La sostanza dei sogni – parte seconda

Cinema e archeologia

Cinema e archeologia, che accostamento affascinante! Tutto il mistero di un’occupazione che sembra essere stata creata solo per pochi adepti e che odora di muffa – spesso – ma anche di pietre e di spazi aperti, che sembra brandire – alternativamente – la frusta di Indiana Jones e il pennello di un anziano barbiere, unito alla “magia del cinema”.

La magia del buio e dell’ignoto – chissà com’è che sullo schermo compaiono le vite di persone così distanti da noi, eppure vicinissime – e la possibilità di lasciar andare a briglia sciolta la nostra fantasia, ché tanto, nel buio della sala suddetta, nessuno sa veramente cosa stiamo pensando, nessuno ci rivolge domande, ma ognuno di noi può perdersi nei meandri delle proprie associazioni mentali.

L’eclettico Lorenzo Daniele nella sua funzione di presentatore

Quando racconto che il secondo fine settimana di ottobre lo trascorro a un Festival del Cinema archeologico, i miei amici e conoscenti restano a bocca aperta. Eppure ormai ce ne sono tanti, in giro per la penisola, per non parlare di quel che accade in altre nazioni europee (e non), dove forse sanno distribuire meglio le produzioni cinematografiche di questo tipo. Ma torniamo a Licodia Eubea e al suo fascino, che si sprigiona allorché Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio arrivano con il loro gruppo di lavoro e allestiscono la macchina dei sogni per eccellenza, il cinematografo; prima in una badia ex chiesa e da quest’anno nel cosiddetto “teatro della legalità”, che offre un contesto più facilmente identificabile con la sala di un cinema.

L’edizione di quest’anno, la dodicesima, ha portato a Licodia molti registi e molte produzioni diverse, dopo una selezione fatta in base al tema portante: il superamento dei confini, sia fisici che ideologici, generazionali oppure sociali. Il risultato è stato, come sempre, un caleidoscopio di frammenti di storia e società e voglio provare a isolare qualche aspetto.

Lo stupore della morte

Alessandra Cilio consegna a Jérome Scemla il premio “Archeovisiva” assegnato da una giuria internazionale.

Quando dialogo con i miei studenti e presento loro gli aspetti più quotidiani del vivere antico, non posso fare a meno di partire dalle tombe: è il destino dell’archeologo, quello di interrogare principalmente i corredi funebri e di restituire la vita attraverso gli oggetti che circondano i morti. Perciò devo ammettere che, quando Jérome Scemla, regista di “Perou, sacrifices au Royaume de Chimor”, ha avvisato il pubblico di alcune scene di forte impatto emotivo nel suo film sulla scoperta di cimiteri di bambini sacrificati tra il Quattro- e Cinquecento in tre grandi aree dell’antico regno di Chimor, non pensavo che mi sarei impressionata più di tanto.

In effetti il momento più difficile, per me, è stato guardare le scene tratte da filmati improvvisati con cellulari, fatti da chi stava assistendo in diretta alle inondazioni e frane prodotte da El Niño, pochi anni fa. Questi filmati servivano a contestualizzare meglio la decisione disumana di sacrificare i propri figli alle divinità della montagna: ciò che i peruviani moderni hanno subito, pur conoscendo in anticipo ciò che li aspettava e avendo a disposizione alcuni mezzi per mettersi in salvo, deve essere sembrato l’Apocalisse agli abitanti di Chimor, i quali avevano solo le preghiere e i sacrifici a loro disposizione per tentare di sopravvivere alle calamità ineluttabili.

Uno dei corpi mummificati dei piccoli di Chimor

Ma le immagini moderne mi hanno addolorato più del rituale antico, per il quale, nonostante la drammaticità di quei resti bambini, ho evidentemente più strumenti di comprensione e accettazione. Senza contare le “sabbie del tempo”, in questo caso molto concrete, va detto, che seppelliscono il fatto e creano uno strato necessario alla rimozione.

