Con toda palabra

Eppure questa volta non aveva fatto proprio nulla, non aveva mosso un muscolo, non si era lanciata in battaglie di sangue e polvere. Questa volta lei non c’entrava.

Quando il gruppo di stranieri era arrivato, Ippolita si trovava sul terrazzo più alto del palazzo reale: si sentiva insolitamente tranquilla, annusava l’aria e riconosceva un profumo di mirra, che impregnava le stoffe dell’ampio letto e si insinuava negli angoli più nascosti della stanza, promettendole sogni torridi, di quelli che ti lasciano il sorriso sulle labbra, al mattino.
Ad un certo punto, lo sguardo era stato attirato da una nuvola di polvere che sembrava avvicinarsi alle porte della città: Temiscira, la gloriosa, le cui torri svettavano imponenti; Temiscira l’impenetrabile, che di tanto in tanto apriva le porte e vomitava quei maschi, inevitabile strumento, catturati “a scopo riproduttivo”; Temiscira, la città dallo sguardo altero come quello della sua regina.
Ippolita aveva cercato di mettere a fuoco, ma evidentemente non poteva fidarsi della sua vista.. perché le era sembrato di vedere un animale a cavallo.. un leone?!

Il primo incontro, nella sala rivestita di marmi verdi e gialli, aveva alimentato quella sensazione impalpabile, che la regina provava di tanto in tanto … allora le sue donne si facevano in quattro per procurarle un degno oggetto del suo improvviso desiderio. Era una gara, di abilità e di adulazione, cui Ippolita assisteva sempre divertita. Lo straniero dalla pelle di leone l’aveva fissata con uno sguardo di sfida, pronto allo scontro fin dalle prime parole, mormorate a fatica, per la verità. Ippolita aveva sorriso, accendendo gli occhi neri in uno sguardo suadente, e aveva lasciato che lo straniero muscoloso completasse la propria richiesta.

Una cintura!
Ma dove mai si era visto che un gruppo di ragazzotti ben piantati si mettesse in viaggio per terra e per mare, per eseguire gli ordini di una piccola sacerdotessa viziata, che voleva.. una cintura!
Ippolita si ricordava bene il giorno in cui suo padre gliel’aveva data: nella stanza accanto a lei c’era la nutrice, eppure Ippolita era convinta di avvertire la presenza di un’altra

 

persona, nascosta dietro a un paravento di legno, quello con l’albero dai rami ricurvi,
appesantiti dai rotondi pomi dorati (quanto le piaceva giocare con le sue amiche per vedere chi individuava tutti gli uccelli appollaiati sui rami! … lei, naturalmente, vinceva sempre). Quel giorno, insomma, il suo bel papà aveva appoggiato scudo e spada sul letto e le aveva mostrato un involto di stoffa verde: aprendolo era comparsa una striscia di stoffa ripiegata su se stessa. Aveva un colore simile a quello della pelle abbronzata di Ippolita, ma decine, forse centinaia, di piccole pietre colorate erano state intessute insieme ai fili di lana cardata, a comporre disegni circolari, quasi come i rami del paravento.
Ippolita aveva alzato gli occhi verso il padre Ares con sguardo interrogativo: che ci doveva fare? cosa era quella stoffa, che non bastava nemmeno a fare una corta tunica per le passeggiate a cavallo?
Ares le aveva detto che era il regalo di una zia, una signora molto buona che aveva voluto dare alla piccola principessa un dono speciale: quella cintura, infatti, aveva un grandissimo potere. Chi la indossava poteva piegare la volontà degli uomini e non avrebbe dovuto temere mai più di niente, tutti avrebbero fatto esattamente ciò che veniva loro ordinato, ma in maniera spontanea…

Per Ippolita si trattava di un discorso strano e poco comprensibile: lei era la principessa, tutti già facevano esattamente quello che lei diceva loro! Che bisogno c’era di una cintura?
Ares aveva finito gli argomenti, quel discorso era stato forse il più lungo mai fatto alla figlia, perciò si limitò a sorridere e le disse di tenerla al sicuro, la avrebbe indossata a tempo debito e avrebbe capito meglio cosa voleva intendere suo padre. Da dietro il paravento a Ippolita sembrò di sentire un sospiro profondo, quasi uno sbuffo, ma subito dopo, il richiamo delle amiche che le dicevano di scendere a giocare la distolse da qualsiasi altro pensiero.

