“Una cicala di troppo” – racconto a puntate -1

Comincio oggi un esperimento: provo a scrivere un racconto breve e a pubblicarlo a puntate. Lo spunto mi è dato da una vacanza mancata nel 1996, le protagoniste sono amiche con le quali, all’epoca, frequentavo la facoltà di Scienze dell’Antichità, indirizzo storico-archeologico. Dico subito che i nomi sono stati cambiati e che io sono Clizia, nella finzione del racconto. Non so a quanti piacerà, sicuramente a me sta piacendo scriverlo e questo è già un ottimo motivo per procedere nel lavoro! Nella mia idea dovrebbe essere un giallo, spero che i miei 26 piccoli lettori saranno buoni e comprensivi nella lettura…

Lo avevano programmato per tutta la primavera, riducendosi sempre un po’ all’ultimo momento. Ma dopo la sessione degli esami di Aprile si erano finalmente decise a comprare le guide, una per zona: Nord, Centro e Isole. Quella del Peloponneso era spuntata fuori da una loro compagna, appena tornata da un giro a Olimpia, Epidauro e Sparta.

Tre teste, difficili da mettere d’accordo quando si trattava di scegliere la pizzeria del sabato sera, ma armoniosamente in sintonia di fronte alle decine di siti che la terra ellenica offriva generosa in quella estate torrida.

Avrebbero lasciato a casa la quarta archeologa, trattenuta controvoglia da una malattia infettiva e da difese immunitarie ridotte ai minimi termini. In fondo pensavano che si trattasse di una scusa, ma evitavano di farglielo presente, perché era chiaro che una qualche, serissima, ragione le stava facendo perdere una vacanza già definita mitica.

Un traghetto troppo lento

Elena di Troia di Evelyn De Morgan, pittrice preraffaellita

Elena scalpitava, con lo sguardo lanciato oltre la prua e gli occhi strizzati dietro alle lenti affumicate, nel tentativo – vano – di distinguere la prima isola. Secondo i suoi calcoli, considerando la partenza da Brindisi e l’approdo a Patrasso, una di quelle prime cupolette verdi e gialle, galleggianti nell’acqua salata, doveva essere Itaca. Cassandra e Asia rimanevano tranquillamente sedute sulle scomodissime sedie di plastica: l’una, con le lunghe gambe distese su una seconda sedia, posta strategicamente di fronte, e l’altra piegata su una delle guide, intenta a imparare a memoria le notizie più curiose sugli usi e i costumi, le feste patronali e i luoghi di interesse culturale.

Elena, la vuoi smettere? Hanno appena detto che abbiamo un’ora di ritardo… è stata quella bolgia infernale, ieri, a far slittare la partenza … e sai.. in effetti partire il 13 di agosto .. com’era? ‘vedrai che non ci sarà nessuno perché partono tutti prima?’ see seee… “ – Cassandra non poteva evitare di fare

Cassandra di Evelyn De Morgan, pittrice preraffaellita

riferimento a quell’unico momento di scazzo durante la preparazione del viaggio: la data della partenza.

“Sì, Ele, lascia perdere, vieni qui a leggerti un po’ del Peloponneso, io mi concentro su

Personificazione dell'Asia, affresco dalla Casa di Meleagro, Pompei. I sec. a.C.

Atene” – Asia aveva già metabolizzato il caos del giorno prima, la notte era stata abbastanza tranquilla e si era riposata.

“E che cazzo, Sandra! Che ne potevo sapere? Era così logico pensare che NESSUNO sarebbe partito di martedì 13!! E comunque, ora o no, tra un po’ dovremmo esserci, porca miseria! .. No, Asia, lascia perdere, ho dormito da schifo e c’ho un mal di testa feroce, preferisco rimanere qui a prendere un po’ d’aria … “

“Sì, infatti.. martedì 13.. cos’è, il titolo di un film dell’orrore?? Lascia perdere Elena e vieni a sederti all’ombra, altrimenti .. altro che mal di testa!”

Il terzetto continuò a becchettarsi per un po’, poi, finalmente, all’orizzonte cominciarono a profilarsi delle gobbe brulle e assolate. “ITACA! AHAHAHA che vi avevo detto ragazze?? Fatemi vedere la cartina, è sicuramente quella l’isola!”. Cassandra si alzò stancamente, prese la macchina fotografica e si preparò ad immortalare il primo scampolo di suolo greco di questo viaggio tanto agognato. Asia sollevò la testa e strizzò gli occhi, seria e vagamente scettica. Intanto Elena indicava trionfante la mappa: “Ahaha che ti avevo detto, Sandra? Eccola qui, decisamente lei!”

Attorno alle giovani aspiranti archeologhe si raccolse un piccolo capannello di stanchi turisti, alla disperata ricerca di qualcosa da fare, fosse anche solo osservare un pezzo di terra nel mare e dargli un nome evocativo.

