Punti di vista

Paolo Veronese, Crocifissione, 1582 circa (oggi al Louvre)

La prima volta che sono entrata al Louvre è stato, mi sembra, nel 2011. Accompagnavo un gruppo di ragazzini statunitensi e li lasciai nelle capaci mani della guida e degli altri miei colleghi, mentre io mi perdevo nei meandri del piano terra, tra i miei amati antichi. Decisi, tuttavia, che dovevo pagare il pegno di una capatina davanti alla Monnalisa e quindi mi intrufolai e raggiunsi la sala 711 al primo piano.

Mentre sorridevo nel vedere l’accalcarsi di gente davanti al piccolo quadro, schermato dal vetro, restai affascinata dalle “Nozze di Cana”, di Paolo Veronese, che campeggia sulla parete opposta, quasi 10 metri di lunghezza; il quadro che una signora indiana stava descrivendo alla figlia come “L’ultima cena”, per cui io mi sentii in dovere di correggerla…

Ma prima di lasciare la sala restai colpita da un quadro sulla parete destra (guardando la Gioconda), un altro lavoro di Veronese, una crocifissione. Quello che mi colpì fu la composizione della scena: non le tre croci frontali, con la Maddalena, Giovanni e Maria addolorati ai piedi di quella centrale, non angeli svolazzanti disperati, non legionari con spugne imbevute di aceto oppure sghignazzanti che si giocano ai dadi la tunica.

No, Veronese mette le croci di scorcio, sulla sinistra.

Questioni di prospettiva

Io non sono una storica dell’arte e così ho provato a cercare commenti ben più professionali che potessero spiegarmi la scelta del pittore. Ho trovato alcune schede del dipinto, che elencano gli altri casi in cui Veronese (ma prima di lui, per esempio, Tintoretto) decide di abbandonare la visione frontale delle croci. Ciò che desta ammirazione e suggerisce approfondimento è la composizione delle persone ai piedi delle croci: la figura di Maria svenuta riprende un preciso topos letterario e iconografico.

Si viene a creare una sorta di piramide tra il vertice della croce del Nazareno, identificata dal cartiglio con INRI, e la Madonna svenuta a terra (vedi a sinistra)

La stessa disposizione si può trovare in un altro dipinto, di maggiori dimensioni, dove addirittura le tre croci sono un dettaglio, il Golgota non è che un evento che accade mentre la scena principale si svolge al centro del dipinto (vedi sotto)

Ma non sono riuscita a trovare un commento che esprimesse il mio stato d’animo, ciò che ho provato nel guardare il quadro la prima volta.

Peeping Stefi

Abituata alle crocifissioni frontali, figlie della tradizione da icona che ti propone già la chiave di lettura e ti chiede solo di credere, obbedire e rendere omaggio, la composizione di Veronese mi ha spiazzato.

Mi è sembrato di imbattermi nella scena quasi per caso, di entrare nello spazio della crocifissione da una strada laterale, come se mi fossi persa e, all’improvviso, mi trovassi dinanzi al momento più importante di una religione: il momento del tra-passo, del dio che muore e sperimenta in tutto e per tutto l’essere umano.

Il quadro di Paolo Veronese mi ha colpito nel profondo, proprio per quel suo chiederci di entrare nella scena in punta di piedi: una madre sta soffrendo in maniera indicibile, un uomo sta morendo, un dio si sta sacrificando, puoi non crederci, se non vuoi, ma tutto ciò sta accadendo “nonostante te”, “nonostante la tua fede”. Perciò abbi rispetto e avvicinati piano.

Nessuno ti guarda, nessuno si interessa a te, sei tu che devi farti carico della responsabilità del fedele e comprendere che, se ti farai più vicino, diventerai un martire, un testimone.

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Qui ad Atene noi facciamo così

Cosa è accaduto ai marmi del Partenone, perché sono oggi a Londra, perché sarebbe opportuno farli tornare ad Atene e cosa sta decidendo il British Museum.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: nel 1982 decidiamo di chiedere ufficialmente al governo inglese di rimpatriare i marmi che Thomas Bruce, il settimo Conte di Elgin sottrasse all’Acropoli tra il 1801 e il 1808. Lord Elgin era ambasciatore inglese presso Costantinopoli e chiese dapprima il permesso di fare dei calchi di alcune delle statue dei frontoni e delle metope, ma alla fine riuscì a smantellare le statue ed allestire ben due navi. Il governo inglese acquisì questi marmi, sulla base del resoconto dell’ambasciatore, il quale assicurava che il Sultano gli aveva permesso di portare via dall’Acropoli ciò che voleva.