Gabriel Prieto, l’archeologo che ha dato inizio agli scavi

Il film ricostruisce in realtà la storia della scoperta fortuita delle prime tombe e segue archeologi e antropologi nella loro ricerca: chi ha ucciso questi bambini, quando, perché? A cui si aggiunge un “dove”, nel momento in cui, dopo la prima area cimiteriale ne spuntano altre. La storia dei bambini di Chimor si intreccia con quella degli studiosi e ci viene restituita in modo estremamente realistico attraverso una ricostruzione storica degli eventi, con scene ambientate nel passato remoto in cui si svolsero gli eventi indagati. La chiave di lettura passa attraverso l’umanità dei ricercatori e si avverte prepotente la necessità di comprendere cosa sia successo, per poter accettare anche le realtà più scomode o sconcertanti.

Dario Piombino-Mascali, Alessandra Cilio e Alessandra Morrone sul palco del Festival

L’intervista a Dario Piombino-Mascali e alla sua assistente Alessandra Morrone, uno degli eventi collaterali del Festival, è stata estremamente interessante proprio alla luce del film di Scemla. Dario Piombino-Mascali è infatti antropologo e paleopatologo e, tra i vari titoli e impegni, è anche curatore delle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, perciò nel suo intervento si è concentrato sull’aspetto socio-antropologico della decisione di mummificare alcuni dei corpi inumati nelle catacombe.

Il culto dei morti, ma soprattutto dei morti più giovani: Piombino-Mascali ha studiato a lungo la mummia di Rosalia Lombardo e la sua assistente si occupa soprattutto di giovanissimi defunti, delle loro patologie e dei rituali di sepoltura. Quando cominci a studiare materie archeologiche ti viene spiegato che le sepolture infantili più antiche avvenivano sotto il pavimento delle abitazioni, quasi senza corredo, e che ci vollero secoli prima di dare dignità di sepoltura anche ai più piccoli, come se la loro morte fosse un incidente di percorso durante la crescita all’età adulta.

Nel film di Scemla e nelle parole degli antropologi italiani i bambini diventavano episodi, più che persone sepolte: rituali propiziatori oppure manifestazioni di status symbol, di classe sociale (nel caso palermitano). Accanto ai piccoli peruviani gli archeologi hanno trovato anche dei lama, molto giovani, che – pare – in quella cultura erano considerati psicopompi, spiriti che accompagnavano nel viaggio verso l’Aldilà.

L’Aldilà, che espressione poetica e a un tempo vaga e insufficiente. Forse per questo, nell’Aldiquà, la forma estetica del defunto acquista importanza e diventa un vessillo da esibire da parte di chi non riesce a immaginarsi indipendente dalle credenze e dalle superstizioni.

Il rapporto tra vivi e morti è un tema antico quanto il mondo, io scrivo nel giorno di Ognissanti, quando la porta tra i due mondi è resa visibile dalla luce di fuochi, lanterne, candele, lumini, simboli di speranza e di fede, luci che salvano, ma in realtà illuminano un mondo che è sempre lì (qui) attorno a noi, solo che a noi piace dimenticarlo e ricordarcene unicamente in momenti codificati dalla società, possibilmente in riti collettivi.

Tutti santi, siamo, All-Hallow, tutti santi saremo.

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La sostanza dei sogni – parte prima

Quando va bene, la società tende a guardare i sognatori con occhio tollerante

Will Eisner, The Dreamer

L’archeologia sullo schermo, il principio di Licodia

Due settimane fa si concludeva la XII edizione del Festival della Comunicazione e del Cinema Archeologico, organizzata a Licodia Eubea da Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio. Per me si è trattato della quinta partecipazione, in qualità di amica e appassionata sognatrice.

In questi cinque anni ho potuto osservare Lorenzo e Alessandra all’opera, coadiuvati da un gruppo coeso e sempre più efficiente di ragazzi e ragazze coinvolti e convinti dall’energia dei due direttori artistici, i quali, a loro volta, possono contare su Mauro Italia, imprescindibile in cabina di regia per coordinare le proiezioni. Ma di tutti gli aspetti tecnici su cui potrei soffermarmi nel descrivere la collaudata macchina del Festival di Licodia, nessuno potrebbe sostituire l’aspetto umano, il vero motore della manifestazione: il senso di accoglienza che abbraccia chiunque si accosti al gruppo di lavoro e che spinge più di un regista a promettere un nuovo film pur di poter tornare anche l’anno prossimo a Licodia Eubea.

