Farsalia – II episodio

Cinque puntate per un racconto molto breve. Un esperimento, in realtà, ambientato in un anno importante per la Repubblica romana, per l’Impero romano e per la colonia di Florentia.
Siamo nel 27 a.C. e il veterano Settimio si trova a fare i conti con la propria vita, con le proprie disillusioni e con i sogni di gloria del figlio.
Qualcuno potrebbe vedervi un riferimento alla situazione politica italiana attuale, e magari vedere nell’Ottaviano che diviene Augusto un pallido ritratto del “non-giovane” che ci fa da Presidente del Consiglio.
Beh, quel qualcuno non sbaglierebbe…

Qui la prima puntata

Farsàlia

groma-800x445Nelle giornate limpide, come quella, si riusciva persino a distinguere il tracciato delle strade principali che conducevano in città e il continuo viavai di carri con le merci, le derrate alimentari, e il materiale da costruzione: la guarnigione era ancora impegnata nei lavori di centuriazione e quasi ogni mese si veniva a sapere di un qualche nuovo monumento aggiunto intorno al foro, o di pozzi scavati e strade tracciate.

La colonia cresceva e così il suo territorio, gli schiavi di casa erano estremamente eccitati dalle novità, dato che quasi tutti provenivano da centri cittadini importanti; Settimio non ne era particolarmente entusiasta, ma si rendeva conto che per i figli, anzi, per Settimia, sarebbe stato decisamente meglio vivere a contatto con la civiltà.colonia_romana2
Fu un attimo, un odore più acre, forse una vibrazione del terreno, e Settimio si ritrovò a guardare verso Sud e a vedere un cavallo che galoppava verso di loro. Il suo cavaliere lo fece rallentare prima di arrivare sul pianoro e infine scese, conducendolo per le briglie fino al punto in cui il terzetto era ancora intento a studiare il terreno. «Lucio! Che bello rivederti!» Glauco fu il primo a salutare il giovane padrone, mentre Settimio e Roscio, avvezzi a tenere ben nascosti i propri sentimenti, avevano gli occhi fissi sulla gamba ferita, che sembrava in ottime condizioni. «Ben trovato Glauco! Padre, cosa fate qua così appartati? Roscio, ho saputo della tua scrofa, mi dispiace…». La semplicità di Lucio era sicuramente una sua dote, forse un po’ difficile da apprezzare sempre.

«Lucio, mi sembra tu sia completamente guarito, se ci avessi avvertiti del tuo ritorno avremmo fatto preparare qualcosa… quanto rimarrai?» «Non ti preoccupare padre, c’è tempo! Ho avuto un congedo piuttosto lungo.. beh.. tutti abbiamo avuto un congedo, di una settimana!».
«E cosa è successo, il vostro capo ha deciso di far combattere le donne, finalmente?». Roscio aveva incassato il riferimento alla scrofa ed era pronto per le sue iniezioni di sarcasmo. «No! Roscio, padre… Ottaviano è stato proclamato Augusto! Il senato gli ha rinnovato l’imperium e ormai non c’è niente che lo possa fermare!».
Lucio era raggiante, le guance arrossate per il freddo e gli occhi sorridenti, a Settimio per un attimo sembrò di rivedere Annia e le sue espressioni, quando qualcosa la sorprendeva e la divertiva. Glauco e Roscio cominciarono a fare domande per capire meglio la portata della notizia e perché Lucio ne fosse così entusiasta.

Settimio si ammutolì. Mentre i tre scambiavano pareri e aggiungevano commenti ora positivi, ora più cupi, a volte ironici – Roscio – il Filosofo si stava perdendo nei suoi pensieri.
L’entusiasmo di suo figlio gli aveva fatto tornare in mente il giorno della vittoria a Farsàlo: a quel tempo era un giovane soldato dai riflessi pronti e dallo sguardo sicuro, il suo spirito d’iniziativa aveva salvato diversi commilitoni durante gli scontri e per questo il suo centurione aveva pensato di presentarlo a Cesare, per una pubblica lode.