E scegliamo, come nostra portavoce, l’attrice simbolo di una Grecia moderna, protagonista sul grande schermo, volto che sembra una maschera tragica, ma dal sorriso contagioso. Melina Mercouri diviene ambasciatrice di un ideale, che sembra rivoluzionare non solo il mondo della cultura europea, ma, più in generale, il rapporto di forze tra colonizzatori e colonizzati.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: pensiamo che l’Acropoli sia un simbolo vivo, forse l’anima vera della città. Per questo arriviamo a minacciarne l’integrità, per combattere contro un regime fascista che sta uccidendo la libertà dei suoi cittadini. L’Acropoli è un luogo di storia e per la storia, è la tragedia di Egeo, il sacrificio di Aglauro, l’incendio dei Persiani, la fossa in cui seppellire le statue consacrate, la cannonata di Morosini, la dissacrazione ottomana, lo scempio inglese.

Quella rocca resiste ai millenni e affonda sempre di più le sue radici, raggiungendo il centro della terra o anche solo quella fonte di acqua salata che ricorda al mondo la gara tra Atena e Poseidone.

Veduta dall’alto del Museo dell’Acropoli, incastonato nel quartiere di Makrigianni. L’ultimo piano è in linea con il Partenone sull’Acropoli. (Foto: https://www.parthenonuk.com/the-case-for-the-return)

Qui, ad Atene, noi facciamo così: smantelliamo un museo storico, ma desueto, e ne costruiamo uno alle pendici dell’Acropoli. Lo facciamo in mezzo a centinaia di polemiche, distruggendo edifici neoclassici, calandolo nel mezzo di un quartiere tradizionale come un monolite spaziale, ma creando una realtà museale che il mondo ci invidia. Il museo aspetta i suoi marmi, mentre all’ultimo piano le pareti finestrate aprono un dialogo diretto tra la sala e il Partenone e i calchi dei frammenti inglesi rimarcano la ferita aperta, l’attesa struggente del rimpatrio.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: promuoviamo la nascita di decine di comitati, sparsi per il mondo, e sensibilizziamo rispetto a un problema che non è solo legale, non solo storico, non solo museologico, non solo artistico, non solo culturale, non solo emotivo, ma tutti questi aspetti insieme. Non parliamo di restituzione, perché non si tratta di restituire il mal-tolto, ma parliamo di riunificazione, perché ciò che è accaduto con l’azione di Lord Elgin è stato uno strappo, che va ricucito.

Riunificare, rendere meglio fruibile una realtà che ha senso solo nel suo contesto di origine, altrimenti è uno dei tanti trofei, una testa di leone/elefante/tigre/cervo che guarda con occhi spenti da una parete bianca: morte che evoca vita, gloria in potenza a beneficio di pochi, che si credono più vivi. Nel 2010 l’allora direttore del British Museum pubblicò un libro di grande successo: “La storia del mondo in 100 oggetti”. Si trattava di ribadire il concetto su cui era stata fondata l’idea stessa del British Museum (e non solo di questa istituzione, ovviamente): il potere dell’impero che colonizza e diffonde cultura e civiltà viene riassunto ed esaltato da oggetti raccolti in ogni dove, attraverso i quali è possibile riassumere la storia del mondo. Il visitatore del British Museum può osservare il mondo nelle sale del museo e tra i tanti pezzi si trova anche una metopa del Partenone.

n.27 dei 100 oggetti

Ma forse è proprio questo il problema, caro British Museum: tu puoi raccontarti e raccontare che la tua collezione simboleggia il cammino della civiltà nel mondo, ma quella metopa, da sola, non racconta niente altro che l’avidità di una rapina ben orchestrata. Quell’unico pezzo, staccato dai suoi naturali compagni, non è stato salvato dall’oblio, bensì ne è stata corrotta la memoria, mutilata nel suo svolgersi insieme agli altri elementi della trabeazione. Un racconto interrotto, ecco cosa hai ottenuto. Ebbene, è tempo che il racconto torni a compiersi, che le decisioni giuste vengano finalmente prese e non solo ipotizzate, che le vicende storiche diventino la cornice preziosa di una risoluzione auspicata da tempo e, a suo modo, innovativa.

