Note di viaggio – Re

Benedetto e Scolastica, santi gemelli. Apollo e Artemide di una ecclesia andata a male.

Benedetto arriva a Subiaco per fuggire da Roma e si rifugia in una grotta, dove spera di ritrovarsi.
Scolastica lo segue, segnata dall’esigenza paterna di non perdere il patrimonio: ma la ragazza non può farcela in quel mondo, senza il fratello.

Subiaco diventa, per i gemelli, scenografia e sceneggiatura: 13 sono i monasteri che Benedetto fonda nell’area. Quello che oggi chiamiamo “di Santa Scolastica” è l’unico a conservare un nucleo originale, del VI secolo.

Cherubino nella grotta di San Girolamo: Oriente che incontra Occidente.

Entrare a Santa Scolastica equivale a perdersi in un gioco di scatole cinesi: tre chiostri che si incastrano, si parte dal più recente – Rinascimentale – e si affonda piano piano nel Medioevo Bizantino, in un orizzonte che diventa sempre meno nitido nel dividere i rituali di Oriente e Occidente.

Curioso che il biografo ufficiale dei fratelli sia quel Girolamo così impegnato nel rendere comprensibile la Bibbia: maestro di racconti, Girolamo, avvolge forse di un’aura di classicità i due Santi cristiani, che diventano, davanti ai miei occhi, sempre più simili a quei figli di Zeus nati in un’isola viaggiante.

Anche la chiesa di Santa Scolastica è una scatola cinese, o forse, come ha giustamente fatto notare la nostra guida, una Matrioska, dal momento che l’architetto Giacomo Quarenghi, autore del restauro miracoloso del 1769, ci ha lasciato solo quest’opera in Italia, emigrando poi in Russia e diventando l’architetto di corte della Zarina Caterina II. Nel ‘700, dunque, la chiesa deve essere restaurata, perché sta collassando letteralmente su se stessa a causa di violente scosse sismiche: così il Quarenghi ha l’idea di lasciare una sorta di guscio esterno, comprensivo di facciata completamente affrescata, e ricostruire un interno in perfetto stile neoclassico.

A parte la chiesa, perfetta nel suo bianco razionalista, tutto il resto ci parla di storie di incastri: il cortile cosmatesco, il più interno, è dominato da un campanile svettante, e segnato da un’asimmetria che rivela architettura sapiente e funzionale alla confluire dell’acqua piovana fino nei recessi delle cucine. L’intero complesso è costruito sulle pieghe della roccia e ne segue i saliscendi fin nei più piccoli ricami dei capitelli.

Se saliamo per quasi due chilometri, raggiungiamo invece il cosiddetto “sacro speco“, cioè il luogo che Benedetto scelse come rifugio: un po’ Francesco, un po’divinità dell’oracolo ambiguo, un “loxios” dei monti simbruini.
Il santuario è molto posteriore all’esperienza benedettina: risale infatti al XIII secolo la sistemazione dei luoghi che avevano visto la passione del Santo farsi regola. Inizialmente si costruiscono ambienti che formeranno la chiesa inferiore, a poco a poco si risale arrampicandosi lungo la parete di roccia e si aggiungono le sale della chiesa superiore. I due ambienti sono collegati dalla cosiddetta “scala santa” e non sono riuscita a non pensare a quel sistema minoico, il cosiddetto “bacino lustrale” che consiste essenzialmente in un pozzo di luce da percorrere attraverso una scalinata per immergersi ed emergere purificati. Ecco, la stessa idea di discesa e ascesa è quel che si sperimenta nel sacro speco di Subiaco. Circondati, forse affogati, dai colori vivi degli affreschi: mi commuovono queste storie sul muro, al di là del pregio artistico, raccontano della passione di chi voleva finalmente vedere i volti personaggi troppe volte solo letti o ascoltati.

Gli occhi di quei Santi e di quegli Angeli ti penetrano dentro, puoi quasi avvertire la fronte imperlata di sudore di chi ha osato fissarli e si è lasciato fissare: “pentiti” oppure “segui il tuo cuore, ma muori assalito dai sensi di colpa”.

Non c’è gioia nei volti che si assiepano sulle pareti. Al limite un velo di sadismo, un’ironica cattiveria negli occhi allungati e nei sorrisi appena accennati.

Fratello e sorella, sospesi nella roccia di Subiaco, alla strenua ricerca di un senso alla vita medievale.
C’è un episodio della vita di Benedetto e Scolastica, riportato fedelmente (?) da Girolamo, che mi ha molto colpito.
La regola del fratello stava un po’ stretta a Scolastica, la quale una sera chiese a Benedetto di rimanere a parlare con lei nel monastero, anche oltre il tramonto. Benedetto era irremovibile, ma Scolastica pregò intensamente e un potente temporale costrinse il fratello a rimanere per la notte.
Il padre Zeus viene in aiuto dei gemelli e della loro necessità di condividere pensieri ed emozioni. Un po’ mi immagino Benedetto, desideroso di pace e solitudine, forse anche solo di dormire un po’; e Scolastica, che scoppia a piangere per allentare la tremenda tensione…di essere all’altezza del fratello.