Nei giorni del Festival, ospiti e staff, curiosi e amici, registi e spettatori, tutti noi veniamo coinvolti in un gioco di carte, come quello che è stato proposto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole che sono intervenute il venerdì mattina, tradizionalmente dedicato ad attività di laboratorio con classi di quinta elementare e prima media. Le carte servono a stimolare pensieri e associazioni, che diventeranno storie scritte e recitate e – chissà – magari un giorno anche filmate e proiettate.

Le carte di Licodia Eubea sono ogni anno diverse e stimolano la nostra fantasia in modi sempre nuovi, proponendoci di portare le nostre esperienze e ascoltare quelle degli altri. Forse è proprio l’atmosfera del cinema che ci sollecita a sognare a occhi aperti e così, nelle chiacchierate in terrazza oppure tra i vicoli di Licodia, le idee diventano promesse e le suggestioni ricordi.

Esperimenti

“I curtigghiari” – Caminunu talianno e i cosi i tutti sannu. Santino Russo.
Immagine di Pierluigi Longo, dalla mostra “Didascalico!”

Quest’anno Licodia Eubea offriva un altro, ricco mazzo di carte con cui stimolarci: all’interno della Badia, ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, che fino all’anno scorso aveva ospitato anche lo schermo per le proiezioni, Vincenzo Palmieri e l’Archeoclub di Licodia hanno organizzato la mostra “Didascalico!” con opere di Pierluigi Longo.

Artista eclettico e già celebre autore di numerose copertine di Internazionale, nonché di alcune opere letterarie, Pierluigi Longo ha voluto fare un interessante esperimento culturale, associando ad alcune sue opere, create per illustrare racconti o notizie di cronaca, didascalie elaborate da un gruppo di persone di Licodia Eubea oppure affini al paese o al Festival. Il risultato è stato molto affascinante, perché le composizioni di Longo sono il frutto di un lungo lavoro di interpretazione di un fatto oppure di un concetto, hanno, dunque un punto di partenza spesso complesso e in ogni caso radicato nella realtà. Le letture che ne hanno dato le persone coinvolte, invece, partivano esclusivamente dalla propria reazione di fronte alla composizione grafica, perfettamente ignari dell’originale ispirazione dell’immagine.

Un momento della perfomance di Margherita Peluso e Meline Saoirse alla rocca del Castello Santapau

Sogni, dunque, proiezioni mentali di desideri o di paure, chiunque passi da Licodia Eubea nei giorni del Festival scopre un collegamento diretto con la sua parte più intima e quest’anno, come già nella scorsa edizione, ha avuto la possibilità di entrarvi in contatto grazie alla performance di Margherita Peluso.

L’artista ha infatti organizzato, coinvolgendo Meline Saoirse e Enzo Cimino, due momenti di meditazione. Il primo è stata una performance dinanzi all’ingresso alla Badia, ma il secondo si è svolto nello spiazzo verde in cima alla rocca del Castello Santapau: qui, come l’anno scorso, la comunità licodiese ha partecipato attivamente, lasciandosi “manipolare” da Margherita e Meline, mentre il suono del tamburo e la ripetizione di parole e frasi invitavano alla trance. A coppie, gli spettatori sono stati “connessi” tramite uno spago, unendosi alle due donne nell’invocare parole di armonia e comunione con la natura.

Come già l’anno scorso, quello che mi affascina della performance di Margherita è la naturalezza con la quale ella riesce a coinvolgere le persone: nei suoi movimenti, nella espressione del suo viso, si avverte la sincerità e la genuinità di chi compie degli atti mai forzati, mai studiati, ma naturali. Secondo me è proprio questa “verità” che convince gli spettatori a darle fiducia.

Sognatori, ecco chi siamo noi che ci ritroviamo a Licodia Eubea a ottobre, sognatori che vogliono recuperare i propri sogni …

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Appunti estivi. 3

Polvere di dio.