Il momento di indossare la cintura arrivò presto: quando il giovane corpo di Ippolita la costrinse al cambiamento più intimo e definitivo. Ares non era con lei, ma la nutrice le fece indossare la cintura e una strana donna, dall’aspetto luminoso e dal sorriso incredibilmente affascinante, volle essere ricevuta per farle le congratulazioni (ma di cosa? di che? c’era qualcosa che lei ancora non riusciva a capire)… quando andò via Ippolita chiese alla nutrice come si chiamava e il nome sussurrato dalla vecchia donna fu “Afrodite“.

Dunque quello straniero così abbronzato e dallo sguardo stravolto le stava dicendo di dargli la cintura, perché doveva portarla alla figlia di Euristeo, una ragazzina devota a Hera. Ippolita allargò nuovamente il sorriso e si alzò maliziosamente la veste, per raggiungere la cintura che portava annodata a contatto con la pelle bruna.
“Ecco, se la vuoi te la regalo, è solo una vecchia cintura di quando ero bambina”.
La nutrice non c’era più ormai da anni accanto a Ippolita, ma le ancelle conoscevano la storia della cintura e così aprirono la bocca contemporaneamente e cominciarono a fare i loro soliti versi, quegli squittii che Ippolita non sopportava, per fermare la regina, dicendo che non poteva pensare di disfarsi di un cimelio di famiglia e regalarlo al primo venuto! Un uomo per giunta!!
Ippolita rivolse loro uno sguardo duro ed esclamò “Silenzio! La cintura è mia, io posso decidere di farne ciò che voglio! Ora basta con questi versi e preparate il banchetto in onore dei nostri ospiti”.
Scendendo dal trono e avvicinandosi a Ercole, la regina reggeva in una mano il cinto e nel frattempo ordinava affabile all’inaspettato straniero di rimanere almeno una notte, suo gradito ospite.

Per tutto il tempo della cena Ippolita si impegnò in un gioco di seduzione che non aveva mai sperimentato prima: di solito la preda le veniva portata, quasi servita, e lei si limitava a cibarsene, per acquietare quell’istinto che le prendeva all’improvviso. Ma con Ercole la cosa era diversa: lui era venuto spontaneamente, si era offerto.. ma sapeva dove era finito? aveva idea della fama (o della fame) della regina delle Amazzoni? Cosa era la sua, spregiudicatezza oppure incoscienza?
Ecco, queste domande avevano suscitato in Ippolita una curiosità nuova, voleva capirlo, seguire i suoi sguardi, cogliere il non detto delle parole che pronunciava così di rado, ma che esprimevano una crudele praticità.

Ippolita non si ricordava di averla vista entrare, ma ad un certo punto si era accorta di un brusio che stava sopravanzando la musica delle flautiste, distogliendo i banchettanti dall’atmosfera rilassata e spensierata che l’ottimo vino di Patmos aveva diffuso, poco diluita, nelle coppe degli invitati.
Fu una delle sue ancelle a prendere il coraggio di avvicinarsi al letto della regina sussurrandole nell’orecchio che un’Amazzone era arrivata di corsa nella sala e stava dicendo a tutte che Ippolita era in pericolo.
Lo sguardo di Ippolita fu di vero stupore: quando, come, perché? e soprattutto.. chi diavolo era questa compagna che si permetteva di diffondere il panico prima di rivolgersi alla regina direttamente?

Ma non ci fu tempo, il potere della calunnia riuscì ad attecchire bene negli animi delle donne che erano rimaste colpite dalla facilità con cui Ippolita, la loro regina, aveva accolto gli stranieri (degli uomini!) accettando ogni loro richiesta e ospitandoli come se fossero amici da una vita!
Il bruno guerriero dalla pelle di leone vuole rapire Ippolita! Ce la vuole portare via! Dobbiamo impedirglielo a qualunque costo!

Distesa a terra, Ippolita guardava il soffitto… non le era mai sembrato così alto… irraggiungibile. Riusciva a sentire il liquido caldo e denso scorrerle sulla pancia, quello straniero forzuto e animalesco l’aveva sventrata.. ora la cintura rossa del sangue versato le copriva i fianchi e le faceva chiudere gli occhi in un sogno annebbiato.
La lotta si era scatenata furiosa ed Ercole aveva guardato la sua ospite con occhi spiritati: “Ma che succede? Allora era solo una finta quella di regalarmi la cintura!”. Un minuto dopo si divincolava, buttando per terra ben tre Amazzoni che lo avevano aggredito alle spalle. Ippolita era scattata in piedi e aveva cercato di urlare per riportare la calma tra le sue donne, e trovare la spiegazione di quella follia. Ma Ercole non poteva più sentire nulla, aveva cercato di metterle le mani al collo, infine aveva afferrato una spada, strappandola a una Amazzone stramazzata al suolo, e, senza pensare, aveva sferrato il fendente mortale.