Man mano che ci si avvicinava, fu chiaro che si trattava di una sorta di grosso scoglio, molto poco mitico, ma pur sempre un indizio dell’approssimarsi della costa greca.

Il primo pullman

Lo sbarco a Patrasso fu meno penoso dell’imbarco del giorno precedente: i turisti appiedati erano fatti sgomberare velocemente da muscolosi greci urlanti, mentre macchine e tir sciamavano fuori dal ventre capiente del traghetto, in un tripudio di clacson suonati nervosamente. Le tre amiche si ritrovarono ben presto sul molo con lo sguardo poco convinto: dovevano capire da dove partiva il pullman che le avrebbe condotte alla loro prima tappa, Olimpia. Fortunatamente il sistema greco si rivelò molto pratico e facile e in meno di 20 minuti erano in fila in biglietteria, pronte a prendere il primo bus diretto in Elide e in partenza dopo mezz’ora.

“Allora, dove cazzo si è cacciata?” “Sandra, dai, sarà andata in bagno e avrà trovato fila.. aspetta, ecco, è il nostro turno, speriamo che parlino inglese…” Il bigliettaio si rivelò non solo anglofono ma addirittura italofono, Cassandra ed Elena cominciarono a capire che il turismo italiano manteneva in vita l’imprescindibile adagio “Italia Grecia, mia faza mia raza”, che accomunava i due popoli in una certa trasandatezza nell’affrontare l’afa dei pomeriggi interminabili. Se pronunciato insieme all’evergreen “den pirasi”, spalancava la porta al fatalismo mediterraneo, quello dei sorrisi sdentati e delle tazze di tè, quello dei bicchieri di ouzo con i riflessi viola delle bouganvilles, quello delle cicale invadenti in un mattino di pietre roventi. Le due viaggiatrici uscirono nel sole delle tre, accecate ma felici di aver conquistato il primo tassello del mosaico estivo: “Ahahah! La faccia che ha fatto quando gli ho chiesto se conosceva Firenze!!” “Sì, Elena, infatti secondo me stava per non darci il biglietto … l’ho visto che ha guardato in direzione di quei due agenti..” “Ma hai visto che pezzi di fichi?? Secondo me quelli piacerebbero anche ad Asia!!” “Ecco, appunto, dove cazzo si è cacciata? Il bus parte tra un quarto d’ora.. se ce lo fa perdere la ammazzo!”.

Non fece in tempo a finire la frase, che Cassandra scorse in fondo alla sala della biglietteria il volto serio e sereno dell’amica, non era facile distinguerla sotto allo zaino verde e blu, ma quegli occhi erano inconfondibili, piccoli e curiosi, sempre intenti ad analizzare la situazione. “ASIAAA!!! Siamo quaaaa! Vuoi venire, Cristo!?”

“Scusate, ragazze, c’era fila al bagno.. insomma, bagno… diciamo un retaggio della dominazione turca.. però pulito” “Ok, poche palle, che tra poco il bus parte!”.

Sangue sulla colonna

“Dai Sandraaa!!! Scatta !!che qui fa un caldo cane!!”, Elena cercava di mantenere un sorriso convinto, ma la goccia che scendeva lenta e inesorabile da sotto la bandana le stava solleticando il naso, preparandola ad uno starnuto liberatore. Non era solo il caldo a farla spazientire, era ormai da un’ora che giravano per il sito archeologico di Olimpia e si erano beccate già tre fischiate da parte dei guardiani. D’altro canto quella era un’occasione più unica che rara per le due classiciste di toccare con mano le colonne dell’Heraion (che Pausania definiva le prime colonne in pietra di un tempio greco) o di immortalare quel che restava del Pelopion, il monumento funebre all’eroe dalla spalla d’avorio, la cui morte era stata la prima occasione di giochi organizzati nei pressi dell’Alfeo. E poi era impossibile non arrampicarsi tra le pietre del laboratorio di Fidia, quello in cui il celebre scultore aveva dato forma alla statua di culto crisoelefantina di Zeus. Ora si erano spostate tra i rocchi delle colonne del tempio del padre degli déi: enormi fette di ricotta ( o Viennetta …non riuscivano a decidersi) adagiate ordinatamente, quasi aspettassero una mano gigantesca che ricomponesse ogni fusto con il proprio capitello. “Ma Asia?!” Cassandra non riusciva a capacitarsi di come la loro compagna d’avventura fosse riuscita a defilarsi appena dopo la visita allo stadio di Olimpia: avevano coinvolto un simpatico turista tedesco, costringendolo a immortalarle in posizione di scatto sulla linea di partenza. Era stata Asia a ringraziare il giovane lentigginoso, aveva riconsegnato la macchina fotografica ad Cassandra e poi, era bastato un attimo di distrazione, e Asia e il teutonico erano scomparsi.

