buco di serratura, ricavato in un giardino. Il simbolo ci viene porto sul piatto d’argento del “già interpretato” e così ci lasciamo guidare in palazzi che.. ops! in realtà sono i musei capitolini!
Le signore dall’aspetto centenario che giocano a.. Bridge/Burraco/non so non rispondo, all’ombra del Galata Morente o dei ritratti Imperiali, illustrano perfettamente il binomio Lotto/Beni Culturali, ma non viene da ridere.

Dunque è di questo che si tratta! La Grande Bellezza non è Roma, ma lo spirito di Roma. Non sono le strade o i palazzi, ma quel che ospitano al loro interno e le storie che le hanno animate. Non si tratta di un pezzo di marmo “classico”, ma della classicità che si nasconde/rivela in ogni nostro gesto quotidiano… dalla ricerca di una perfezione estetica (il botox) a quella di perfezione etica (la suora/santa).

Allora, Fazio, la bellezza non c’entra nulla!
Non si tratta di far affezionare le persone alle “cose belle”, in modo da non fargliele distruggere, si tratta di farle affezionare a “gesti belli“, cioè a una vita vissuta per davvero, riscoprendo ogni giorno i motivi delle nostre azioni quotidiane, dandoci dei motivi per compierle. Solo così saremo in grado di scrivere di nuovo un nostro libro, solo accorgendoci del fatto che “bellezza” è un termine fuorviante.

https://www.casamemoria.it/foto/

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe    di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà.    All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con         tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si      abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore (Peppino Impastato)”.

Ecco, lui lo aveva capito, diceva “bellezza”, ma intendeva “impegno civile”, diceva “bellezza” ma intendeva “solidarietà”. Qualunque cosa può essere “bello”, basta mettere “le tendine alle finestre”, ma la gente deve smettere di guardare le tendine e cercare ciò che mantiene vivi e curiosi e stupiti. Per questo non possiamo più accettare le liste, gli elenchi, di concetti “presi e messi lì”. Non possiamo più ascoltare persone “ottimiste per natura (economica)” dirci di essere ottimisti. Non possiamo più assuefarci, ma essere sempre attori di qualcosa. Non possiamo più lasciare che qualcun altro arrivi a dirci che cosa è bello, inventiamoci noi il nostro bello e lottiamo per mantenerlo vivo.

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“Inventare per se stessi e per un mondo diverso”

“Con lui mi si apriva un lucido mondo, dove stavano sempre per avvenire miracoli”

Didattica! Mai parola fu più complessa e semplice allo stesso tempo, mai termine fu più pregno di significati che possono andare da un’ora di lezione in classe, alla visita guidata in un castello sperduto. Ma quest’ansia di comunicare la propria conoscenza è, secondo me, insita nell’animo umano. Forse la si può rintracciare perfino nella discussione al bar della partita appena conclusa…

Ci sono, perciò, degli ambiti che, nell’immaginario popolare, sono più difficili da comunicare rispetto ad altri. L’archeologia ricade, purtroppo, in questa leggenda metropolitana, da ciò deriva la gara (tra poveri, di solito) per trovare il metodo più accattivante con cui catturare l’attenzione. In generale, molta parte della storia rientra in questa gara perpetua tra chi si occupa di didattica. E’ quindi un sollievo trovare chi è riuscito a superare il concetto di gara e si è immersa completamente nella realtà storica che voleva comunicare.

Maria Bellonci, con Rinascimento privato, è riuscita a incarnarsi in Isabella d’Este e nei vari personaggi della sua corte. Attraverso le sue parole, ci possiamo calare in una tipica scena di dibattito, che ha per oggetto.. proprio l’insegnamento ai più giovani

Davanti a me si formano subito, precise, le figure del Guarino onorato da ognuno, circondato da maestri dello Studio tra i quali Pellegrino Prisciano, astronomo-geografo e astrologo di casa, dai modi devoti, amico di tutti e contento di se stesso. Mia madre, ornata di argento e perle, tutta graziosa e sempre velata da un filo di ansia particolare al suo temperamento napoletano, sopravanzava in bellezza e dignità ogni donna presente e il suo tono patetico che la rendeva diversa muoveva nell’animo di ognuno non so quale tenerezza. Io, sua figlia prediletta, mi ero fatta abbigliare con l’abito rosa orlato di velluto nero a ricami d’oro e sciogliere i capelli secondo il privilegio consentito alle donne di sangue reale. Le dame assistono sedute su scranne e banconi dai dorsali di velluto morello, gli uomini in piedi; a me è riservata la pedana che sorregge la scranna ducale di fronte agli uomini di lettere e di scienza. Siamo pronti. Mia madre si è chinata un momento per baciarmi la fronte e io le faccio il mio risetto allegro che le piace. “Ho visto…” comincio a dirle fervorosamente.