Finalmente Ippolita stava cominciando a capire. Capiva il valore della cintura e capiva anche che suo padre non aveva scelto parole a caso: “Il potere di piegare la volontà degli uomini”. Quale volontà, padre? Quella dell’animale braccato? Allora no, scusa, ma la cintura ha il potere di ammaestrare gli istinti, e non solo degli uomini, ma anche delle donne.

Con la cintura è possibile garantire l’equilibrio, senza… gli animi sono preda delle sensazioni più irrazionali, quelle che conducono alla distruzione.

Questa la “vera” leggenda di Ippolita ed Eracle: http://www.treccani.it/enciclopedia/ippolita_%28Enciclopedia-Italiana%29/

E questa la “colonna sonora” del post: Con toda palabra

Pubblicato in Sirene | Contrassegnato , , , , , , , | Lascia un commento

Hypnos

Hypnos, alato, accucciato sulla testa di Arianna, che dorme ignara.

Che gli dèi misericordiosi, se esistono, ci proteggano nelle ore in cui né il potere della volontà, né le droghe inventate dagli uomini possono tenerci lontani dall’abisso del sonno. La morte è compassionevole perché da essa non c’è ritorno, ma chi emerge, pallido e carico di ricordi, dai recessi della notte, non avrà più pace.
(…)
Che sciocco, che folle divino è stato il mio amico, colui che mi ha preceduto e alla fine ha conosciuto terrori che forse saranno i miei.
Ricordo che ci incontrammo in una stazione ferroviaria, dove egli era al centro di una folla volgare e curiosa. Era svenuto e il piccolo corpo vestito di nero stava rattrappito sul marciapiede, come in preda alla paralisi. Penso che avesse una quarantina d’anni, perché la faccia pallida e incavata, ovale e veramente bella, era segnata da profonde rughe; nei capelli ondulati e nella piccola barba che dovevano essere stati neri come penne di corvo c’erano tracce d’argento. La fronte, di un’altezza e un’ampiezza divine, era bianca come il marmo pentelico.
Mi dissi, con l’ardore dello scultore, che quell’individuo era la statua di un fauno dell’antica Grecia disseppellita fra le rovine di un tempio e portata alla vita nella nostra età opprimente solo per sentire il freddo e la pressione dei millenni. E quando aprì gli enormi occhi incavati, luminosissimi, capii che sarebbe diventato il mio unico amico, il solo amico di chi non ne aveva mai posseduto uno.
Quegli occhi dovevano avere contemplato la grandezza e il terrore di regni al di là della coscienza e della realtà normali: gli stessi regni che avevo amato nell’infanzia ma non ero riuscito a ritrovare.
Così, mentre allontanavo la folla, gli dissi che doveva venire a casa mia, essere il mio maestro e la mia guida sulla via dei misteri insondabili. Lui annuì senza dire una parola, ma in seguito scoprii che aveva una voce squisitamente musicale: la musica di viole profonde e sfere cristalline.
Parlavamo spesso, sia di giorno che di notte, mentre scolpivo busti e teste d’avorio in miniatura per immortalare le diverse espressioni del mio amico.