Dopo le prime, inevitabili, battute, Cassandra ed Elena avevano deciso di continuare da sole il loro giro archeologico. “Dai! Aspettate la voglio anche io una foto tra i rocchi di colonna!!” – “Asia?! Ma dove eri finita? Ti sei infrattata col tedesco??” “Ma che dici??? Stavo guardando i monumenti sulla collinetta dietro lo stadio, pensavo mi aveste seguito e invece mi son ritrovata da sola… non vi trovavo più!” “Va beh, dai, poi ci racconti del tedesco, ora mettiti in posa che se ci beccano ci fanno il culo!”

“Scusate ragazze, ma avete visto questa macchia?” Elena si chinò lentamente vicino ad uno dei capitelli finiti sotto gli alberi che circondavano le vestigia del tempio. “Macchia? Sarà muschio…” “No, Sandra, guarda, è scura, aspetta… è umida.. ma che è?!” “Elena non toccare se non sai cos’è”  – La voce di Asia era piuttosto seria, ma Elena continuò senza badarci, e così.. “Oh CAZZO!! Cazzo ma questo è.. sangue!!!” “Ma che dici? Ma ven via… sangue… “ “Sandra, ti dico che è SANGUE, guarda il colore… aspetta ma… quello è un taglierino.. là, nell’erba” Cassandra si avvicinò al punto indicato dall’amica e scorse effettivamente una lama abbastanza lunga, sporca anch’essa vicino alla punta di un riflesso ramato. “Lasciate perdere e venite via, magari è qualcuno che stava mangiando una pesca e si è tagliato, sarà andato a farsi medicare”. Cassandra si voltò verso Asia, indecisa se imprecare o scoppiare a ridere “UNA PESCA?!?! Ma che dici? Un picnic finito male?? Ahahahah va beh.. una pesca… no, questo è il massimo, ora lo scrivo sul diario di viaggio… e magari si è lamentato del sapore un po’ troppo dolce… oddio.. ma come ti vengono?” “Mmh, va bene, e allora cos’è? Non c’è nessuno qua intorno, pensavi di trovare un cadavere?” Il tono di Asia non sembrava aver voglia di scherzare, Elena continuò ad imprecare mentre tirava fuori le salviettine umidificate e cercava di lavarsi via il sangue dalle mani; la scena era suggestiva, univa il tradizionale dramma greco a reminiscenze scespiriane, solo che al posto di Lady Macbeth c’era Cassandra, ancora scioccata dall’idiozia tirata fuori da Asia, ma non abbastanza scossa per decidere di andare in fondo alla faccenda.

Al centro del frontone orientale di Olimpia c'è Zeus

Decisero che il giro era finito e che potevano ritenersi più che soddisfatte. All’uscita dal sito Cassandra ed Elena cominciarono di nuovo a becchettarsi a vicenda, non sapendo decidere se, tra le statue dei frontoni del tempio di Zeus esposte al  museo, fosse più intrigante l’Apollo, giovane e nudo giudice divino, o lo Zeus, dal corpo perfetto pur senza testa.

Al centro del frontone Ovest c'è Apollo

Asia si voltò pensierosa a guardare l’ambulanza che entrava nell’area archeologica tra due ali di custodi, a sirene spiegate.

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Una testa calda…

Salome di Oscar Wilde - 1894

Per Lucas Cranach era un’ossessione: tra il 1530 e il 1531 si datano almeno una decina di quadri che hanno un soggetto identico, anzi simile. Se li mettiamo l’uno accanto all’altro, scegliendo attentamente tra le diverse versioni, rimaniamo colpiti, sembra quasi che abbia usato ..photoshop:

Salome e Giuditta – 1530-31 Lucas Cranach il Vecchio

Stessa modella, stessa posizione, si potrebbe dire quasi lo stesso vestito (sicuramente lo stesso cappello!). Eppure, una delle due ha una spada, mentre l’altra sorregge un piatto. Anche l’espressione è un po’ diversa, la prima è contenta del pesante fardello, l’altra è invece seria, decisamente “in posa”. Ma di cosa si tratta?

Si tratta di due donne che hanno ottenuto la testa del loro antagonista. La prima è Salomè, figlia di Erodiade, che, su probabile istigazione della madre, seduce Erode, zio e patrigno, e lo convince a decapitare Giovanni il Battista e a farle avere la testa su di un piatto d’argento.
La seconda è Giuditta, ricca vedova che, di fronte all’ignavia degli anziani, decide di prendere in mano la situazione e di affrontare Oloferne, capo assiro della guarnigione che è giunta a sottomettere Israele. Si finge disposta a tradire i suoi, acconsente a seguirlo presso il letto, ma intanto lo fa bere fino a fargli perdere i sensi e così riesce a decapitarlo e a liberare Gerusalemme dall’assedio.

