Tutti per uno

La cultura è quella creatura strana che prende forma quando tutti ne parlano, ma resta invisibile se nessuno la menziona. Invisibile eppure presente. Ci impregna le vesti come una pioggia estiva, ci entra nelle narici come l’odore dell’erba appena tagliata…ma riuscite voi a descrivere la “forma” dell’acqua o di un odore?

Perciò a Prato, l’imponente chiesa di San Domenico è lì, presente e forse anche ingombrante, in un luogo della città che oggi è di passaggio, ma che intorno alla fine del ‘200 e agli inizi del ‘300 doveva essere uno dei punti più importanti presso le mura cittadine: uno di quelli strategici per chi volesse difendere la città e, di conseguenza, anche per chi la voleva conquistare. Eppure, oggi quella chiesa resta invisibile ai più: la sua funzione liturgica è invariata, ma la sua lunga e tribolata storia di baluardo religioso, politico e per alcuni versi militare, rimane ad aleggiare nell’antico chiostro, sotto gli archi del refettorio, nelle lunghe sale del primo piano, in mezzo alle fessure dell’alto campanile.

Crowdfunding

Un termine inglese ci mette di fronte a una responsabilità sociale: sei tu folla (crowd)? Hai tu qualche spicciolo da investire (fund)? Ebbene, contribuisci a realizzare un progetto culturale, nella fattispecie la riapertura degli spazi espositivi della Chiesa di San Domenico.

Il progetto è partito qualche mese fa e ha già raccolto il necessario per riaprire la sezione di Arte Sacra. Ora è la volta della sezione Archeologica e così la comunità, tutta, non solo degli abitanti di Prato, è invitata a partecipare alla raccolta dei fondi necessari. La cifra da raggiungere non è particolarmente alta, si tratta di 5ooo euro, ma l’idea di far partecipare i cittadini è quanto mai essenziale alla buona riuscita dell’operazione: San Domenico diventerà un museo della città!

Ecco qui il link alla pagina di crowdfunding.

Archeologia

Oggi è rimasto un quadrante con l’impostazione del vespaio.

La storia della sezione archeologica allestita a San Domenico è lunga quasi quanto la storia della chiesa stessa! Comincia nei lontani anni ’90 del secolo scorso e vede impegnati gli archeologi della Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Archeologia Medievale. Le indagini si concentrano nel campanile della chiesa, dove viene messo in luce il pavimento del sottotetto del coro, porzione su cui si impostava il campanile stesso, e ci si imbatte in una tecnica costruttiva estremamente raffinata. Vasi interi o in frammenti vengono infatti utilizzati per costituire un cosiddetto vespaio: quattro strati di cocci a comporre una base solida e allo stesso tempo naturalmente antisismica e funzionale, su cui impostare la struttura.

I cocci utilizzati sono vasi per lo più da mensa, ma anche recipienti per derrate alimentari; provengono sia da abitazioni che da fornaci, molti sono infatti scarti che non sarebbe stato possibile commercializzare. Dunque siamo di fronte a oggetti che hanno una seconda, se non una terza vita: l’economia del riuso ci si presenta nella sua migliore veste. Non solo, i cocci sono sistemati con una particolare accortezza, “tagliati” laddove si richieda necessario, e accompagnati da mattoni che servono a riempire gli spazi vuoti, in modo che il vespaio sia coeso.

Una tecnica simile è nota in età medievale, ma estremamente rara nelle documentazioni archeologiche: quello di San Domenico è il terzo caso documentato, che sia stato possibile scavare con precisione stratigrafica.

Un allestimento double-face

La sezione archeologica del Museo di San Domenico è perciò costituita dai cocci del vespaio, ai quali viene chiesto di parlare della vita medievale di Prato.

Una dopo l’altra si snodano le sezioni, nella prima vediamo una ricomposizione dello strato di cocci e mattoni, così come sono stati trovati.