E’ impossibile riassumere i nostri studi, perché avevano tenuissimi legami con il mondo come lo concepiscono i vivi: ci occupavamo di un universo più vasto e spaventoso, un universo di sostanza impalpabile ed elusiva che tuttavia ha radici più profonde del tempo, dello spazio e della materia, e di ci sospettiamo l’esistenza solo in certi momenti del sonno; facciamo allora sogni molto rari, sogni oltre i sogni che non capitano mai agli uomini comuni e solo una o due volte nella vita dei più fantasiosi.
(…)
Fra le molte sofferenze di questi giorni la più dolorosa è l’obbligo al silenzio. Ciò che ho visto e imparato nelle ore di empia ricerca non può essere detto a parole, perché al nostro linguaggio mancano termini e concetti.
Dico questo per chiarire che fin dall’inizio le nostre scoperte si basarono su sensazioni (…) che giocavano su aspetti paradossali del tempo e dello spazio e al fondo non possedevano un’esistenza autonoma e definita.
(…) In quei voli neri neri e senza corpo eravamo a volte soli e a volte insieme. Quando eravamo insieme il mio amico era sempre parecchio più avanti di me: ne intuivo la presenza, nonostante la mancanza di forme, grazie a una specie di memoria fotografica che mi permetteva di vedere la sua faccia soffusa di una strana luce d’oro e spaventosa nella sua fantastica bellezza; le guance parevano incredibilmente giovani, gli occhi bruciavano, la fronte olimpia era incorniciata dalla barba e dai capelli che sembravano ombre.
Del passare del tempo non tenevamo conto (…) i discorsi che facevamo erano empi, orribilmente ambiziosi: nessuno, dio o demone, avrebbe potuto aspirare alle scoperte e alle conquiste che progettavamo sussurrando.
(…) confesserò che il mio amico, una volta, scrisse su un pezzo di carta un desiderio che non osava profferire ad alta voce e che mi costrinse a bruciare il biglietto e a guardare sconvolto le stelle.
Accennerò soltanto che i suoi progetti riguardavano il dominio dell’universo visibile e oltre; che secondo quei disegni la terra e le stelle avrebbero dovuto muoversi ai suoi ordini e i destini di tute le cose viventi avrebbero dovuto appartenergli.
(…)
Una notte i venti che soffiavano da spazi ignoti ci spinsero irresistibilmente verso il vuoto illimitato al di là del pensiero e dell’essere. (…) Lacerammo in rapida successione una serie di ostacoli viscosi e mi resi conto che ci eravamo spinti in luoghi molto più lontani di quelli dove eravamo stati fino a quel momento. Nell’oceano di spazio ignoto il mio amico mi precedeva vertiginosamente, e sull’immagine mnemonica del volto luminoso e giovane vedevo un’espressione di sinistra esultanza; poi, all’improvviso, la faccia che galleggiava nel vuoto si oscurò e scomparve, e in un breve spazio fui proiettato contro un ostacolo che non riuscivo a superare.
(…)
Lottai con tutte le mie forze e arrivai alla fine del sogno drogato; aprii gli occhi materiali e vidi lo studio nella torre, dove il corpo dell’altro sognatore era rannicchiato in un angolo, pallido e ancora incosciente. La luna proiettava raggi d’oro sui lineamenti statuari, rendendoli fantastici e ascetici insieme. Dopo un breve intervallo il corpo si agitò (…) non so descrivere le sue urla, la luce impossibile dei suoi occhi impazziti dal terrore in cui si accesero, per un istante, visioni d’inconcepibili inferni; so solo che svenni e non mi ripresi fino a quando lui stesso mi scosse, ormai sveglio e alla disperata ricerca di qualcuno con cui condividere l’orrore e la desolazione.
Quell’episodio segnò la fine delle nostre ricerche volontarie nelle profondità del sogno.
Sconvolto, in preda al timor sacro e profondamente cambiato, il mio amico mi avvertì che non avremmo mai più dovuto spingerci nell’abisso.
Non ebbe il coraggio di dirmi quello che aveva visto oltre la barriera, ma dagli insegnamenti che aveva tratto giudicava che per il nostro bene la cosa migliore fosse dormire il meno possibile, a costo di prendere droghe per restare svegli.
(…) Dopo ogni breve sonno sembravo più vecchio, mentre il mio amico degenerava a una rapidità quasi sconvlgente. E’ orribile vedere i capelli che sbiancano e le rughe che s’incidono nella pelle sotto i nostri occhi, e il modo di vivere che avevamo adottato fino ad allora cambiò completamente.
Il mio amico, che non mi aveva mai confessato il suo nome e le sue origini, ma che conoscevo per un recluso, era ossessionato dalla paura della solitudine.
(…) Il suo unico sollievo consisteva nel far baldoria in modo chiassoso e il più sfrenato possibile, sicché poche comitive di giovani e gaudenti ci erano sconosciute. Il nostro aspetto e la nostra età a volte suscitavano un ridicolo offensivo, ma il mio amico lo considerava un male minore della solitudine. La cosa che temeva di più era trovarsi fuori casa quando splendevano le stelle, e se questo avveniva le guardava spesso e con ansia, come inseguito da qualcosa di mostruoso nel cielo. (…) Ci vollero due anni perché collegassi quelle paure a un oggetto particolare, ma alla fine mi resi conto che dovevo cercare il punto dela volta celeste che, a seconda delle stagioni, corrispondeva al suo sguardo. La zona in questione corrispondeva vagamente alla costellazione della Corona boreale.
Avevamo aperto uno studio a Londra e non ci separavamo mai, ma non parlavamo dei giorni in cui avevamo cercato di sondare i misteri del mondo irreale. Eravamo vecchi e indeboliti dall’uso delle droghe, dalle dissipazioni, dalla tensione nervosa (…) raramente cedevamo più di un’ora o due alla condizione che prometteva una così orribile minaccia; poi venne un gennaio di nebbia e pioggia in cui non avevamo denaro e non potevamo comprare le droghe. Le mie statue e le teste d’avorio erano vendute dalla prima all’ultima (…) Soffrivamo terribilmente e una notte il mio amico sprofondò in un sonno da cui non riuscii a svegliarlo. (…) il respiro profondo, sinistro e regolare del mio amico sul divano… sembrava la misura della paura e delle sofferenze del suo spirito, perduto in sfere proibite, inimmaginabili e orribilmente lontane.
La tensione della veglia si fece opprimente (…) sentii un orologio suonare da qualche parte (non il nostro, che non suonava) .. orologi… il tempo, lo spazio, l’infinito… Poi tornai al presente e mi dissi che la Corona boreale stava per sorgere a nordest. (…) E all’improvviso le mie orecchie individuarono una componente nuova e distinta nel concerto di suoni amplificati dalla droga; un sibilo basso e insistente che veniva da lontano; un richiamo beffardo, incessante, ronzante che veniva da nordest.