Storie diverse per contesto, ma talmente simili nell’esito, da aver evidentemente sollecitato la curiosità di Cranach, il quale, tra l’altro, pare si divertisse a immortalarsi nella testa mozzata…

La “donna con la spada” è un’iconografia ben rintracciabile, dalle più antiche e pagane raffigurazioni di un’Atena combattiva, alla rappresentazione simbolica della virtù cristiana della Fortezza, per non parlare della pia eresia di Giovanna d’Arco.

La Fortezza - Sandro Botticelli 1470

Una donna con la spada fa paura, ma sta agendo per il meglio, è sicuramente guidata da una logica superiore e la sua missione è purificatrice.

Gustave Moreau – Salomè

Con Salomè, invece, la situazione è più complicata: c’è di mezzo una danza sinuosa ed eccitante, ma soprattutto c’è la richiesta. Salomè non si sporca le mani, non scende in campo, ma corrompe l’animo di un uomo perché uccida un suo simile. Salomè rappresenta la paura somma: il danno che può procurare il piacere di una donna.

E quelle teste? Chi o cosa rappresentano le teste decollate?

Giuditta nel momento più drammatico - Artemisia Gentileschi 1620

Con Giuditta sono il simbolo della liberazione dall’oppressione. Artemisia Gentileschi, non a caso, ne farà due quadri intensi, che avranno il sapore della rivalsa personale. In quel particolare contesto alla donna è concesso di sedurre per uccidere e Giuditta diventa la vendicatrice di tutte le donne, in particolare delle donne sposate.

1618-19: Giuditta e l'ancella

Giuditta è vedova e ricca e agisce di concerto con la sua ancella: non è il marito a morire, ma l’immagine dell’uomo che esercita la forza. Giuditta libera se stessa e l’intero suo popolo: è lei il novello Perseo che può sollevare, fiera, la testa del suo antagonista. Se ne accorgeranno bene i fiorentini che collocheranno i due eroi ai lati della Piazza dei Signori.

Ma Salomè… cosa hai fatto Salomè? Tu hai chiesto che ti fosse servita su un piatto la testa del Santo, di colui che era giunto “a preparare la strada”. Come poteva essere così fastidioso per te, giovane vergine già corrotta? Quale potere hai voluto dimostrare, esercitare, accarezzando i riccioli insanguinati, con un volto così soddisfatto?
Di nuovo l’arma della seduzione, ma questa volta rivolta contro l’autorità delle parole. Giovanni urlava contro tua madre e contro di te, urlava l’indecenza di una vita di lussuria ed eccessi. Non era un Oloferne qualunque, un brutale generale, venuto a godere dei vostri corpi e a sostituirsi ai vostri uomini; Giovanni urlava nel deserto e predicava pentimento e vergogna, chiedeva cambiamenti radicali e, quasi certamente, voleva rinchiudere i vostri corpi dentro a vestiti più casti, in stanze più appartate.
Per questo lo avete punito, tu e tua madre.
Avete visto lo spettro di una prigione, definitiva ed eterna.

Oggi San Giovanni è festeggiato, anche grazie a quell’atto disumano: cosa strana per un Santo, invece di festeggiare il giorno del martirio e della morte, per il quale è stata fissata già in età romana la data del 29 Agosto (forse legata all’inizio della novena per la nascita di Maria, un’altra vergine combattiva, che a Giovanni e a sua madre deve tutto?), viene festeggiato il giorno della nascita.

Ed ecco, tua cugina Elisabetta, ha concepito un figlio nella sua vecchiaia: e questo è il sesto mese per lei, lei che era detta sterile
Vangelo di Luca, 1.36

San Luca fornisce l’appiglio, il resto segue automaticamente (oppure si tratta del contrario??): i due cugini si accaparrano i due solstizi, invernale ed estivo. Se Gesù deve sostituirsi a Sol Invictus e giungere tra gli uomini che sono in attesa del buon esito della semina, Giovanni può insinuarsi nelle celebrazioni che segnano il momento delicato della mietitura e del raccolto, quando gli uomini si apprestano a raccogliere i frutti della loro fatica, in una notte ricca di incanti e di magie. Dunque San Giovanni è festeggiato nel giorno del compleanno, eppure la sua testa è una reliquia importante e ambita, oggetto di molteplici ritrovamenti nel corso dei secoli. Benedetto XVI ci regala una certezza: il frammento conservato a Roma è quello giusto! Bene! Si trova nella chiesa di San Silvestro, fondata nell’VIII sec. d.C. Il Santo della chiesa è detto “in capite“, pur senza riferimento al suo prezioso tesoro. Se guardiamo le origini del luogo sacro scopriamo però una curiosa coincidenza: il tempio cristiano è stato costruito sulle vestigia di un tempio pagano dedicato a.. Sol Invictus!