giulio_cesare_1La vista del condottiero lo aveva emozionato. Alla continua, seppur inconsapevole, ricerca di una figura di riferimento, un qualche surrogato di quel padre che non vedeva mai e dal quale non riusciva a trarre un solo gesto di approvazione – se non affetto, Settimio era particolarmente sensibile verso i suoi superiori. Non cercava solo una ricompensa, lui aveva bisogno della loro stima, ed era pronto a darne di rimando, a difenderli anche con la vita, se necessario. Cesare gli era apparso un uomo minuto nella tenda dell’accampamento, seduto e rilassato, circondato dai più fedeli e intento al pasto frugale per riprendere le forze. «Ecco, Cesare, questo è Severo, di cui ti ho parlato. Ha salvato almeno dieci compagni da morte certa e si è battuto con valore» «Severo, da dove vieni? Qual è la tua famiglia?». Settimio, a cui quel soprannome non era mai piaciuto davvero, si era accorto che, pronunciato da Cesare, assumeva un significato diverso, più serio e credibile. Aveva risposto con precisione e, sollecitato dalla domanda successiva, aveva spiegato di essere sposato con la figlia di Aulo Ofilio e di essere padre di un bambino di due anni. Un sorriso indecifrabile era comparso sul volto di Cesare, seguito da parole di circostanza che lodavano il bravo padre di famiglia e si complimentavano con la scelta della sposa. Settimio non aveva colto in pieno il significato di quelle parole, nemmeno quando, usciti dalla tenda, il suo centurione gli aveva detto che era stata una bella mossa quella di fare riferimento alla figlia di uno dei più cari amici di Cesare. Nessuna mossa, pensava Settimio, era la pura verità.
La vita del soldato Severo era cambiata leggermente, dopo quell’incontro: i servizi più faticosi erano magicamente scomparsi dalla sua routine, e un paio di volte era stato chiamato a unirsi al tavolo dei centurioni durante il pasto serale.

Il flusso dei ricordi fu interrotto dalla voce di Lucio: «Allora, padre, cosa dici? Invitiamo i tuoi amici a cena stasera?».
Settimio annuì con un mezzo sorriso: «Glauco, puoi pensare tu ad avvertirli?»
«Certo Settimio, lascia fare a me».
A Glauco in fondo piaceva avere tutta quella responsabilità; si lamentava spesso con gli altri schiavi, ma era convinto che il duro lavoro lo avrebbe ricompensato al momento opportuno. La condizione di liberto era arrivata fin troppo tardi, secondo i suoi calcoli, ma ora che c’era era il caso di sfruttarla in tutto e per tutto.man_pilos_louvre_mne1330

Rientrarono in casa, non senza aver stabilito con Roscio dove piantare gli alberi esotici. Glauco si mise subito all’opera per scrivere gli inviti, così che giungessero il prima possibile a Cieco e Facundo. In fondo, tutti sapevano che in quell’angolo di mondo gli impegni non erano poi così numerosi e anche senza preavviso i due ex commilitoni si sarebbero presentati in tempo alla cena. Ma si trattava di “seguire l’etichetta”, di fare le cose come si conveniva: Settimio non se ne era mai occupato veramente, aveva lasciato Annia dietro a queste sciocchezze. Annia e Glauco ridevano spesso dell’atteggiamento così distaccato del loro signore, come se il mondo girasse indipendentemente dalle sue scelte, eppure non era così, il mondo chiedeva la partecipazione di Settimio, che lui lo volesse oppure no.

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Farsalia – I episodio

paul_bril_-_landscape_with_roman_ruins_-_wga03189Cinque puntate per un racconto molto breve. Un esperimento, in realtà, ambientato in un anno importante per la Repubblica romana, per l’Impero romano e per la colonia di Florentia.
Siamo nel 27 a.C. e il veterano Settimio si trova a fare i conti con la propria vita, con le proprie disillusioni e con i sogni di gloria del figlio.
Qualcuno potrebbe vedervi un riferimento alla situazione politica italiana attuale, e magari vedere nell’Ottaviano che diviene Augusto un pallido ritratto del “non-giovane” che ci fa da Presidente del Consiglio.
Beh, quel qualcuno non sbaglierebbe…

Buona lettura!

Farsàlia

Stava cominciando ad abituarsi a quel silenzio.
La nebbiolina fitta, l’umidità che impregnava l’aria. E la brina: una coperta leggera, ghiacciata, brillante di cristalli piccolissimi. Caio Settimio aveva preso l’abitudine di aspettare il momento della colazione seduto sul tronco tagliato della vecchia quercia. Da lì contemplava una parte della valle sottostante e aspettava, in religioso silenzio, la comparsa del sole. Ultimamente si era scoperto più riflessivo, la barba non la tagliava più, da quando era morta Annia, e alcuni dei suoi amici più cari avevano cominciato a scherzare chiamandolo il Filosofo, soprattutto se lo vedevano passeggiare distratto con i suoi cani. Lo scherzo era diventato per lui quasi una nota di vanto e ora anche la servitù cominciava a riferirsi al padrone come al Filosofo, sebbene non in sua presenza.