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Note di viaggio – Do

Palazzo o monastero? Ancora deve deciderlo, nel frattempo Palazzo Moraschi mi accoglie con una copia del Vangelo (sì, al singolare, ma li conta tutti) sul comodino; uno scambio fugace con la Madonnina impalata sul muro – quasi un compromesso con il Crocifisso – e direi che si sono riusciti a farmi sentire a disagio!
D’accordo, per questo breve soggiorno eviterò le brutte abitudini.
D’accordo, chiamatemi “pellegrina di San Benedetto“, io penserò alle rondini, voi mi guarderete benevoli anche se sono una donna che viaggia da sola.

Attorno a me, tutto parla di Chiesa. Quella ecclesia che, forse, Benedetto cercava di aggirare con una “regola” che lo faceva sentire più al sicuro, dalle tentazioni del mondo.
Oggi è tutto un rimando alla religione di Gesù e di sua madre.
Il paese, poi, è bardato a festa, perché il 14-15 e 16 agosto sono i giorni della “Inchinata“.

Una tradizione di Tivoli e di Subiaco: accomunati eppure divisi dalla stessa festa, che fa inchinare le immagini del Salvatore e di sua madre. Immagini che percorrono i vicoli medievali dei due borghi e si inchinano l’un l’altra grazie alla forza di venti (quattro) braccia dei 12 simil-Apostoli.
A Tivoli la processione è del solo Salvatore, che “bussa” a casa della Madonna delle Grazie. A Subiaco le due immagini percorrono itinerari diversi ma alla fine si incontrano: il fulcro della manifestazione è Santa Maria della Valle, la chiesa proprio sopra il “mio” palazzo-monastero.

E una volta arrivata davanti alla sua chiesa, l’immagine della Madonna viene fatta passare attraverso la porta: una operazione di equilibrismo, a cui resta appesa tutta la fede degli astanti. Trattengono il respiro e guardano i 12 uomini piegarsi, passare, poi rialzarsi. Un applauso libera la tensione, anche per quest’anno la fede è salva e Maria può continuare a intercedere per noi.

Sshh, ora riposa, Maria. Circondata di luce, dentro una chiesa spoglia. Assiste, docile ma non complice, allo sgretolarsi della nostra società.

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“Raccontami Musa…partendo da un punto qualsiasi”

 

 

Il fascino dell’Odissea, ho sempre pensato, risiede nella grande varietà dei suoi personaggi, capaci di suscitare empatia a chi ne legga la storia e le gesta: c’è l’avventuriero senza scrupoli, la moglie fedele, il figlio tormentato, la maga seducente, la ninfa vogliosa, il re buono con la moglie saggia e la figlia adolescente in cerca del principe azzurro… e così per altre decine di personaggi, divini e mortali.

Perciò, il fascino del libro di Mendelsohn risiede proprio nella capacità dell’autore di condurci attraverso i mille volti dell’eroe e di improvvisarsi ora Ulisse e ora Telemaco accompagnando suo padre (ora Ulisse e ora Laerte) in una doppia scoperta: dei luoghi letterari del libro (tòpoi) e dei luoghi geografici.

Le capacità di Daniel Mendelsohn come docente si scoprono pagina dopo pagina: egli maneggia la materia omerica con una padronanza che rassicura. Sappiamo chi controlla il timone, sappiamo che lo tiene ben saldo.
Allora è più facile prendere il mare e lasciarci guidare attraverso i mille torrenti che irrorano quel vasto continente che è il rapporto familiare, nella fattispecie quello della numerosa famiglia Mendelsohn, con particolare attenzione al rapporto fra Jay, il padre che è stato figlio, e Daniel, il figlio che si scopre padre.

Ma Mendelsohn è un grecista vero e così nel suo racconto non può fare a meno di inserire un coro.
Partito come narratore di epica, l’autore sfocia in una “tragedia greca” e si affida ai suoi “concittadini”, cioè agli studenti di fronte ai quali insegna e dai quali è giudicato.