Torniamo alla nostra notte tra il 23 e il 24 giugno: è la notte delle streghe, è la notte di San Giovanni; nel rito del solstizio si rinnova l’incontro tra le vergini del diavolo e l’integerrimo predicatore. Le donne chiedono libertà, lui promette un mondo nuovo e più serio, più devoto. Le streghe raccolgono erbe e ne fanno pozioni, lui fornisce il proprio sangue nell’Hypericum e promette di curare dai danni del demonio. Nella notte, infatti, l’Hypericum si brucia e il fuoco purificatore allontana gli spiriti maligni.

Il sangue della testa di Giovanni ha poteri taumaturgici, il sangue della testa recisa della Gorgone aveva prodotto il corallo, dai rinomati poteri apotropaici: qual è il mostro? Chi è stato ucciso? la giovane Salomè ha forse compiuto la scelta giusta?

Durante il giorno, invece, si raccolgono le erbe che hanno, solo il 24 giugno, poteri altrimenti dormienti.

Duomo di Monza - particolare della facciata con Teodolinda e San Giovanni

Il giovane vestito di pelli, che si nutre di locuste e parla nel deserto, è destinato ad affascinare principesse; si tratta di Teodolinda, regina dei Longobardi, che si lascia convincere da Giovanni e prende una decisione politica. Converte il proprio popolo al Cristianesimo. Questa donna unisce il fascino di Salomè e la risolutezza di Giuditta: non ha più bisogno di una testa mozzata, perché sa che questa conversione significa aumentare il proprio potere. Così i Longobardi si ritrovano a sostituire gli antichi dèi con i nuovi: San Giovanni è a loro congeniale, con quella barba lunga e le vesti di pelli, così come San Michele Arcangelo, terribile nell’armatura e con la spada sguainata.

Proprio questa scelta coraggiosa, accaduta tra il VI e il VII sec. d.C., diventa tradizione a Firenze a partire – pare – dall’XI sec. d.C. La costruzione del Battistero, infatti, si data ancora in epoca longobarda.

San Giovanni Battista è patrono della città toscana e, curiosamente, anche di Genova e Torino. Forse solo quest’ultima ha conservato le premesse del Santo predicatore

A Torino sanno qualcosa che a noi sfugge...

A Firenze, ormai da tempo, la festa di San Giovanni significa “i Fochi”. Non i falò che purificano, ma i fuochi d’artificio. Florentia, la vergine (?) florida, cade ogni anno nelle trame del Santo predicatore ed i suoi abitanti sciamano, guidati da un immaginario pifferaio, lasciandosi incantare dalle lingue di fuoco che arabescano la notte.

Cosa chiedono al Santo?

Il dubbio è che non sia più la libertà ad essere richiesta, ma il rinnovo della dolce prigionia. Al Santo si chiede ormai di continuare ad essere illusi, di vivere in una città che tutti ci invidiano. Ai “fochi” si chiede di brillare nella notte e cacciare i fantasmi e le influenze maligne. E mentre rimaniamo con il naso per aria, dietro cancelli chiusi, in mezzo a decine di persone accorse a guardare, vien fatto di pensare che quei fantasmi, di magie concrete come i solchi della terra, potrebbero farci vivere più liberi.

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Giardini incantati: Torino batte Roma

Sono una delle mie più grandi passioni, lo confesso. I Preraffaelliti, il movimento di artisti che nasce in Inghilterra nel 1848, creando scompiglio (d’altro canto quello era un anno “caldo” un po’ per tutti in Europa) nelle Accademie, mi hanno sempre affascinato. Perciò non potevo perdere l’occasione di vedere in mostra alcuni dei lavori più importanti e significativi, a Roma, nel chiostro del Bramante. Roma era vicina, ho subito pregustato la gita “fuori porta” in giornata. E infatti così è stato. Ma… la mostra mi ha deluso non poco.. Il costo abbastanza elevato del biglietto sembrava essere giustificato dall’audioguida inclusa, perciò ne ho approfittato. Niente foto, va bene. Ambiente in penombra con i quadri illuminati ad hoc (o quasi), didascalie essenziali e un pannello per stanza: questa è la moda del momento, d’altro canto ormai sappiamo tutti che la gente non legge nulla, tanto vale ridurre ogni informazione all’osso. Curiosamente noto che, accanto al pannello con una breve introduzione e biografia dell’artista esposto nella sala, c’è la riproduzione della silhouette di un fiore, identificato dal nome in italiano e in inglese (ogni pannello e didascalia è bilingue) e con una breve indicazione delle sue caratteristiche. Completa il tutto l’aforisma di un autore italiano o straniero, anche questo tradotto. Lo schema si ripete in ogni sala, ma io, forte della mia audioguida, non aspetto altro che di essere illuminata: perché il fiore? perché la scelta di quell’autore? ci sono legami tra i Preraffaelliti e alcuni fiori o piante, oppure tra di loro e.. D’Annunzio o Pietro Gori (due degli autori citati)? Purtroppo la mia curiosità non viene soddisfatta: nelle prime due sale si intuisce, dai discorsi un po’ fumosi dell’audioguida, che il fiore prescelto è riprodotto nei quadri…peccato che sia davvero difficile individuarlo… quanto agli aforismi, sembrano semplicemente scelti secondo un filo logico che è rimasto avvolto nel rocchetto di chi ha organizzato la mostra. Nelle sale successive, i pannelli si soffermano per lo più sulle biografie dei pittori e le spiegazioni orali colgono più gli aspetti tecnici che non la storia dei quadri. Non manca lo spazio per la celebrazione del proprietario della collezione esposta: in effetti il titolo della mostra è “Alma Tadema e i pittori dell’800 inglese. Collezione Perez Simon”, perciò non solo i pittori, ma anche il generoso collezionista viene celebrato in tutto il suo splendore.