Mosaic Panel with Seated Dog, Byzantine, Syria, 5th/6th century, Art Institute of Chicago, Anonymous loan, 1.2012. Photo by Lucas Livingston, 20 November 2012.

Mosaic Panel with Seated Dog, Byzantine, Syria, 5th/6th century, Art Institute of Chicago, Anonymous loan, 1.2012. Photo by Lucas Livingston, 20 November 2012.

Accanto a Settimio comparvero Tessalo e Taco. Il primo si accoccolò tra le radici del tronco, mentre l’altro, il figlio ancora cucciolo, cominciò a latrare in risposta a ululati lontani, che provenivano da punti imprecisati tra i cipressi della valle.
La giornata si annunciava fredda e tersa e Settimio cominciò a ripassare nella sua mente gli impegni: quelli improrogabili, come amava ripetere il prezioso Glauco, agitando nell’aria l’elenco che aggiornava puntigliosamente tre volte al giorno, e poi gli impegni imprevisti. Questi erano i preferiti da Settimio, perché gli permettevano di tornare completamente padrone della situazione, evitando di farsi imbeccare da Glauco o dagli altri consiglieri che, numerosi, lo circondavano senza essere stati interpellati.
Gli imprevisti richiedevano spirito di iniziativa, senso pratico, velocità di esecuzione. Gli tornavano in mente gli insegnamenti di Sceva e la capacità del centurione di far fronte anche alle situazioni più disperate nei boschi durante la campagna militare in Britannia. Il volto di Settimio subiva allora una sorta di trasfigurazione: linee marcate, quasi severe, l’iride più limpida che mai. Tessalo sembrava avvertire prima degli altri il cambiamento in atto e compariva a orecchie dritte accanto al padrone.

Uno degli ultimi imprevisti aveva finito per coinvolgere anche un paio di amici vicini. Una notte era andata a fuoco la stalla a nord-est e l’evacuazione degli animali, la catena umana per spegnere l’incendio, nonché una buona dose di energie spese a calmare gli schiavi urlanti, erano state coordinate dal Filosofo con l’aiuto di Lucio Memmio Cieco e di Caio Ateio Facundo, due ex commilitoni.
In casa se ne era parlato per giorni e i più entusiasti erano stati naturalmente i figli del Filosofo. Settimia era la più vispa e ciarliera, instancabile nel rievocare i momenti concitati in cui la nutrice era venuta a svegliarla in preda al panico. La povera donna, già scampata a un terribile incendio sulla nave che l’aveva portata in Italia, era terrorizzata dal fuoco e temeva ormai il peggio per tutta la famiglia, perciò aveva pensato subito di portare in salvo la sua prediletta. In effetti la stalla era piuttosto lontana dalla casa padronale, ma il forte vento e l’ora notturna avevano risvegliato gli antichi timori.
Marco, maggiore di cinque anni rispetto a Settimia, era più riflessivo e aveva cercato subito di applicare gli insegnamenti del nonno Aulo Ofilio, suocero di Settimio, al quale era molto legato. Fin dalla morte tragica di Annia e dopo aver constatato le difficoltà di Settimio nel riprendersi e nel gestire i ragazzi, il vecchio Aulo aveva voluto affrontare il dolore buttandosi anima e corpo nell’impresa di educare il nipote prediletto. Lucio, il primogenito, non era presente la notte dell’incendio, ma i fratelli avevano voluto scrivergli una lunga lettera per informarlo di tutti i dettagli.

Settimio si alzò lentamente e Tessalo gli fu subito dietro, scodinzolante. Taco era ormai perso dietro lepri o chissà in quali avventure. “Speriamo non incontri di nuovo un istrice” si scoprì a borbottare a mezza voce il Filosofo.
Non aveva ancora finito la colazione che già Glauco saltellava impaziente per portarlo dal fattore: il giorno precedente erano finalmente arrivati gli arbusti promessi da Facundo e quella mattina bisognava capire come e dove piantarli.
Settimio era contento quando poteva parlare con Roscio, perché era un uomo che rispettava e che considerava quasi un amico. L’amicizia era stata sempre un grande problema per il Filosofo.