Qui, ad Atene, noi facciamo così: accogliamo volentieri un piede da Palermo e alcuni frammenti da Roma, perché sono vestigia di un modo di allestire i musei che oggi più che mai offende studiosi, appassionati e semplici curiosi. Oggi sappiamo che qualunque frammento è degno di interesse e che il contesto è il migliore allestimento, in ogni mostra o percorso museale. Per questo il contesto ateniese richiama a sé anche i frammenti più piccoli.

Ecco come si presentava il frammento nelle sale del
Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”

L’Italia ha già sperimentato l’emozione di vedersi restituire oggetti finiti illecitamente in altri musei, adottando una soluzione fondata sullo “scambio”: l’oggetto sottratto viene restituito a legittimo proprietario, che in cambio presta qualcosa della propria collezione al museo straniero che aveva incautamente acquistato l’oggetto. Lo stesso viene proposto ora per mantenere amichevoli i rapporti tra Atene e Londra.

Elginism

Negli ultimi mesi sembra infatti che il dialogo tra Atene e Londra si sia intensificato e soprattutto si sia orientato verso proposte concrete. Il profilo Twitter @elginism aggiorna sugli ultimi sviluppi.

Qui ad Atene noi facciamo così

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni

ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,

la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la

nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero

…ma gli chiediamo rispetto

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La sostanza dei sogni – parte seconda

Cinema e archeologia

Cinema e archeologia, che accostamento affascinante! Tutto il mistero di un’occupazione che sembra essere stata creata solo per pochi adepti e che odora di muffa – spesso – ma anche di pietre e di spazi aperti, che sembra brandire – alternativamente – la frusta di Indiana Jones e il pennello di un anziano barbiere, unito alla “magia del cinema”.

La magia del buio e dell’ignoto – chissà com’è che sullo schermo compaiono le vite di persone così distanti da noi, eppure vicinissime – e la possibilità di lasciar andare a briglia sciolta la nostra fantasia, ché tanto, nel buio della sala suddetta, nessuno sa veramente cosa stiamo pensando, nessuno ci rivolge domande, ma ognuno di noi può perdersi nei meandri delle proprie associazioni mentali.

L’eclettico Lorenzo Daniele nella sua funzione di presentatore

Quando racconto che il secondo fine settimana di ottobre lo trascorro a un Festival del Cinema archeologico, i miei amici e conoscenti restano a bocca aperta. Eppure ormai ce ne sono tanti, in giro per la penisola, per non parlare di quel che accade in altre nazioni europee (e non), dove forse sanno distribuire meglio le produzioni cinematografiche di questo tipo. Ma torniamo a Licodia Eubea e al suo fascino, che si sprigiona allorché Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio arrivano con il loro gruppo di lavoro e allestiscono la macchina dei sogni per eccellenza, il cinematografo; prima in una badia ex chiesa e da quest’anno nel cosiddetto “teatro della legalità”, che offre un contesto più facilmente identificabile con la sala di un cinema.

L’edizione di quest’anno, la dodicesima, ha portato a Licodia molti registi e molte produzioni diverse, dopo una selezione fatta in base al tema portante: il superamento dei confini, sia fisici che ideologici, generazionali oppure sociali. Il risultato è stato, come sempre, un caleidoscopio di frammenti di storia e società e voglio provare a isolare qualche aspetto.

Lo stupore della morte

Alessandra Cilio consegna a Jérome Scemla il premio “Archeovisiva” assegnato da una giuria internazionale.

Quando dialogo con i miei studenti e presento loro gli aspetti più quotidiani del vivere antico, non posso fare a meno di partire dalle tombe: è il destino dell’archeologo, quello di interrogare principalmente i corredi funebri e di restituire la vita attraverso gli oggetti che circondano i morti. Perciò devo ammettere che, quando Jérome Scemla, regista di “Perou, sacrifices au Royaume de Chimor”, ha avvisato il pubblico di alcune scene di forte impatto emotivo nel suo film sulla scoperta di cimiteri di bambini sacrificati tra il Quattro- e Cinquecento in tre grandi aree dell’antico regno di Chimor, non pensavo che mi sarei impressionata più di tanto.

In effetti il momento più difficile, per me, è stato guardare le scene tratte da filmati improvvisati con cellulari, fatti da chi stava assistendo in diretta alle inondazioni e frane prodotte da El Niño, pochi anni fa. Questi filmati servivano a contestualizzare meglio la decisione disumana di sacrificare i propri figli alle divinità della montagna: ciò che i peruviani moderni hanno subito, pur conoscendo in anticipo ciò che li aspettava e avendo a disposizione alcuni mezzi per mettersi in salvo, deve essere sembrato l’Apocalisse agli abitanti di Chimor, i quali avevano solo le preghiere e i sacrifici a loro disposizione per tentare di sopravvivere alle calamità ineluttabili.