La visita si svolge con una certa fatica, non ci sono cenni al contesto storico, alla leggenda prescelta per la raffigurazione, solo discorsi vaghi sulle pennellate e qualche riferimento alla fortuna del dipinto. L’ultima sala è la più significativa: il quadro di Alma Tadema invade tutto lo spazio, sono le rose di Eliogabalo e – finalmente – avverto il profumo del fiore che caratterizza l’ambiente. In un tripudio di rose osservate e annusate si conclude la mostra.. l’ultima frase stampata sul muro è.. tratta da American Beauty.. una frase sulla bellezza, che sembra venir fuori dal nulla, solo ora capisco che, forse, l’idea era quella di evocare la scena simbolica della ragazzina tentatrice che, immersa tra petali di rose, attirava a sé l’ineffabile protagonista del film.

Insomma, pare evidente che la mostra romana mi ha lasciato con una sensazione di incompiuto. Perciò, quando ho visto che anche Torino esponeva quadri Preraffaelliti… ho cominciato a fare un po’ di calcoli. Alla fine ho deciso di andare anche a Torino! Con Italo si arriva a Porta Susa e da lì ci vuole solo una mezz’oretta per raggiungere Palazzo Chiablese, presso il Palazzo Reale. Biglietto economico, tempo contato, un’altra avventura “mordi e fuggi” può cominciare… cosa mi riserverà questa volta?

Ebbene, se avete modo…. andate assolutamente a Palazzo Chiablese, dove la mostra sarà visibile fino al 13 luglio!

Di nuovo un biglietto non proprio economico (13 euro), comprensivo di audioguida. Ma… che differenza! In media le spiegazioni dell’audioguida durano 1 minuto e mezzo e in ogni sala ci sono i pannelli e le didascalie, essenziali e bilingue come per Roma. La scelta dei quadri è semplicemente splendida… Provengono dalla Tate Gallery di Londra e sono disposti in un percorso che vuole illustrare .. tutto!

Infatti, cosa sono i Preraffaelliti e perché riescono ad esercitare ancora un così grande fascino? Ho parlato di “confraternita“, nel senso di un gruppo di giovani pittori che vuole identificarsi in ideali di bellezza e semplicità, deviando dai canoni imposti dalla pittura accademica. John Ruskin è uno dei più accaniti fautori della neonata corrente ed è un letterato, così come Gabriel Rossetti, il vero artefice del gruppo, il quale aggiunge ben presto “Dante” al suo nome, perché si diletta in traduzioni ed è, insieme alla sorella, un apprezzato poeta. Dunque, quando si parla di Preraffaelliti si intende un movimento culturale, prima ancora che pittorico: capaci latinisti e grecisti, appassionati di cultura antica, ferventi estimatori della tradizione inglese, questi sono i pittori preraffaelliti, sempre pronti a lasciarsi ispirare da un dramma di Shakespeare o da una stanza di Keats.

La notte di Sant'Agnese, da un breve poema di Keats

Il quadro si ispira alla "Mariana" di Tennyson, che a sua volta riprende la storia di una protagonista di Misura per Misura di Shakespeare

Non solo, questi artisti si esercitano molto all’aria aperta, nel tentativo di riprodurre fin nei minimi particolari la campagna, con ruscelli, fiori, uccelli, arbusti…   La cornice naturale accoglie i personaggi della mitologia inglese o classica. Ogni quadro è quasi un saggio di letteratura, per cui è fondamentale conoscerne l’ispirazione, cosa che la mostra di Torino offre in poche ma illuminanti parole.

E i Preraffaelliti sono anche molto di più… da queste poche spiegazioni si potrebbe dedurre che si tratti di un gruppo di ragazzi che si ritagliano un posto fuori dal mondo, in cui dare sfogo a desideri infantili ed eterei. In realtà, osservando i soggetti femminili dei dipinti si scopre che le modelle sono donne che avevano catturato l’animo e la fantasia dei loro pigmalioni e che diventano protagoniste non solo dei dipinti, ma della vita della confraternita.