Ma non fu il suono in se stesso a farmi perdere i sensi e a imprimere sulla mia anima un marchio di terrore che in tutta la vita non riuscirò a cancellare; non fu quello a provocare le urla e l’agitazione che attirarono vicini e polizia e li indussero ad abbattere la porta. Non fu ciò che sentii ma ciò che vidi, perché nella stanza buia, chiusa a chiave, con le tende e le impose tirate era apparso dall’angolo di nordest un terribile fascio di luce osso-oro. La luce si concentrava sulla testa del dormiente e formava davanti a me un duplicato della faccia giovanile che avevo visto con gli occhi della memoria tutte le volte che mi ero avventurato nell’ignoto. (…)

Mentre guardavo vidi la testa che si alzava, gli occhi neri, liquidi e profondamente incassati che si aprivano dal terrore e le labbra sottili, in ombra, che si dividevano per mimare un urlo troppo spaventoso per essere emesso. Nelle tenebre splendeva una faccia inflessibile e spettrale, incorporea ma ringiovanita (…)
Seguii lo sguardo della faccia ringiovanita, che risaliva al punto d’origine della luce e del suono, e lungo il fascio rossastro vidi per un attimo ciò che vedeva il mio amico.
Fu allora che mi abbandonai alle urla e alle convulsioni che richiamarono polizia e vicini, ma non potrò mai descrivere quello che vidi. (…)
Ma sempre mi guarderò dal beffardo e insaziabile Hypnos, signore del sonno, che si agita nel cielo della notte, e mi difenderò dalle pazzesche ambizioni della conoscenza e della filosofia.
(…)
Mi dissero, non so per quale ragione, che non avevo mai avuto un amico e che la mia tragica vita si era riempita esclusivamente di arte, filosofia e follia. Inquilini e poliziotti cercarono di calmarmi e il medico mi diede un sedativo, ma nessuno sembrò accorgersi della terrificante tragedia.
La sorte del mio amico non li commosse, ma ciò che trovarono sul divano dello studio li indusse a lodarmi con parole che mi disgustarono e che oggi mi hanno portato a una deprecaile fama.
Calvo, con la barba lunga, affranto e divorato dalle droghe, me ne sto seduto per ore davanti all’oggetto che fu trovato nello studio, adorandolo e pregandolo.

La gente nega che avessi venduto la mia ultima statua e indica con meraviglia ciò che il fascio di luce rossa aveva tramutato in pietra muta, incapace di emettere un ultimo grido.
Eppure è tutto quello che rimane del mio amico, l’amico che mi ha spinto sull’orlo della follia e del naufragio: una testa divina, di un marmo che solo l’Ellade può dare; un volto giovane, di una giovinezza che trascende il tempo, con le labbra curve e incorniciato dalla barba; una fronte olimpia con i capelli mossi e cinti di fiori.