In tre giorni ho consumato un libro decisamente interessante: “La nascita di Venere”, di Sarah Dunant. Affresco – è il caso di dirlo – romanzato della Firenze di Savonarola, il libro è la storia di una ragazza estremamente colta e dotata per la pittura, figlia di un mercante, alle prese con la propria crescita e le brutture del mondo, soprattutto quello della Nuova Gerusalemme annunciato da Girolamo Savonarola. Le emozioni più forti della giovane sono però affidate alla sua passione per il disegno e il colore, perciò comincerò da queste:

Annuii, incapace di parlare, e mi diressi al tavolo. Sfilai il gancio di alcune scatole e feci scivolare le dita nelle polveri: il nero compatto, il giallo acceso del croco toscano e l’intenso giallo di Napoli, con la promessa del verde di un centinaio di alberi e piante contenuti in un solido pezzo di roccia. Una varietà stupefacente di colori che erano come il primo raggio di sole sulla città gelata dopo la neve. Mi accorsi di sorridere, ma forse scorrevano anche delle lacrime.

S. Dunant, La nascita di Venere, p.238

I colori del Mediterraneo

Non sono riuscita a trovare la scena del tenente che affresca, ma questi sono i minuti finali del film e, quando torna sull’isola, Raffaele visita la chiesetta e riguarda il suo lavoro.

Leggere il romanzo di Dunant mi ha immerso in un’atmosfera estremamente piacevole, al netto di alcune atrocità che – si sa – in un racconto sulla Firenze circum-Medicea non possono mancare! L’amore della protagonista per i colori e la pittura e il suo cimentarsi nell’affresco di cappelle private mi hanno fatto tornare alla mente un film celebre, vincitore di Oscar, Mediterraneo di Salvatores e così l’ho rivisto. Ricordavo chiaramente le immagini della piccola chiesa che il tenente Raffaele, decisamente il più improbabile militare mai apparso sugli schermi, riceve l’incarico di restaurare, con sua somma gioia. Naturalmente aggiunge un tocco personale ai volti dei santi e, nella scena del matrimonio tra Farina e Vasilissa, ritroviamo i commilitoni ritratti à la bizantina, con i volti che sembrano essere composti da spicchi di colori in nuances. Pare di vedere ogni spicchio con dentro un numero che corrisponde al colore e il tenente tornato bambino, impegnato a giocare con pennelli e tempere.

Un gioco da bambini

La bellezza delle icone bizantine e poi l’evoluzione nell’arte ortodossa del XVII e XVIII secolo non mi è sempre stata affine: solo la frequentazione con la Grecia mi ha insegnato ad apprezzare quei volti spigolosi e a cercare i dettagli, gli attributi che, esattamente come per le divinità del mondo classico, permettono di riconoscere il soggetto ritratto. Quest’anno, nel mio giro del Mani interno ed esterno, mi sono divertita soprattutto a Monemvasià: insediamento incuneato tra la rocca e il mare, su un isolotto inaccessibile poco sotto Gythio.

Panagia Myrtidiotissa, Monemvasia

Questa a sinistra, per esempio, è una icona tanto semplice quanto ricca di storia: si tratta della Madonna del mirto, la Myrtidiotissa, che è venerata soprattutto a Kythira, ridente isolotto tra il Peloponneso e Creta. Dobbiamo risalire al XV secolo per leggere la storia del pastore cui appare in sogno la Madonna, dicendogli di cercare l’icona nei campi. L’icona c’è, in effetti, ed è in un cespuglio di mirto, che quindi le dà il nome.

Fin qui la potremmo considerare una delle tante icone della Vergine e la sua chiesa a Monemvasià era stata dedicata da esuli cretesi, particolarmente devoti.

Sincretismo

Non sfuggirà però il fatto che il mirto fosse una pianta associata ad Afrodite e che Kythira era considerata una delle possibili isole (insieme a Cipro) sulle cui spiagge era stata sospinta la dea nata dalla spuma del mare.

I culti antichi vengono ripuliti dalla religione che ha avuto la meglio e il paganesimo dorme tra le ciglia di una Vergine e di suo figlio.