Le stesse labbra si ritrovano molti anni più tardi in Beata Beatrix

Lizzie Siddal è sicuramente un simbolo importante fin dalla “sua” Ofelia, ottenuta stando immersa in una vasca riscaldata da lampade. Quando una lampada si spegne, il volto pallido di Lizzie acquista un’ombra che la accompagnerà fino alla tomba: una polmonite mina la sua salute, il padre minaccia querela a Millais, ma alla fine Lizzie diventerà moglie di Rossetti, comincerà anche una propria carriera di pittrice, e morirà in preda al Laudano… mentre la sua immagine a olio troverà l’eternità in Beata Beatrix.

L'espressione è la stessa dell'Ofelia, ma gli occhi sono chiusi.. Lizzie è morta

Questo è solo uno dei retroscena che la mostra a Palazzo Chiablese permette di conoscere. Le sezioni della mostra presentano le molte fasi del movimento, da quella di matrice religiosa a quella più votata alla denuncia sociale. Ne“L’ultimo giorno nella vecchia casa” si avverte la tragedia di una famiglia: da una parte la causa della rovina, ben espressa dallo sguardo vacuo del padrone di casa intento a brindare con il figlio, ma in realtà il giocatore incallito che ha sperperato i beni dell’antica casata, dall’altra gli effetti. Nel pianto della nonna e nello sguardo accorato della bambina si percepisce una coscienza che la madre cerca di mitigare, sperando di poter sottrarre il figlio alla cattiva influenza del padre; ma il destino è segnato e i numeri apposti sui mobili fanno capire che ormai tutto quel che circonda la famiglia è destinato alla vendita all’asta.

Unica nota meno accordata è il filmato di Luca Beatrice: mi sono informata e ho capito che si tratta di un apprezzato e famoso critico d’arte e, più in generale, di movimenti di avanguardia del ‘900, sia nella pittura che nel cinema. Le sue parole servono a collegare il movimento ottocentesco con alcuni dei più stravaganti stilisti, musicisti e registi del Novecento. Non sono sicura di aver colto fino in fondo tale collegamento, infatti mi è risultato un poco forzato a volte, in ogni caso ho apprezzato l’intento di fondo e gli spunti di riflessione.

Giardini incantati, in cui personaggi tormentati si spogliano delle fatiche quotidiane e trovano un’immortalità di bellezza e di valori, sia positivi che negativi. A differenza di Roma, dove dominava Alma Tadema, a Torino questo autore manca (come manca anche Waterhouse) perciò non si trovano accenni alla parte più chiaramente votata al recupero della cultura antica, elemento che spesso caratterizza un certo spirito preraffaellita. Ma la mostra di Palazzo Chiablese permette sicuramente di conoscere e apprezzare l’avventura romantica e anticonformista della Londra di fine ‘800.

Millais sposa una sua modella. Effie. Qui sono ritratti in una foto di Lewis Carroll. Questo per dire quanta letteratura gira intorno al gruppo di pittori.

Ultima notazione, doverosa, riguarda i diversi intenti dichiarati delle due mostre: a Roma veniva presentata una collezione, unico filo rosso la datazione dei dipinti; a Torino l’accento era posto più chiaramente sui Preraffaelliti e sugli ideali da loro espressi. Perciò mi si potrà obiettare che non ha senso comparare le due mostre. Eppure, la capacità di Torino rispetto a Roma è stata quella di creare un contesto storico entro il quale collocare i dipinti. Si poteva fare anche con i pittori ospitati nel Chiostro del Bramante, ma si è preferito evocare un collegamento olfattivo (i fiori) senza crearne le premesse (un profumo diffuso nella stanza, ad esempio, o la chiara identificazione nei quadri); a mio parere si voleva rincorrere un’atmosfera da galleria di mercante d’arte, quale probabilmente è davvero l’abitazione di Perez Simon, a scapito dell’intento divulgativo e didattico (infatti a Torino la collaborazione è con la Tate Gallery). Che dire? Io ho preferito di gran lunga la seconda impostazione!

Dal 19 Aprile 2014 al 13 Luglio 2014

Torino Palazzo Chiablese

ENTI PROMOTORI:

  • Comune di Torino – Assessorato alla Cultura
  • Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte
  • Polo Reale di Torino

COSTO DEL BIGLIETTO: intero € 13, ridotto € 11 / € 6.50, gratuito fino a 6 anni

TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 011 0881178

E-MAIL INFO: luisa.cicero@comune.torino.it

SITO UFFICIALE: http://www.mostrapreraffaelliti.it

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“…ricordi dei tempi pazzi”

Francesca è tagliente “sì, sì, lasciali dire, quelli che si scagliano contro gli extracomunitari, contro gli ebrei, contro ogni tipo di minoranza, e si fanno forti della “purezza” del loro albero genealogico, sicuri di sapere perfettamente da dove vengono. Io so che, se facessero un po’ di ricerca tra nonni, bisnonni e trisnonni, potrebbero scoprire delle verità scomode, oppure capire che non ha senso scagliare pietre, bisogna prima sapere da dove veniamo.”