Mi fa cenno di tacere; si volge al signor Pico della Mirandola, in piedi davanti a lei senza berretta, e con quel suo accento tra ferrarese e napoletano, una musica al mio orecchio, dice:

“Signor Pico, propongo di prendere come argomento un fatto accaduto oggi, anzi poco fa. Abbiamo avuto relazione delle imprese dei nostri scolari: beffe, ribellioni, ferimenti. Voi siete stato allo Studio di Padova, e sapete che cosa accade negli altri Studi di Firenze, Bologna e persino di Parigi. Non vi domando di giudicare i vostri compagni ma di cercare con me le ragioni delle loro intemperanze. Che cosa vogliono? Non vi sono nel nostro Studio eccellenti Lettori per ogni ramo del sapere? Il duca Ercole non bada a spese per farli venire da tutta Italia, da tutta Europa. La fama di tanti maestri ha popolato Ferrara di giovani bramosi di imparare. Il nuovo Rettore, Gasparino da Cipro, eletto con consenso generale, è persona compita e sapientissima in giurisprudenza. Per quali ragioni dunque è osteggiato e persino beffato nella forma ignobile di un asino?”

[…]Il signor Pico si preparava a parlare. “Vostra signoria” disse “ha colpito giusto col suo solito acume. Avete ragione, il Cipriotto non è una causa ma un pretesto. La vera causa di queste liti che non si riferiscono apertamente a cose di studio, è sempre la stessa, remota nella mente dei giovani e operante nel loro animo. Non vi pare di avvertirlo sensibilmente? I giovani sono mossi da un’ansia dell’anima che essi traducono nelle loro azioni goliardiche e materiali; ma dentro di loro sono scontenti: vorrebbero inventare per se stessi e per un mondo diverso: e certo, la filosofia, la poesia e la scienza aprono vie nuove per arrivare alla liberazione dello spirito.” “Da quando sono nato” intervenne con voce educata e compiaciuta il signor Ludovico Carbone, cortigiano e studioso, “sento dire che il mondo cambia; e le cause e gli effetti sono sempre uguali. Da secoli viviamo sotto la minaccia della scimitarra turca; è stata più volte predetta la fine della cristianità, e siamo qui a discorrerne. Ho il sospetto che congiuri contro di noi solo il timore delle congiure”.

Rispose a lungo Pellegrino Prisciano ordinando il senso delle sue vaghe divinazioni che profetavano un gran rotare di astri intersecati: “la vicenda di ogni uomo dipende dalla fortuna”, diceva mentre si lanciava nei suoi fumosi e lusinghevoli oroscopi che lo facevano preferire dalle donne. Solo il maestro Battista Guarino riuscì a fermarlo e a ridare la parola al giovane oratore che era stato interrotto.

“Conoscere il latino, conoscere il greco” riprese Pico tra interrogativo e illuminato, “I sommi studiosi dei tempi anteriori ai nostri come Maestro Guarino Guarini, il gran padre del nostro Battista, ambedue educatori senza pari, hanno portato la luce della sapienza greca nell’intendimento delle cose e mutato l’orientamento dei nuovi studi. Ma non basta, c’è tanto da conoscere in libri che non leggiamo, ebraici, arabi, persiani. La verità si nasconde sotto più linguaggi, oltre i linguaggi oltre i simboli. La Bibbia stessa, fra i testi sacri, contiene tutti i misteri dell’essere, ma chi l’ha scritta li ha messi in cifra: celati da un velo offrono pallide immagini di quelle verità. Bisogna finirla con quelli che contano i peli della barba di Omero: vogliamo e vogliono i giovani, seppure non chiaramente, penetrare e discutere le ragioni profonde della vita umana e divina.”

Ecco, questa scena altamente evocativa ci lascia avvolti da un torpore piacevole, l’idea di un tempo in cui una donna raccoglieva attorno a sé pensatori ispirati e dava loro la possibilità di scambiarsi opinioni. Nel romanzo della Bellonci il dibattito si conclude con le declamazioni del Boiardo, ansioso di far conoscere le sue ultime composizioni.

A noi rimane un po’ di nostalgia, ma anche la certezza che un simile brano potrebbe entrare nelle classi per avvicinare i ragazzi all’atmosfera rinascimentale, che vale molto più di mille date imparate a memoria. Il brano andrebbe accompagnato dai quadri, innumerevoli, che hanno illustrato un periodo della nostra storia estremamente votato all’estetica.

Non solo, in questo brano c’è l’essenza stessa del concetto di didattica: non date e avvenimenti, ma strumenti per “penetrare e discutere le ragioni profonde della vita umana e divina”, ecco quello che ci chiedono i ragazzi. Ecco quello che, forse, cerchiamo anche noi.

Sulla scia del discorso di Pico della Mirandola, potrebbe essere interessante una breve intervista a Franco Ferrari, Insegnare Omero oggi, dove si spiega, una volta di più, che nei testi antichi si possono trovare spunti di riflessione buoni per tutti noi, classicisti oppure no, grecisti o latinisti, refrattari alle lingue morte, ecc.ecc.

Due sono i presupposti essenziali: la passione del docente nei confronti del discente, e la curiosità di entrambi.

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