Da ragazzo aveva dovuto fare i conti con una sensazione di reclusione: era figlio unico, quindi senza fratelli a cui badare, ed era orfano di madre, perciò era coccolato dalle donne della famiglia, le quali, in un moto iperprotettivo, preferivano tenerlo nelle loro stanze piuttosto che lasciarlo andare libero a giocare con i ragazzi del paese. Il padre era spesso lontano e non si rendeva conto delle difficoltà di relazione di quel figlio che gli ricordava inevitabilmente la sorte tragica della moglie, morta nel darlo alla luce. Le cose erano migliorate durante gli anni di addestramento militare, dove la sua aria riflessiva gli aveva guadagnato il nome di Severo. Forse l’unica vera amica che avesse mai avuto era stata Annia, la sua Annia. Solo con lei era riuscito ad abbandonarsi ai sogni e grazie a lei aveva superato gli incubi che lo inquietavano di notte, tutte le notti da quando era tornato dalla Tessaglia: con una gamba rovinata e un cane magrissimo. “Hai trovato il tuo Argo?” gli aveva chiesto, dolce, Annia. In effetti i due sembravano condividere destini simili, e insieme si erano ripresi, lentamente.
Con Roscio, Settimio si fermava a chiacchierare fino a dopo il tramonto e spesso il burbero fattore gli offriva di condividere il pasto serale nella stanza modesta in cui viveva, non lontano dalle stalle. La sera dell’incendio se l’era vista brutta, il vecchio Roscio, ma era stato anche il primo a dare l’allarme e a cercare di spegnere le fiamme.

peach«Come hai detto che le chiamano?», chiese Settimio, «Prugne armene, il tuo amico deve averle pagate oro, a Roma ormai non si trovano più se non al mercato nero». Settimio aveva preso un’aria da vero filosofo e sembrava in grado di valutare la bontà dei frutti già solo toccando e soppesando l’arbusto; era una sorta di tecnica che aveva appreso dallo stesso Roscio anni addietro, quando si era reinventato proprietario terriero alle porte della nuova colonia in Etruria. A quel tempo era un ex soldato, già ex cittadino, insomma, quanto di più lontano da un contadino, e i primi tempi era stato imbrogliato da più di un commerciante. Per fortuna Roscio, scuotendo i corti riccioli vermigli, aveva provato pena per il veterano idiota (come in cuor suo lo aveva soprannominato) e così aveva deciso di aiutarlo e di proporsi come fattore. In realtà quella terra era appartenuta al padre di Roscio, ma i debiti di gioco gliel’avevano fatta perdere, finché non si era presentata l’occasione della nuova colonia e della distribuzione dei fundus ai veterani di Cesare.
«E questi, invece, cosa sono?», Settimio era passato ora al gruppetto più numeroso di piante in attesa di sistemazione: «Mah, questi mi convincono poco, pare che arrivino addirittura dai Parti, non mi è capitato di vederne tanti, eppure sembra che i tuoi amici ricchi ne vadano pazzi. Le chiamano persiche». Al riferimento agli amici ricchi Settimio aveva alzato lo sguardo e si era fatto serio; Roscio sapeva come irritarlo e forse non gli era ancora passata la stizza per quell’incidente della settimana precedente.
Settimio aveva dovuto ospitare un vecchio centurione, che nel frattempo aveva fatto carriera in senato, Manlio Atilio Torquens. Non gli era mai piaciuto, ma si trovava in viaggio verso Roma, di ritorno dai suoi possedimenti in Gallia, e così per spirito cameratesco non aveva potuto rifiutargli un pasto caldo e un riparo per la notte. In effetti, più che lo spirito era stato il riferimento a Lucio a convincere Settimio a recitare la parte del bravo ospite. Atilio aveva lasciato intendere di potersi informare sulla salute del ragazzo, ferito in battaglia e costretto a letto ormai da più di un mese. Lucio sembrava aver preso i due tratti caratteristici dei genitori: minimizzava qualunque problema, come faceva la madre, ed era estremamente parco di parole, come il padre. Perciò le sue lettere assomigliavano ad asciutti dispacci militari.

Tuttavia il prezzo da pagare per tenersi buono il senatore era stato alto: innanzitutto Atilio era rimasto ben più di una notte, in pratica quasi dieci giorni, e poi si era fissato di volere a tutti i costi assaggiare la vecchia scrofa di Roscio, una specie di animale da compagnia per lui (Settimia lo prendeva in giro e aveva annunciato di voler organizzare il matrimonio fra il fattore e il grosso suino). Secondo Atilio si poteva cucinare seguendo una delle ricette che aveva gustato in Gallia, aggiungendo erbe che ne avrebbero esaltato il sapore. Alla fine Settimio non aveva potuto fare altro che accontentarlo, ma Roscio aveva deciso di fargliela pagare a poco a poco.