La foga con cui pronuncia queste parole non mi stupisce, so che ormai da tempo sta facendo un’opera certosina di recupero delle origini della sua famiglia. Tuttavia le faccio presente che la sua è una risposta fuori luogo ad una domanda retorica che, dal mio punto di vista, ha un taglio leggermente diverso.

Ma Francesca ha ragione e solo oggi, dopo aver letto l’ultimo germoglio, spuntato sul suo albero genealogico ricco di gemme, capisco davvero la passione e la pregnanza delle sue parole… “Il ramo ritrovato” è un piccolo scrigno. Per la famiglia di Francesca, per i suoi amici che hanno seguito le pubblicazioni precedenti e l’enorme lavoro di raccolta della documentazione necessaria a confezionare quest’ultimo, ma anche per chiunque volesse cimentarsi a leggerlo.

Dico “cimentarsi“. Perché le date e i nomi sono tanti.. ti travolgono.. fortunatamente gli alberi genealogici inseriti nel libro aiutano a chiarirsi le idee, ma mentre leggi vieni portato via dalla piena di nascite, morti, matrimoni, vite vissute o sacrificate. E mentre leggi di tutte queste famiglie, spesso imparentate tra di loro, non puoi fare a meno di sentirti percorrere da un brivido “Cosa sarebbe successo se non ci fossero state la passione testarda di Francesca e le domande curiose di sua madre?”

Mentre leggi di come Alessandro e Zina hanno lottato per raggiungere un matrimonio d’amore, e poi, dopo, per conquistare una serenità familiare; oppure quando ti immergi nelle controversie familiari attorno ai posti di dirigente RAS; infine quando percorri tremante quelle linee di binari che inesorabili conducono alla morte, e intanto cerchi di capire chi si salverà; per tutta la durata della tua lettura continui a interrogarti sul pericolo di una memoria cancellata.

In effetti questo sembrava essere il destino delle decine di protagonisti dei libri di Elena e Francesca: l’oblio. Quasi vergognoso, sicuramente definitivo.

Invece no. Madre e figlia ipotizzano che, in fondo, l’aver conservato tutte quelle lettere e tutte quelle foto ha voluto significare qualcosa: cercateci, non dimenticateci, trovateci e ricordateci. Ma la mente umana è ricca di mistero, il modo in cui la memoria intende mantenere nitidi i ricordi è davvero impossibile da prevedere. I figli di Alessandro e Zina non sapevano, forse, come fare, aspettavano l’arrivo di qualcuno cui affidare memorie troppo pesanti da gestire.

Dalle prime lettere, che finalmente facevano rivivere una donna e madre dalla vitalità prorompente e troppo presto troncata, Francesca ed Elena hanno continuato a scavare, per raggiungere le radici di questo albero così frondoso. E assieme alle lettere recuperano le fotografie, per dare volti ai nomi oppure per spingere a cercare nomi nuovi.

Alessandro, vestito da paggio, commenta che quella foto è un ricordo “dei tempi pazzi”, siamo alla fine dell’800 e i tempi sono davvero quelli dei più intraprendenti, nella neonata nazione. Noi sorridiamo della sua parrucca bionda, ma contemporaneamente lo ringraziamo per questa immagine di spensieratezza, a pochi anni dal secolo breve. I racconti che Francesca raccoglie ne “Il ramo ritrovato” sono molto meno spensierati: ricordano un’epoca in cui la forza della sopravvivenza lottava contro i mostri della Storia.

Tante storie di famiglie della media e alta borghesia, che confondono un’etichetta religiosa con la libertà di espressione: gli ebrei non vengono rapiti all’uscita dalla sinagoga, Eugenio muore come “libero pensatore”. E cambiare cognome, renderlo più “ariano” o cattolico, può non servire di fronte alla banalità stupidità del male…

Tutto questo e molto di più emerge dalle pagine de “Il ramo ritrovato” e la testardaggine di Francesca, e di sua madre Elena, nella ricerca appassionata di questo ramo, ci fanno pensare a quanto azzeccata sia la figura dell’albero per rappresentare una famiglia: una creatura viva, che si nutre del sale della terra e dell’acqua piovana, cioè di passione e lacrime.

Tante lacrime sono state versate: dalla piazza dell’Aglio a Mantova, fino al Montenegro, al Belgio, e poi di nuovo in Italia tra Milano e Trieste, Firenze e Catania. Infine nei vagoni scuri e maleodoranti che attraversavano il confine a Nord e tornavano vuoti, oppure in una cella fredda da cui un carabiniere sano riesce a mettere in salvo una mamma e i suoi due bambini.

L’albero di Francesca ed Elena scuote le sue fronde e il fruscio ci fa voltare: ci chiama al riparo sotto la sua folta ombra e invita a coltivare.. il ricordo di chi ci ha preceduto.

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