Icona mobile della Vergine Zoodochoou Pigis, dipinta da Pavlos Papadopoulos nel 1865, su commissione della associazione dei calzolai. Fa parte della collezione della chiesa dei Tassiarchi di Areopoli, oggi è esposta nel museo Pikoulakis, sempre ad Areopoli.

L’iconografia della Madonna Zoodochou Pigis è ancora più significativa. Si tratta di una Madonna che emerge da una fonte (pigì) che dà la vita (zoodochos) e l’origine di tale immagine è collegata a una chiesa di Costantinopoli dove, intorno al V secolo, una sorgente di acqua miracolosa era stata indicata dalla Vergine apparsa a un soldato romano o all’imperatore Giustiniano. Da Costantinopoli tale immagine ha attraversato i Balcani e viene riprodotta in tutto il mondo ortodosso (non parliamo poi delle vie intitolate a questa Madonna, tutti i centri abitati greci ne hanno una).

Ma a me, ‘amica delle ninfe’ come mi ha soprannominato un amico, scatta subito l’associazione con la medievale “fonte della giovinezza”, un mito che figura anche su alcuni deschi da parto di età rinascimentale e che propone fontane dai complessi giochi d’acqua aspettare il cavaliere o il pellegrino di turno nel folto di boschi sperduti, pronte a offrire ben più del semplice sollievo dalla sete, addirittura una vita eternamente giovane. Queste fonti saranno forse cugine degli specchi d’acqua custoditi dalle ninfe, le quali attendono i giovani che si avventurano nelle radure e li afferrano, trascinandoli a sé e destinandoli a eternare la loro giovinezza oppure accogliendoli e istruendoli nella saggezza del nostro e del loro mondo (pensate alla Dama del Lago, nutrice di Lancillotto).

Persa in questi collegamenti divini mi viene in mente che c’è una fantastica rappresentazione della fonte della giovinezza ne “La Rosa di Bagdad”, filmato d’animazione tutto italiano del 1949. I tre saggi, personaggi buffi della storia, si avviano alla ricerca del protagonista e si imbattono in una fonte, custodita da una grossa donna africana. Si dissetano, ma quella fonte è incantata e la giovinezza che acquistano li fa tornare infanti.

San Giovanni “decollato”

Icona del despotato di Morea, tardo XVIII secolo, raffigurante San Giovanni Battista.
Esposta al museo Pikoulakis.

Nella visita di Areopoli, capoluogo del Mani, non può mancare il museo Pikoulakis: allestito nella casa-torre di questo celebre cittadino di Areopoli, parente del Mavromichalis che portò alla ribellione i Greci contro il potere Ottomano.

La collezione non è ampia, ma può contare alcuni pezzi da novanta, come l’icona della Zoodochou Pigis e alcuni elementi architettonici di basiliche o piccole chiese trovate nella regione del Mani e significativi per delineare uno stile maniota nella decorazione di XI-XIII secolo. Sono noti perfino i nomi di due lapicidi, che firmano alcune opere.

E poi c’è lui, il San Giovanni Battista scarmigliato come al solito, ruvido nel volto e nella exomis, la pelle che lo riveste. L’iconografia è classica: accanto a lui il cartiglio con la frase ben nota:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:

egli preparerà la tua via.

Marco 1.2; Luca 7.27; Matteo 11.10

E poi la testa servita sul piatto d’argento, questa volta dallo stesso santo che indica il proprio martirio. Ma nelle icone ortodosse ci sono le ali e questa è una novità nell’iconografia del Battista. Un indizio lo troviamo nella frase di cui sopra, dove “messaggero” è reso come angelos e dunque una delle creature alate che mettono in contatto i due mondi, umano e divino. Nei Vangeli, inoltre, San Giovanni è associato a Elia, il profeta delle alture (chiese e monasteri a lui dedicati sono proprio in cima ai monti) che alla fine della sua vita ascende in cielo su un carro di fuoco, a metà tra una Medea redenta e l’antico titano solare di cui il profeta porta il nome.

Quindi Giovanni è pronto al volo, dotato di ali scure, bruciato dal sole del deserto, vestito di pelli e nutrito di locuste. La sua iconografia alata si sviluppa in età bizantina, poi conosce una pausa, e infine è ripresa soprattutto in ambito russo a partire dal XVIII secolo.