Decisero infine di incamminarsi nel campo per capire dove fosse meglio piantare gli arbusti e Glauco seguiva impaziente il loro lento passo, già pensando all’impegno di metà mattina, il secondo nella sua lista. Raggiunsero un pianoro da cui si riusciva a vedere la lunga striscia argentata del fiume lungo le cui rive si era deciso di fondare Florentia.romana

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Perle di turchese

raindrops-1Dalla volta pendono
perle, perle di turchese: –
sono le lacrime del cielo,
cadute, ghiacciate dal freddo.

varujeanVersi di un poeta armeno, Daniel Varujan, uno dei primi a cadere nell’aprile del 1915.
Antonia Arslan mi ha consigliato di leggere le sue poesie, per cercare un po’ di sollievo, senza sapere che proprio quel nome mi risvegliava il dolore per cui stavo piangendo, il dolore per la morte di una persona dallo stesso nome del poeta.

Di seguito, sparsi, ricordi, istantanee ed emozioni di una giornata particolare, a Padova “Sulle tracce degli Armeni”, in compagnia di Nadia Pasqual.

ioeantoniaHo pubblicato una foto che mi è stata scattata con lei.
Ci ho pensato dopo, a quel che significava per gli altri, intendo.
Molti hanno sottolineato la fortuna, il privilegio di essere a diretto contatto con una persona celebre e importante.
Ma io non ci vedo questo, ovviamente.
Nel momento ritratto dalla foto ci sono due anime a contatto.
Mi è stato detto che gli occhi di un armeno sono tristi. Beh, in quel momento io avevo occhi armeni.
Forse proprio questo mi ha permesso di entrare in contatto, così diretto, così intimo, con Antonia Arslan.

Quella donna ha carisma, come ha detto giustamente la mia amica Nadia. Oh, a proposito, nadiaNadia stessa entra in contatto con l’anima delle persone, quando parla di Armenia. Forse perché, dopo aver scritto una guida, aver lavorato con il governo della Repubblica di Armenia, aver conosciuto molti esponenti delle comunità armene sparse per l’italia, ha scoperto di avere anche lei sangue armeno.
Chissà, in ogni caso è vero, Antonia ha carisma.

antoniaarslanQuesta piccola signora, dal sorriso che abbraccia, ma dallo sguardo a tratti severo, è in grado di tessere racconti che ti avvolgono. E una volta che sei avviluppato entro trame seriche e damascate, ecco che giunge quella parola, quel singolo elemento, un colpo di scena magari, che ti colpisce e ti blocca.
A contemplare un angolo di cuore che non sapevi di avere, scoperto come un nervo fragile.

Così, mentre la ascoltavo parlare, non mi sentivo particolarmente commossa… fino a quando non è giunto il racconto del bambino arrabbiato con il ricordo della madre che, per salvarlo, lo aveva abbandonato; oppure il racconto della signorina che insegnava francese, e che è morta attendendo invano il nipote, come una pietosa sorella Materassi, ma più delicata e meno patetica.
Oppure quando è giunto il racconto del nonno di Antonia: un signore che cura la nipotina novenne, e la porta con sé in un albergo per trascorrere un mese di convalescenza.
Lì, nei lunghi pomeriggi, si siede con lei sotto ad un glicine, a raccontarle la storia della sua vita.
La grande, tragica e gloriosa storia della sua vita, raccontata alla nipotina ma negata al resto della famiglia.

Il racconto fa parte dell’animo armeno. Il sussurri“Libro dei Sussurri” esemplifica alla perfezione questa vocazione quasi genetica.
Ma sono poi gli episodi, gli incontri con le persone armene più comuni, non scrittori, non narratori di professione, a rendere ancora più evidente tale vocazione.

Come le due signore, e il marito di una di queste, che hanno padova-armenidischiuso il loro personale scrigno di ricordi, di fronte a una platea rapita e silenziosa.

E così, dopo aver ascoltato Antonia, aspettando di stringere la mano di questa incantatrice, l’emozione si è trasformata in fiume incontenibile, travolgente come l’Araxes, un fiume che trasportava le memorie liquide di chi non c’è più.

e come al Poeta anche a Dio,
per creare, fu necessario piangere.