Uno dei corpi mummificati dei piccoli di Chimor

Ma le immagini moderne mi hanno addolorato più del rituale antico, per il quale, nonostante la drammaticità di quei resti bambini, ho evidentemente più strumenti di comprensione e accettazione. Senza contare le “sabbie del tempo”, in questo caso molto concrete, va detto, che seppelliscono il fatto e creano uno strato necessario alla rimozione.

Gabriel Prieto, l’archeologo che ha dato inizio agli scavi

Il film ricostruisce in realtà la storia della scoperta fortuita delle prime tombe e segue archeologi e antropologi nella loro ricerca: chi ha ucciso questi bambini, quando, perché? A cui si aggiunge un “dove”, nel momento in cui, dopo la prima area cimiteriale ne spuntano altre. La storia dei bambini di Chimor si intreccia con quella degli studiosi e ci viene restituita in modo estremamente realistico attraverso una ricostruzione storica degli eventi, con scene ambientate nel passato remoto in cui si svolsero gli eventi indagati. La chiave di lettura passa attraverso l’umanità dei ricercatori e si avverte prepotente la necessità di comprendere cosa sia successo, per poter accettare anche le realtà più scomode o sconcertanti.

Dario Piombino-Mascali, Alessandra Cilio e Alessandra Morrone sul palco del Festival

L’intervista a Dario Piombino-Mascali e alla sua assistente Alessandra Morrone, uno degli eventi collaterali del Festival, è stata estremamente interessante proprio alla luce del film di Scemla. Dario Piombino-Mascali è infatti antropologo e paleopatologo e, tra i vari titoli e impegni, è anche curatore delle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, perciò nel suo intervento si è concentrato sull’aspetto socio-antropologico della decisione di mummificare alcuni dei corpi inumati nelle catacombe.

Il culto dei morti, ma soprattutto dei morti più giovani: Piombino-Mascali ha studiato a lungo la mummia di Rosalia Lombardo e la sua assistente si occupa soprattutto di giovanissimi defunti, delle loro patologie e dei rituali di sepoltura. Quando cominci a studiare materie archeologiche ti viene spiegato che le sepolture infantili più antiche avvenivano sotto il pavimento delle abitazioni, quasi senza corredo, e che ci vollero secoli prima di dare dignità di sepoltura anche ai più piccoli, come se la loro morte fosse un incidente di percorso durante la crescita all’età adulta.

Nel film di Scemla e nelle parole degli antropologi italiani i bambini diventavano episodi, più che persone sepolte: rituali propiziatori oppure manifestazioni di status symbol, di classe sociale (nel caso palermitano). Accanto ai piccoli peruviani gli archeologi hanno trovato anche dei lama, molto giovani, che – pare – in quella cultura erano considerati psicopompi, spiriti che accompagnavano nel viaggio verso l’Aldilà.

L’Aldilà, che espressione poetica e a un tempo vaga e insufficiente. Forse per questo, nell’Aldiquà, la forma estetica del defunto acquista importanza e diventa un vessillo da esibire da parte di chi non riesce a immaginarsi indipendente dalle credenze e dalle superstizioni.

Il rapporto tra vivi e morti è un tema antico quanto il mondo, io scrivo nel giorno di Ognissanti, quando la porta tra i due mondi è resa visibile dalla luce di fuochi, lanterne, candele, lumini, simboli di speranza e di fede, luci che salvano, ma in realtà illuminano un mondo che è sempre lì (qui) attorno a noi, solo che a noi piace dimenticarlo e ricordarcene unicamente in momenti codificati dalla società, possibilmente in riti collettivi.

Tutti santi, siamo, All-Hallow, tutti santi saremo.

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La sostanza dei sogni – parte prima

Quando va bene, la società tende a guardare i sognatori con occhio tollerante

Will Eisner, The Dreamer

L’archeologia sullo schermo, il principio di Licodia

Due settimane fa si concludeva la XII edizione del Festival della Comunicazione e del Cinema Archeologico, organizzata a Licodia Eubea da Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio. Per me si è trattato della quinta partecipazione, in qualità di amica e appassionata sognatrice.