Dicono che quel volto stregato sia modellato sul mio quando avevo venticinque anni, ma sulla base di marmo è scritto un altro nome, nelle lettere d’Attica: HYPNOS.

(H. P. Lovecraft, Hypnos, Maggio 1922).

Pubblicato in Sirene | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

“sembravano ingrassati ed erano soddisfattissimi”

Fu sotto una falce di luna bianca che vidi per la prima volta la città. Sorgeva, immobile e sonnolenta, su un misterioso altopiano in mezzo a una depressione circondata da montagne fantastiche. Mura, torri, pilastri, cupole e strade erano di un marmo sepolcrale, e dalle strade si alzavano colonne che in cima avevano scolpite le immagini di uomini severi e barbuti
–  da “La Stella Polare

L’arrivo a Civita di Bagnoregio, in un tardo pomeriggio di gennaio, fa affiorare inevitabilmente l’atmosfera spettrale e allo stesso tempo affascinante di una delle città misteriose di H. P. Lovecraft

Si racconta che a Ulthar la legge proibisca di uccidere i gatti.

Ad Ulthar, prima che i notabili lo vietassero, vivevano un vecchissimo contadino e sua moglie, che si divertivano a intrappolare e uccidere i gatti dei vicini.

Un giorno, nelle stradine acciottolate di Ulthar arrivò una carovana di misteriosi vagabondi del Sud: erano scuri di pelle e diversi da qualsiasi altro popolo di nomadi visto da quelle parti. Predicevano il futuro nella piazza del mercato in cambio di pezzi di argento e compravano perline colorate nelle botteghe. Nessuno sapeva di dove venissero, ma fu presto chiaro che recitavano strane preghiere e sui fianchi dei carri avevano dipinte effigi misteriose con il corpo umano e la testa di gatti, falchi, arieti e leoni.

Della carovana faceva parte Menes, un ragazzo senza padre né madre, ma solo un gattino nero a cui badare.

Il terzo giorno della loro permanenza a Ulthar, Menes non riuscì a trovare il suo amico e cominciò a piangere in mezzo alla piazza: allora alcuni abitanti del borgo gli parlarono del vecchio e di sua moglie e dei lamenti che si udivano la notte. Dopo averli ascoltati Menes non pianse più, ma rifletté e quindi cominciò a pregare. Tese le braccia al sole e lo invocò in una lingua che nessuno ad Ulthar capiva… gli abitanti erano tutti presi dallo spettacolo che avveniva nel cielo e dalle strane forme che le nuvole avevano assunto.

La stessa notte i nomadi lasciarono Ulthar e non furono più rivisti. Nel borgo la gente scoprì con sorpresa che non c’era più un solo gatto: gatti grandi e piccoli, grigi e a strisce, gialli e bianchi. Il vecchio Kranon, il borgomastro, giurò che i nomadi se li erano portati via per vendicare l’uccisione del gattino di Menes, ma Nith, il primo notaio, suggerì che era più logico sospettare del contadino e di sua moglie, visto che il loro odio dei gatti era noto…

Ma nessuno andò a lamentarsi con la terribile coppia, nemmeno quando il piccolo Atal, figlio del locandiere, giurò di aver visto tutti i gatti Ulthar riunirsi, al crepuscolo, nel sinistro cortile sotto le querce, e cominciare a girare solennemente intorno alla casa, due per volta e a passo lento …

Così Ulthar andò a dormire, ma quando all’alba di svegliò.. miracolo, i gatti erano tornati al loro posto! Grandi e piccoli, grigi e a strisce, gialli e bianchi, non mancava nessuno.

Avevano un aspetto magnifico e sembravano ingrassati: facevano le fusa ed erano soddisfattissimi.

Per due giorni interi i grossi e pigri felini non toccarono cibo, ma si limitarono a dormire al sole o accanto al fuoco.

Passò circa una settimana prima che gli abitanti del borgo notassero che dalla capanna sotto le querce non filtrava più luce, poi il magro Nith osservò che nessuno aveva visto i due vecchi da quando i gatti erano scomparsi. Nel giro di una settimana il borgomastro decise di far visita alla capanna..

…dopo aver abbattuto la porticina non trovarono altro che due scheletri perfettamente ripuliti accanto al camino, e per terra un gran numero di grossi scarafaggi.