Il sole illuminante

Restiamo per un attimo sul sole, indossiamo gli occhiali, ché non dobbiamo fissarlo senza protezione! E il sole per me è Sarastro, perché mentre scrivo queste righe sto riascoltando Il Flauto Magico di Mozart, nella edizione del 2003 con una commovente Damrau/regina della notte, un funambolico Keenlyside/Papageno e una dolcissima Röschmann/Pamina.

https://www.youtube.com/watch?v=_4xHyMjBB1o&t=6971s

Una favola iniziatica, al posto del Sole e del suo regno potete mettere Mitra o ancora meglio Iside (l’Egittomania sarebbe scoppiata qualche anno dopo, ma la suggestione egizia è innegabile). Una metafora massonica, è stato detto, ma si tratta solo di un altro nome della iniziazione divina, che a partire da Eros e Psiche si è sempre divertita a mettere alla prova gli esseri umani, con la promessa di un bene superiore.

Giochiamo, dunque, con le immagini e i colori e alimentiamo il nostro animo fanciullo, che ha bisogno di riempire gli occhi di bellezza per poter insegnare al proprio animo a riconoscere la giustizia.

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Appunti estivi.2

Fondamenta-li

Bello il putto, vero? Ci guarda e ci giudica dall’alto del muro di cinta di un palazzo veneziano che dovrebbe essere questo: https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchitecturalOrLandscapeHeritage/0500158948

Esattamente un mese fa sono tornata a Venezia, questa volta in compagnia di un’amica al suo primo appuntamento con la città. Da “navigata” visitatrice della laguna, quale sono, mi ero offerta di farle da guida, ma, come sempre capita in queste occasioni, Venezia mi ha sorpresa con particolari e luoghi che ancora non conoscevo. D’altronde la città ha preso dall’acqua la caratteristica più saliente: quella di essere in costante movimento e di non essere mai uguale a se stessa.

La passeggiata lungo le Fondamenta alle Zattere è stata, per esempio, la prima novità perché mi ha permesso di conoscere la storia degli Incurabili, i malati di sifilide che attendevano la morte in un ospedale a loro dedicato: l’edificio fu fondato nel 1517 da San Gaetano da Thiene e i degenti erano “incurabili” perché all’epoca non vi era rimedio al “mal francese”.

Sul muro di cinta del palazzo – ma, come vedrete dal link che ho posto sotto la didascalia della foto in alto, non dovrebbe corrispondere all’ex ospedale, oggi sede dell’Accademia di Belle Arti – spicca una targa dedicata al poeta Iosif Brodskij, perché “Fondamenta degli Incurabili” è il titolo di una sua raccolta di scritti veneziani e perché alla città lagunare sono legati momenti intensi e importanti della vita del poeta.

Cartoline da Venezia

Come ho appreso da un Tweet di Paolo Nori, nel museo dedicato ad Anna Achmatova a San Pietroburgo è in corso una mostra con oggetti di Brodskij e tra questi una serie di cartoline, incollate in un libretto intitolato “Ricordo di Venezia”, che sono il primo contatto del poeta con la città italiana. Mi affascina l’idea che la “città da cartolina” per eccellenza riesca a conquistare la curiosità del visitatore colto, proprio attraverso le immagini patinate e da molti considerate blandi cliché.

Concerti Grossi

In questi giorni di caldo senza perdono ho trovato una musica estremamente conciliante, che mi suggerisce immagini di trine e di vestiti fruscianti, di gesti misurati e studiati, di belletto bianco con qualche neo nei punti giusti, di parrucche che assomigliano a nuvole vaporose e ventagli dai colori pastello. Barocco, perché no?

Sono “grossi” in contrapposizione ai concerti con uno o due strumenti. Sono barocchi e spesso associati a immagini veneziane, anche se gli autori dei più famosi hanno provenienze diverse.

Corelli o Händel, ma anche Boccherini: i concerti grossi mi aiutano nella concentrazione ed evocano gli arabeschi della città lagunare, soprattutto di quel capolavoro che è il Palazzo Ducale.