Francesco Hayez 1814-15
Odisseo presso Alcinoo, si commuove al canto di Demodoco

Leggere il libro di Mendelsohn da docente di mitologia greca e romana in un college italiano per studenti americani è un’esperienza importante: mi ha permesso di ritrovare le stesse dinamiche che si ingenerano con i miei studenti. Mi ha fatto per lo più invidiare il professor Daniel, ma in alcuni casi ho riconosciuto nei suoi i miei allievi più sensibili. Ho avuto pertanto la conferma che è la materia stessa, questo mondo classico, la vastissima ricchezza dell’antica Grecia che riesce a sollecitare anche lo studente più esitante.
Il seminario sull’Odissea tenuto da Daniel Mendelsohn sembra davvero “l’occasione perfetta”, una benedizione per il docente che è messo in condizione di insegnare e imparare nello stesso tempo. Il coro degli studenti che partecipano al seminario lo tiene poi sempre sul “chi vive”: gli suggerisce riflessioni geniali, gli fa soprattutto vedere con occhi diversi il suo caro, vecchio, complicato padre. Soprattutto nella parte finale del romanzo si coglie che il professore si aspetta dai suoi ragazzi una chiave in più, infatti li interroga non solo durante i mesi del seminario, ma anche in quelli successivi, rileggendo le mail di feedback e ripensando alle conversazioni o alle battute scambiate in aula.

C.W. Eckerberg – La vendetta di Ulisse sui pretendenti di Penelope
1814

E poi c’è lei, l’Odissea. Uno dei libri che porto sempre con me se devo spostarmi per un lungo periodo (l’Erasmus a Salonicco, il semestre da docente a Poughkeepsie). L’Odissea disvelata dal professor Mendelsohn e dai suoi studenti è una esperienza resa attuale e avvincente. Se poteste aprire le porte di alcune aule, vi accorgereste di quanto sia stimolante cercare di rendere comprensibile e attuale il pensiero di uomini e donne vissuti quasi 3000 anni fa.
Quel che lo rende sorprendente è la lingua, un greco antico che per tanti liceali è un incubo, ma che in realtà è quanto di più magico, profondo, cangiante si possa volere in una lingua… morta (!) eppure sopravvivente in ogni nostra emozione.

Quindi, sì , L’Odissea di Daniel Mendelsohn deve essere letto da docenti e da discenti, semplicemente perché…è un viaggio bellissimo.

L’abbraccio tra Odisseo e Laerte
II secolo d.C.
Museo Barracco – Roma

Ma io l’ho letta anche da figlia, e nipote. Di due uomini che mi hanno lasciato ormai navigare da sola in questo mare color del vino e salato come le lacrime, piena di un carico di memorie archetipiche, di quelle che non ti abbandonano mai, anzi, si presentano quando più ne hai bisogno.
E allora è anche (e soprattutto?) con questo spirito che ho letto dell’avventura umana di Daniel (il figlio) e Jay (il padre).
Invidiandoli, comprendendoli a turno, in una parola “empatizzando” con le loro dinamiche di – stanchi – eroi.

https://www.theguardian.com/books/2017/sep/13/an-odyssey-a-father-a-son-and-an-epic-by-daniel-mendelsohn-review

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Il castello dei profili incrociati

Il recente educational tour cui ho partecipato in Salento, mi ha portato anche a Gallipoli e dentro il suo bellissimo castello.
L’accesso è coperto (argh!) dall’edificio del mercato che, in maniera direi sciagurata, fu eretto proprio di fronte al ponte levatoio nel 1870.
Una sorta di damnatio memoriae? Chi può dirlo.
Fatto sta che, di lì a poco, il castello divenne deposito di Sale e Tabacchi, sede della Dogana e poi della 17a Legione della Guardia di Finanza. Negli anni ’90 vi sono stati organizzati alcuni convegni e il Rivellino (il bastione allungato) ha ospitato il cinema all’aperto, ma solo quattro anni fa il monumento è stato completamente restituito alla comunità. L’opera della Società Orione è stata piuttosto complessa: bisognava innanzitutto ripulire, ripristinare quanto meno gli ambienti del castello e metterli in sicurezza.
Considerando i tempi e il budget, si è preferito concentrare le risorse sugli interventi necessari a rendere il monumento fruibile, ma – naturalmente – era necessario dare alla cittadinanza (e ai turisti) un motivo per visitarlo!

Parte della lapide che traccia la storia del commercio di olio lampante di Gallipoli.

Le prime stanze che si incontrano raccontano la storia del castello e il ruolo commerciale per il commercio di sale, tabacchi e soprattutto dell’olio lampante.
La lega dei bottai di Gallipoli elaborò infatti una tecnica per velocizzare l’assemblaggio di botti e queste servirono anche a trasportare un olio che sembra essere il vero oro liquido dei gallipolini: il suo viaggio più lungo raggiungeva Oslo ed è proprio con la capitale scandinava che la società Orione sta cercando di ripristinare – a scopo turistico, ma anche di ricerca – la rotta dell’olio!