Da “I Gatti di Ulthar

Pubblicato in PAUSANIA - invito al viaggio, Sirene | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Oh Fortuna! – Ritorno al futuro

Oh Fortuna
velut luna
statu variabilis
semper crescis
aut decrescis

E’ una luna raggiante quella che mi accompagna nel rientro al Granducato. Mi segue mentre attraverso la sera fredda nel “regionale veloce”, una sorta di cammello di ferro: grande resistenza ai lunghi percorsi.
Ho fatto in modo che la giornata non finisse troppo presto, una volta atterrata a Roma ho fatto una deviazione di amicizia e così è già buio quando arrivo a Florentia.
Il motivo che mi ha spinto a cominciare questo viaggio è stato il bisogno di un abbraccio e devo dire che ne ho trovati tanti. Ma tra le molte immagini che mi rimarranno dentro ce n’è una che ancora mi fa emozionare al solo pensarla, eccola…

Il sabato dal Cormorano si danno il cambio piccoli gruppi di musicisti locali, che con una chitarra e un bouzuki rievocano atmosfere cupe di Rebetiko, oppure danze illuminate dal sole delle Cicladi, o ancora i canti dei glenti cretesi, le feste in cui si spaccano i piattini tra i piedi di chi balla e si gettano petali di fiori ai danzatori.
Mentre descrivo entusiasta la “mia” Grecia e soprattutto la mia Creta al terzetto novarese incontrato per caso, comincio a parlare appassionatamente di una canzone molto particolare.
Si tratta di una canzone tradizionale, originaria di Costantinoupoli e datata al ‘400: è quel che si chiama un paraklausìthyron, vale a dire un canto che l’innamorato (o l’innamorata) innalza dinanzi alla porta chiusa dell’amata (o amato). Le radici di questo vero e proprio topos letterario si possono rintracciare nella poesia ellenistica (!), perciò posso dire che mi ha affascinato fin dal primo ascolto, ma a questo si è aggiunta una caratteristica particolare: ogni volta che l’ho sentito intonare, ho visto gente commuoversi e unirsi subito al coro (difficile, tra l’altro, per le note piuttosto alte)….insomma, un vero e proprio inno nazionale, intriso di nostalgia e malinconia e di struggente dolcezza.
Nel parlare di tutto ciò, mi viene l’idea di chiedere ai tre bouzukisti di intonarlo per noi…. ottengo un’occhiata abbastanza ambigua: non capisco se apprezzano la scelta raffinata…o se mi vogliono strangolare, data la difficoltà del brano! In ogni caso mi dicono “vediamo quel che possiamo fare” e riprendono i rebetika.
E’ solo dopo una decina di minuti, quando ormai avevo abbandonato ogni speranza, che comincio a riconoscere i primi accordi.
Quando comincia la canzone, l’intera taverna si unisce ai musicisti… è un momento davvero magico…

S’agapò giat’eisai oraia
Ti amo perché sei bella
Ti amo perché sei tu
E amo tutto il mondo
Perché tu ne fai parte
Quella finestra chiusa
Aprila metà
Così che possa vedere il tuo volto
Ti amo perché sei bella
Ti amo perché sei tu…

Un’emozione da poco, avrebbe cantato qualcuno, ma un’emozione vera, dai brividi che scaldano il cuore. Questo viaggio cretese mi ha davvero accolto a braccia aperte e mi ha regalato istanti e istantanee preziosi.

vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem,
potestatem
dissolvit ut glaciem.

La musica ha accompagnato un po’ tutto il mio ritorno, fino al simpatico bar (definito “cosy”) in cui mi sono rifugiata per chiacchierare con un nuovo/vecchio amico; dagli schermi agganciati fin sul soffitto ammiccavano i video anni ’80-’90 che hanno segnato la mia adolescenza.
E il bar.. beh.. il bar si chiama Megara (segui il link…)