Lungo uno dei corridoi del primo piano del chiostro si snoda una sorta di “catena di montaggio” della storia: la sistemazione dei cocci così come gli archeologi li hanno trovati; la identificazione delle forme dei singoli vasi e del loro ruolo nella mensa medievale; la tecnica ceramica che li caratterizza; la fornace che li ha prodotti o scartati.

Tornando indietro lungo lo stesso percorso, il visitatore può ripercorrere la vita del vaso dalla fornace fino all’impiego nel vespaio, che, come accennavamo, costituisce la sua seconda vita (in alcuni casi la terza).

Un percorso che prende forma mentre sullo sfondo compaiono i momenti salienti della città. Il campanile di San Domenico diventa dunque una sorta di caleidoscopio, attraverso il quale osserviamo attenti le vicende di Prato medievale.

Prato, una città e il Medioevo

La chiesa di San Domenico ricopre un ruolo non secondario nelle vicende della città di Prato tra la fine del XIII secolo e i primi decenni del successivo: in una selva di torre e campanili, quello di San Domenico – costruito a partire dal 1284 – svetta in modo tale da diventare un problema in tempo di guerra. Così, minacciati dall’assedio di Castruccio Castracani, i pratesi si vedono costretti ad accorciarlo. Quando, passato il rischio di una conquista lucchese, il campanile sarà ricostruito, ecco che le tecniche messe in opera saranno quelle attestate dai quattro strati di “vespaio”.

Nei cocci di San Domenico troviamo la più antica forma di orcio “a beccaccia”, una antica attestazione di “ceramica arcaica blu”, vasi traforati a freddo, bolli talmente particolari da non avere, a oggi, altro confronto. Un intero mondo di commercianti, mestieranti, carpentieri, è descritto in quel vespaio; il mondo dei signori è riflesso nei loro scarti.

Uno per tutti

Quando la sezione archeologica di San Domenico sarà aperta, questo diventerà un vero e proprio museo della città, dove sarà possibile avere un quadro generale e le indicazioni dei luoghi che ancora conservano tracce di un passato glorioso.

Partecipare al crowdfunding, dunque, è un modo per recuperare alla comunità la propria storia. Ecco il link:
https://www.eppela.com/it/projects/22899-riapriamo-il-museo-di-san-domenico?t=updates&fbclid=IwAR36EpDSlRdvC2ZqIaLgh1JS-yi1JFBY7Jbk_k23FcI3j7w7M8RbzqUu1fg

Ringrazio i Laboratori Archeologici San Gallo che mi hanno fatto conoscere questa realtà pratese e invito ad approfondire attraverso il post di Marina Lo Blundo, qui.

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Vola colomba

Quando gli dèi vogliono parlare con gli uomini, li raccolgono in luoghi particolari ed entrano in contatto con loro, nei modi più disparati.

Una doverosa premessa

I santuari oracolari dell’antica Grecia mi hanno sempre affascinato: alla canonica “separazione” (il temenos, cioè la cintura che distingueva il sacro dal profano) aggiungevano infatti il brivido della comunicazione diretta, di un contatto che serviva a rinnovare il patto tra divinità e umanità.

Durante gli studi classici ho compreso che il dio più generoso in questo senso era Apollo, a lui infatti erano dedicati numerosi santuari oracolari, primo tra tutti Delfi, e il figlio di Latona, in quanto dio della luce e dell’armonia, sembrava il più desideroso di illuminare gli esseri umani, facendo loro un dono che non avrebbero potuto rifiutare, un dono che spesso li consumava da dentro, il dono del vaticinio.

Teatro di Dodona (foto wikicommons)

Poi, un giorno, lessi di Dodona. Un santuario oracolare il cui fulcro era una quercia e il cui dio era Zeus! Quando mi ritrovai a visitare questo santuario epirota ne rimasi incantata: tutto, a Dodona, invita al dialogo con il dio. E se di Delfi ti colpisce la pietra possente e grigia, a Dodona è la natura verde a catturarti, avvolgerti e parlarti!