Ma torniamo al castello: la storia di Gallipoli come avamposto del Regno delle Due Sicilie si avvale anche dell’opera di un ritrattista, Jacob Philipp Hackert. Egli è noto e apprezzato da vari regnanti del secolo dei Lumi, e Ferdinando di Borbone osserva interessato le sue vedute di Gallipoli proprio per studiare la popolazione e lo stato del castello. Ebbene, in una delle stanze al piano terra oggi leggiamo la storia di Hackert e i commenti di Goethe, suo biografo:

È un uomo dalle idee assai chiare ed acute, che lavora senza tregua, ma sa godersi la vita.*

Proprio per celebrare il pittore e il suo legame con il Sud e con Gallipoli, lo scorso anno è stata allestita una mostra raffinata e interessante, nella cosiddetta Sala ennagonale del castello: “I porti del Re”

Lasciamo ora le sale dedicate alla storia passata del castello e vediamo come è stato interpretato il ruolo del monumento nella Gallipoli contemporanea.
Nel 2015 Michelangelo Pistoletto ha scelto di installare nel cortile il suo “Terzo Paradiso”

e dopo il grande scalpore che ha fatto e la curiosità che ha suscitato, nel cortile è rimasta la sua “impronta” o “sindone”, come ricorda Raffaella Zizzari, l’architetto della Società Orione che cura gli allestimenti del castello.

Seguendo la “scia” di Pistoletto, ritroviamo la sua Venere degli stracci, allestita oggi nella sala ennagonale, che poi non è altro che una casa matta del castello. La Venere è circondata da un’altra installazione contemporanea: le serie di autoscatti che Clelia Patella ha fatto in musei e mostre in giro per il mondo, ritagliandosi ben più di 15 minuti di notorietà, addirittura un posto – photoshoppato – nella storia dell’arte contemporanea. Queste fotografie fanno parte della mostra temporanea che sta facendo furore oggi al castello: “#selfati al Castello di Gallipoli“.
Qual è il filo conduttore? Semplice, la voglia di esserci, sempre e comunque!
Il gioco è quindi attrarre il visitatore e spingerlo a farsi un selfie! Si possono utilizzare le installazioni nel cortile, dei grandi mascheroni/sedili, oppure le decorazioni luminose prese in prestito dalle sagre di paese, in un paio di stanze, poi, sono sistemate le copertine di famosi quotidiani a grandezza d’uomo, così che ci si possa fare una foto fingendoci parte della copertina stessa!

Eccomi con le mie compagne di avventura. Ognuna di noi ha trovato…l’ambiente giusto!
Antonia Falcone di Professione Archeologo è Cosmopolitan, Marina Lo Blundo di Maraina in viaggio è…Person of the year.

 

 

 

 

 

 

Ma forse quello che mi ha incuriosito di più è la stanza con il labirinto di specchi: mi ha inevitabilmente ricordato quel meraviglioso pezzo di letteratura che è “Il Minotauro” di Dürrenmatt. Il Minotauro è rinchiuso, per l’appunto, in un labirinto di specchi e danza con la sua immagine, in un misto di poesia e di orrore che raggiunge il culmine quando un’altra immagine di sé comincia a comparire sulla superficie lucida: è Teseo, che, per sorprendere il mostro, ha indossato una maschera di toro. La morte della creatura per mano di quello che credeva un magico fratello è quanto di più toccante abbia letto sull’argomento. Lo specchio e il labirinto come metafore della difficoltà, nel mondo di oggi, di rimanere da soli…

Ci sono poi alcuni schermi che catturano in tempo reale gli scatti condivisi online e taggati da #selfati

Lo Sciamano è quella figura stilizzata in alto a sinistra.

Ma attorno al gioco, la mostra offre interessanti spunti di riflessione: i curatori hanno infatti allestito due lunghe linee del tempo, per raccogliere i tanti esempi di artisti che hanno deciso di rappresentare il proprio volto o la propria persona, sia in autoritratti dichiarati, che inseriti “a tradimento” in qualche quadro famoso.
E chi comincia questo glorioso elenco se non uno… sciamano? Figura traghettatrice per antonomasia, il pittogramma interpretato come sciamano proviene dalla celebre Grotta dei Cervi, presso Otranto.

Insomma, sarà anche la prima mostra sul selfie, ma questa idea del Castello di Gallipoli è interessante anche per la prospettiva antropologica in cui mette la necessità di autorappresentazione.

L’occhio e l’obiettivo mi sono caduti su Botticelli e Dürer!

Ed ecco che, con una sola visita, mi sono ritrovata immersa in realtà lontane o semplicemente diverse: nel castello di Gallipoli si incrociano e si rincorrono le tante anime di questa cultura umana.

E in ognuna, in qualsiasi epoca, ritroviamo la necessità di far sentire la propria voce e di lasciare un’impronta che sia più significativa di quella dei nostri predecessori.

Quale profilo apriremo domani?

 

 

 

*J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Mondadori 2017, p.206.

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