Partire o tornare

Herakles era un po’ stanco.
Si accomodò sulla pelle di leone, che ancora una volta si rivelava un giaciglio perfetto, e chiuse gli occhi.
Rimpiangeva il sole di Creta e l’aria salmastra che lo aveva avvolto mentre si muoveva alla ricerca del toro screanzato.
Euristeo lo aveva poi inviato da quello psicopatico di Diomede (per un attimo si era chiesto se l’impresa consistesse nel domare le cavalle sanguinarie, o piuttosto eliminare il loro folle padrone). Dopo Diomede era stata la volta di Ippolita, l’Amazzone … no, scacciò subito quel ricordo, ora non voleva pensarci.
Infine eccolo di ritorno da un viaggio nell’oscuro Occidente. Sospirò e si rigirò per cercare la posizione su quella pelle ruvida. Il pensiero di quel…di quel mostro… non se lo era aspettato così. Si era ormai abituato alle bestie, a creature enormi oppure mefitiche, o anche pericolose perché rese folli da invisibili tafani mandati dagli dèi. Sapeva come trattarle, in fondo si trattava di esseri più simili a lui, si poteva dire che fossero suoi pari e quando li affrontava era difficile distinguere quale dei due fosse la bestia, anche perché la pelle del leone avvolgeva entrambi i contendenti e nascondeva le fattezze dell’umano.
Ma quando si trattava di affrontare degli uomini (o, peggio ancora, delle donne!) Herakles cominciava a vacillare, non era sicuro di quale arma usare, di come avvicinarsi, di quali colpi aspettarsi. Gerione, poi, era addirittura tre opliti in uno!
Sussultò nel sonno al pensiero del povero servo, Eurizione, corso in aiuto dell’orrido cane a due teste. In fondo lo aveva abbattuto facilmente, con una sola freccia. Tuttavia gli era dispiaciuto: aveva riconosciuto in lui i tratti del servo sciocco, di un essere semplice, che si limitava a obbedire senza pensare. Dunque un vero ingenuo, un puro.
Eppure, proprio quella morte innocente gli aveva dato la forza di affrontare Gerione: il padrone tricorpore, la creatura più mostruosa che gli fosse mai capitato di vedere in questa sua vita così piena di stranezze …

E ora si trovava addormentato in una regione boscosa di quella che chiamavano Esperia, la terra d’Occidente. Poco distante aveva lasciato pascolare la mandria prelevata a Gerione, mentre lui si concedeva un veloce riposo.

Atena aiuta Herakles contro Gerione. Sulla sinistra la mandria del mostro.

Quando si svegliò capì di aver fatto un errore a cedere al sonno, perché – per Zeus! – i buoi sembravano molti di meno! Sapeva che era inutile provare a contarli, in fondo non aveva fatto un elenco preciso quando li aveva rubati a Gerione. Eppure…c’era poco da fare, erano stati decisamente decimati!
Cominciò a pensare se questo era davvero un problema, in fondo significava aver meno animali da riportare a Euristeo. Tuttavia gli scocciava il fatto di essersi lasciato fregare durante il sonno, e comunque doveva cominciare a muoversi, perciò legò insieme quelli che erano rimasti e si avviò fuori dal bosco.
Mentre guardava il sentiero gli sembrò di scorgere delle impronte di zoccoli. La cosa strana era che sembravano venire verso di lui… mah.. si stropicciò gli occhi, poco convinto di quel che vedeva. La vegetazione intorno era sempre più fitta, ma ad un certo punto passò davanti ad una grotta.
Non ci avrebbe fatto nemmeno caso, se non fosse stato per uno strano muggito che sembrava arrivare proprio dall’oscurità di quell’antro; subito, uno dei buoi che stava guidando rispose al muggito. In men che non si dica anche gli altri animali si unirono in un coro spaventoso… anche perché ai versi delle bestie sul sentiero, rispondevano muggiti scuri che sembravano far crollare la volta della grotta.
Herakles decise di entrare, non prima di aver notato che quelle impronte “all’indietro” partivano proprio dalla grotta.. Dentro, infatti, trovò il resto della sua mandria e così decise di organizzare una sonora punizione a chiunque avesse osato giocargli quel tiro.
Dopo essersi assicurato che gli animali fossero tutti insieme al sicuro, si appostò all’interno della caverna e aspettò il ritorno del “condannato”.
Quando avvistò Caco sorrise sornione: finalmente un uomo che era simile ad una bestia! Sarebbe stato facile affrontarlo e, naturalmente, abbatterlo!
Il gigante si rivelò anche più stupido del previsto, per un istante Herakles si bloccò, indeciso se provare compassione nei confronti di un essere chiaramente tardo e sgraziato. Ma Caco cominciò a deriderlo e a ricordare come era stato facile sottrargli le bestie mentre dormiva beato… e quest’ultimo spregio segnò chiaramente il suo destino.

Herakles fu contento di allontanarsi da quei luoghi, in fondo non gli era mai piaciuta la montagna, men che meno la collina, figuriamoci poi la foresta!
No! Lui era … un uomo di mare …

qui la “vera” storia di Eracle e Caco

Pubblicato in PAUSANIA - invito al viaggio, Sirene | Contrassegnato , , , , , , , , , | Lascia un commento