Dodonaios

Il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria ha inaugurato lo scorso marzo una mostra incentrata sulle interrogazioni magnogreche presso il santuario epirota. Una scelta raffinata e vincente, perché permette di inquadrare chiaramente non solo il funzionamento del santuario greco, ma anche la portata religiosa e politica che santuari di questo tipo avevano nel bacino mediterraneo.

L’allestimento è altamente suggestivo: mentre leggiamo i pannelli e osserviamo gli oggetti esposti, in sottofondo cinguettio di uccelli e stormire di fronde ci danno l’illusione di trovarci al cospetto del monte Tomaros e all’ombra della quercia sacra a Zeus. Il cartongesso riproduce il prospetto della hierà oikìa, l’ambiente sacro che gli archeologi identificano con il fulcro del culto, e la stessa quercia. I pannelli sono chiari e i reperti selezionati in modo da illustrare da una parte l’impostazione del culto, dall’altra i legami con “l’esterno”, cioè con comunità magnogreche che in mostra vengono rappresentate dalle laminette oracolari e da oggetti significativi provenienti dalle città stesse.

L’importanza di una mostra come questa si intuisce innanzitutto dalla ricchezza dei musei prestatori, tra i quali spicca ovviamente quello di Ioannina, sede della soprintendenza archeologica dell’Epiro, e diventa evidente quando sfogliamo il catalogo: una pubblicazione i cui contributi illustri mirano a ripercorrere le notizie intorno al santuario di Dodona. Troviamo riferimenti ai testi antichi, alle testimonianze dei viaggiatori sette-ottocenteschi, allo studio in età moderna, all’aspetto generale del santuario oracolare e particolare di quello di Dodona, basato su domande scritte che ci sono pervenute in tutta la loro romantica magia.

Ma quel che mi ha decisamente colpito è stato il filo diretto che i curatori della mostra hanno saputo stabilire tra Dodona e la Magna Grecia: sulle laminette ripiegate esposte a Reggio Calabria, nei testi pazientemente copiati, tradotti e commentati nel catalogo (e in un utilissimo sito online!), tocchiamo con mano l’importanza che il santuario di Dodona ha rivestito per la comunità greca (e non solo) d’oltremare.

Voci di donne

Ricostruzione dei lebeti su tripodi disposti tutt’intorno alla quercia a Dodona.

Il santuario della notte dei tempi; le fonti ci dicono che Dodona viene fondato dai Pelasgi, mitici abitanti della Grecia prima dei Greci. Di più, il nostro “padre della storia”, Erodoto, racconta di una filiazione diretta da Tebe d’Egitto: due colombe nere che portano nel mondo il volere di Zeus, una dà origine a Siwa e una arriva a Dodona.

Le colombe si stabiliscono tra i rami dell’alta quercia e cominciano a tubare le risposte di Zeus. Anzi, stando a una leggenda ancora più antica, è la quercia stessa che parla: Atena ne prenderà un frammento da innestare nell’albero maestro della Argo, permettendo così che la nave di Giasone comunichi direttamente con il capitano e l’equipaggio (chissà perché, ora mentre scrivo mi è venuto in mente un azzardato parallelo con Hal 9000).

Sono famosi i sacerdoti del santuario, ma quello di Dodona sembra un oracolo al femminile: il legame tra donna e oracolo, d’altronde, è solido, fin dai tempi di Delfi e della dragonessa che diventa Pythia, la vergine condannata a mettere in versi il pensiero di Apollo.

In questa loutrophoros apula Afrodite dà a Zeus un oggetto che può essergli utile nelle sue avventure amorose: una yinx! Come ci ricorda Teocrito, il suono stridulo accompagna la preparazione di una pozione d’amore.

A Dodona, l’oracolo femminile passa attraverso un volo d’uccello: ma il legame tra donna e volatile è ancora più antico, uno dei più ambigui e pericolosi. La donna-uccello per eccellenza, infatti, è la sirena omerica, ma è anche la yinx, il suono stridulo di chi cerca di mettere confusione nella mente e nel cuore dell’uomo. Di più, a Dodona l’aria è densa di suoni: fronde, colombe, bronzo. Quando non è Zeus a parlare, il bronzo di lebeti e tripodi viene percosso perché le vibrazioni propagate innervino di divino i cuori di chi le ascolta.