In questi cinque anni ho potuto osservare Lorenzo e Alessandra all’opera, coadiuvati da un gruppo coeso e sempre più efficiente di ragazzi e ragazze coinvolti e convinti dall’energia dei due direttori artistici, i quali, a loro volta, possono contare su Mauro Italia, imprescindibile in cabina di regia per coordinare le proiezioni. Ma di tutti gli aspetti tecnici su cui potrei soffermarmi nel descrivere la collaudata macchina del Festival di Licodia, nessuno potrebbe sostituire l’aspetto umano, il vero motore della manifestazione: il senso di accoglienza che abbraccia chiunque si accosti al gruppo di lavoro e che spinge più di un regista a promettere un nuovo film pur di poter tornare anche l’anno prossimo a Licodia Eubea.

Nei giorni del Festival, ospiti e staff, curiosi e amici, registi e spettatori, tutti noi veniamo coinvolti in un gioco di carte, come quello che è stato proposto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole che sono intervenute il venerdì mattina, tradizionalmente dedicato ad attività di laboratorio con classi di quinta elementare e prima media. Le carte servono a stimolare pensieri e associazioni, che diventeranno storie scritte e recitate e – chissà – magari un giorno anche filmate e proiettate.

Le carte di Licodia Eubea sono ogni anno diverse e stimolano la nostra fantasia in modi sempre nuovi, proponendoci di portare le nostre esperienze e ascoltare quelle degli altri. Forse è proprio l’atmosfera del cinema che ci sollecita a sognare a occhi aperti e così, nelle chiacchierate in terrazza oppure tra i vicoli di Licodia, le idee diventano promesse e le suggestioni ricordi.

Esperimenti

“I curtigghiari” – Caminunu talianno e i cosi i tutti sannu. Santino Russo.
Immagine di Pierluigi Longo, dalla mostra “Didascalico!”

Quest’anno Licodia Eubea offriva un altro, ricco mazzo di carte con cui stimolarci: all’interno della Badia, ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, che fino all’anno scorso aveva ospitato anche lo schermo per le proiezioni, Vincenzo Palmieri e l’Archeoclub di Licodia hanno organizzato la mostra “Didascalico!” con opere di Pierluigi Longo.

Artista eclettico e già celebre autore di numerose copertine di Internazionale, nonché di alcune opere letterarie, Pierluigi Longo ha voluto fare un interessante esperimento culturale, associando ad alcune sue opere, create per illustrare racconti o notizie di cronaca, didascalie elaborate da un gruppo di persone di Licodia Eubea oppure affini al paese o al Festival. Il risultato è stato molto affascinante, perché le composizioni di Longo sono il frutto di un lungo lavoro di interpretazione di un fatto oppure di un concetto, hanno, dunque un punto di partenza spesso complesso e in ogni caso radicato nella realtà. Le letture che ne hanno dato le persone coinvolte, invece, partivano esclusivamente dalla propria reazione di fronte alla composizione grafica, perfettamente ignari dell’originale ispirazione dell’immagine.

Un momento della perfomance di Margherita Peluso e Meline Saoirse alla rocca del Castello Santapau

Sogni, dunque, proiezioni mentali di desideri o di paure, chiunque passi da Licodia Eubea nei giorni del Festival scopre un collegamento diretto con la sua parte più intima e quest’anno, come già nella scorsa edizione, ha avuto la possibilità di entrarvi in contatto grazie alla performance di Margherita Peluso.

L’artista ha infatti organizzato, coinvolgendo Meline Saoirse e Enzo Cimino, due momenti di meditazione. Il primo è stata una performance dinanzi all’ingresso alla Badia, ma il secondo si è svolto nello spiazzo verde in cima alla rocca del Castello Santapau: qui, come l’anno scorso, la comunità licodiese ha partecipato attivamente, lasciandosi “manipolare” da Margherita e Meline, mentre il suono del tamburo e la ripetizione di parole e frasi invitavano alla trance. A coppie, gli spettatori sono stati “connessi” tramite uno spago, unendosi alle due donne nell’invocare parole di armonia e comunione con la natura.

Come già l’anno scorso, quello che mi affascina della performance di Margherita è la naturalezza con la quale ella riesce a coinvolgere le persone: nei suoi movimenti, nella espressione del suo viso, si avverte la sincerità e la genuinità di chi compie degli atti mai forzati, mai studiati, ma naturali. Secondo me è proprio questa “verità” che convince gli spettatori a darle fiducia.

Sognatori, ecco chi siamo noi che ci ritroviamo a Licodia Eubea a ottobre, sognatori che vogliono recuperare i propri sogni …

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