Pavoni incolonnati

Uno dei consigli di lettura che ho affidato alle pagini telematiche dell’Indiscreto è il libro di Ann Byatt, “Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris”. L’autrice attinge a lettere private e a documenti dell’epoca, cui aggiunge, da par suo, una rara sensibilità nell’individuare l’origine di alcuni aspetti artistici. A marzo ho visitato la casa museo di Mariano Fortuny, riaperta dopo alcuni importanti lavori di ripristino, e ho potuto verificare quanto fosse poliedrica la personalità dell’artista. Nel libro viene citato Proust, il quale credeva che Fortuny avesse trovato nelle decorazioni dei capitelli medievali sparsi per Venezia l’ispirazione per i pavoni arabescati nelle sue bellissime stoffe: un’immagine estremamente poetica e forse anche questa da cartolina. Fatto sta che i capitelli della loggia esterna del Palazzo Ducale hanno stregato anche me, che non ricamo stoffe e non scrivo romanzi, ma mi lascio guidare dalla fantasia e dall’associazione di idee.

Il canto dei pavoni

Un altro titolo consigliato per l’Indiscreto è infatti “Pietre che cantano” di Marius Schneider: uno studio dei chiostri di tre monasteri spagnoli, elaborato negli anni ’70 e ripubblicato nel 2019 per le edizioni SE. Schneider è stato un musicologo di fama internazionale e si è occupato soprattutto della musica e delle annotazioni musicali nei Veda, interpretando immagini cosmogoniche alla luce delle teorie musicali più antiche. I pavoni, nella lettura di Schneider, corrispondono al re e così, prendendo come “legenda” alcune antifonie gregoriane, l’autore associa le note alle figure ritratte sui capitelli tra XIV e XV secolo e cerca di dare un senso anche alle scene più oscure, quelle che facciamo fatica a riconoscere anche nei più oscuri episodi della Bibbia.

La sua lettura è tanto affascinante quanto potenzialmente sovvertibile, però l’importanza della musica per l’animo umano, anche per quello recluso e soprattutto per la versione divina dell’uomo, ovvero il sommo creatore, è un fatto indubbio. Ogni suono che avvertiamo è una musica e ci guida o condiziona nei movimenti più banali.

Se è vero che, come spiega Schneider, note e animali non vengono associate sulla base del suono dei versi di questi, ma seguendo interpretazioni cosmologiche, sorrido al pensiero che i pavoni possano corrispondere al re e non, magari, a un accordo disarmonico e chiassoso, dato che il loro verso è tra i più terribili che abbia mai sentito fare a un animale!

Brodskij e l’archeologia

Ammetto una grande ignoranza: fino a oggi avevo solo sentito parlare del poeta russo, ma non mi ero mai imbattuta nei suoi versi. Per scrivere queste poche righe ho deciso di documentarmi meglio e la prima poesia che mi è venuta incontro (ormai la ricerca su google è determinata da una tale quantità di algoritmi che non riesco più ad attribuire alcun merito alle mie doti di interrogante) è un dialogo con un fantomatico archeologo. A lui Brodskij chiede di smettere di interrogare chi non c’è più, rivendica un oblio (proprio quello che Google ti nega) che lo studioso di cose antiche non riesce a rispettare. Mi affascina tale punto di vista e, pur non condividendolo, riconosco che solo di recente è stato affrontato nelle sedi opportune (centri di ricerca, musei, fondazioni) anche se diretto alla sola questione dei resti umani.

Leave our names alone. Don’t reconstruct those vowels,

consonants, and so forth

J. Brodskij, Letter to an Archaeologist
tramonto dal ponte di Calatrava

Riflessi

Mi aggiro per Venezia insieme alla mia amica: lei entusiasta e alla scoperta di un mondo intatto, io come un’ombra che scivola furtiva lungo gli spigoli delle case e sale e scende i ponti come se le si aprissero davanti per guidarla nel labirinto. Cerco il mio Minotauro, che in tutti questi anni non ho ancora affrontato, ma nel percorso mi lascio distrarre dalla luce che si riflette sull’acqua e mi illude di essere su una barca, anziché sull’isola.

Visito Venezia come se fossi nel bel mezzo di un viaggio, senza meta.

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