Daniel Varujan, Il pianto di Dio

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La rinascita dell’antico paganesimo

L’iconografia greca, di tutta l’arte cristiana, raffigurante le forme esteriori di esseri sacri, a me sembra essersi imposta il compito più alto e più arduo. (…)
Nell’impresa, condannata in partenza al fallimento, di indicare in termini visibili il mistero insondabile della Divinità, i pittori greci di icone hanno scelto la strada più difficile. Hanno cercato di accedere allo spirito non per le facili vie della passione, ma tramite l’intelletto.
(…) Una nebbia improvvisa, splendente, di impossibili congetture, aleggia spesso davanti agli occhi sia dei greci sia degli stranieri che in questi mari e isole e montagne non cercano soltanto lo scheletro bello e disperso del mondo antico.
Essa lascia tuttavia un deposito di speranza, la convinzione (…) che quando infine gli ostacoli contingenti scompariranno e le ossessioni tribali greche, risolte le loro cause, perderanno la loro urgenza e sgombreranno il posto dominante che la storia le ha costrette a usurpare nel pensiero greco; quando il dogmatismo imperante più a Est (avversato da quasi tutti i politici e da tutta la Chiesa) avrà perduto il suo intermittente fulgore, e il materialismo dell’Occidente avrà perduto il suo luccichio ingannevole e sarà sbiadito e ridimensionato; quando – stavo per dire quando si realizzerà l’armonia politica, ma forse questo non è possibile più che lo fosse nella Grecia antica e a Bisanzio; quando tutto questo avverrà, io penso che l’irrequieto, non imbrigliabile ma indistruttibile genio greco, finalmente libero, produrrà qualcosa che di nuovo stupirà e arricchirà il mondo al di là della nostra immaginazione.


fermorPatrick Leigh Fermor
scriveva queste parole negli anni ’50. Era profondamente imbevuto di cultura e spirito greco, e scriveva con la sincerità dell’appassionato, quasi del devoto.

Io oggi pomeriggio mi sono persa. Ho guardato dritto in fondo a un paesaggio che solo la Grecia riesce ad offrirmi.

IMG_8671E in fondo a quel paesaggio mi sono persa.
Ho aspettato, fiduciosa, di vedere spuntare una coda di pesce, una Gorgòna. Perché è questo, secondo me, che sta per accadere. Rispetto alla profezia di Fermor, possiamo dire che gli stravolgimenti politici cui stava assistendo si sono, in qualche modo, assestati. Possiamo dire che la società greca, nonostante gli alti e i profondi bassi degli ultimi anni, si comporta esattamente come tutte le altre. Nello stesso sperduto paese di Areopoli non c’è angolo senza un wifi, senza una connessione con il resto del mondo… eppure nessuno affitta auto e scendere nel Mani è ancora una katàbasi dal sapore avventuroso.

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Insomma, la Grecia si è messa in pari, rispetto agli anni di Fermor. Ma allora dov’è questo genio, che lo scrittore inglese intravedeva? Il mio genio è la coda di Gorgòna che, prima o poi, spunterà dall’acqua, là dove il raggio del sole morente colpisce la superficie immobile.
Gli unici, davvero vittoriosi, sono gli antichi déi, che soprattutto da queste parti sembrano spuntare, più vividi e attivi che mai, ad ogni angolo. La nostra società (non solo quella greca) sta abbandonando a poco a poco la strada della civiltà, e sta tornando a un mondo fatto di creature ibride, sempre meno umane e più ferine. Noi ci stiamo riducendo ad animali, incapaci di pensare. Proprio nelle ultime ore torna prepotente il termine “sciacallo“, non solo per indicare chi ruba nelle case disastrate, ma anche chi specula sul dolore altrui.
Animali, ecco cosa torniamo a essere.

IMG_8677Allora io me li aspetto, al varco, gli altri animali, le creature che abbiamo ricacciato nel folto di boschi scuri, nel buio di caverne sperdute: tornano, quelle creature, trionfanti. Ora finalmente possono far valere in pieno la loro natura ferina, perché non malvagia, ma semplicemente naturale.

 

 

La Gorgòna è una sirena speciale. Si dice Immagine1sia la sorella di Alessandro Magno. Ogni marinaio teme di incontrarla, eppure ne è attratto e, quindi, preparato. Quando si incontra la Gorgòna ella domanda “Che fine ha fatto Alessandro?” e la risposta da dare, se non si vuole impazzire e sparire tra le onde, è “Il re Alessandro vive e regna!“.Immagine2

 

 

 

 

 

Io so cosa rispondere.
Continuerò a osservare il mare, in attesa della mia Gorgòna.IMG_8682IMG_8681IMG_8678

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