Ecco dunque la donna, l’uccello, il suono stridulo, l’oracolo: gli ingredienti di un incanto che può condizionare il presente e il futuro delle persone. Qui il dio dell’oracolo non è più Apollo, la sacerdotessa sembra affrancarsi dall’ambiguità del Lossia, e vivere e proliferare sotto la protezione del Padre degli dei, del dio altitonante, adunatore di nembi.

La colomba è per tradizione l’animale associato ad Afrodite; la figura di Dione, l’Oceanina madre di Afrodite, quintessenza della forza d’amore, giunge tardi nella mitologia del santuario epirota e vi arriva come sposa sacra di Zeus e insieme a lui venerata dai pellegrini. Con Dione prendono forma le sacerdotesse/colombe, le peleiai, inizialmente tre e poi due (numeri cabalistici anche per le sirene omeriche). Le donne, non poche, che chiedono lumi alla quercia e alle sue colombe, spesso cercano di sapere il nome del futuro sposo o il momento più propizio per il matrimonio.

A Dodona la donna greca riacquista la propria voce.

Esempio di laminetta iscritta ripiegata
(è un oggetto esposto in mostra, ma non corrisponde al testo riportato sotto,
che è invece relativo a un altro reperto, sempre in mostra)

Il dio. La buona fortuna. Razia domanda se potrà riappacificarsi con Teitykos finché costui è vivo

Una laminetta che si è supposto fosse scritta da una donna in merito a una divergenza con il marito.
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Anniversario di carta

Museo Archeologico di Firenze
Centauromachia

Durante i miei anni di studio di arte antica mi sono spesso imbattuta nella questione dei “cartoni”: come è possibile ritrovare Hylas e le ninfe nella stessa identica posizione su mosaici di epoche diverse? – Hanno usato uno stesso cartone; come possiamo spiegare la presenza di scene complesse, che spesso fuoriescono dal riquadro del vaso? – Devono fare riferimento a un dipinto di grandi dimensioni, i cartoni circolavano nelle botteghe; e così via.

Una volta completati gli studi fiorentini sono partita per quella che doveva essere l’avventura della mia vita, sia professionale che umana, e sono approdata alla Scuola (Italiana Archeologica) di Atene, triennio accademico 2002-2005.

Così, quando ho letto del nuovo allestimento che la Pinacoteca Ambrosiana preparava per il cartone di Raffaello de “La Scuola di Atene”, ho pensato che non avrei potuto perderlo per niente al mondo!

Il Museum

Tornerò alla Pinacoteca Ambrosiana: scoperta tardiva di un luogo meraviglioso, ricco del fascino della storia, che si suddivide tra i quadri e le architetture. Un vero labirinto di suggestioni, non per niente derivato dal sogno di “museum” (edificio delle Muse) di un uomo ispirato e di cultura, quale era Federico Borromeo.

L’allestimento del cartone di Raffaello è altamente suggestivo: una sala cui si accede tramite due scalini, che introducono in un’anticamera, dove lo schermo rettangolare che riproduce l’affresco ci divide dal monumento vero e proprio. Ci sediamo su una banchina che emerge nel buio, offrendoci la seduta comoda esattamente di fronte allo schermo: in rapida successione le immagini ci spiegano l’uso del cartone per gli affreschi e la composizione di quello di Raffaello. Poche parole (in italiano e in inglese) compaiono in calce, a guidarci, senza stancarci, attraverso le attribuzioni dei singoli personaggi.

Buio e silenzio, unica luce quella di Raffaello e del suo tratto a matita, che sulla fine del video diventa il colorato “santino” con cui i Musei Vaticani siglano l’obolo d’ingresso.

Il capolavoro

A questo punto siamo pronti: giriamo dietro lo schermo e ci appare lui, in tutto il suo mistico splendore.

Sono capitata in Pinacoteca un mercoledì di maggio e ho avuto in sorte di poter rimanere pressoché da sola di fronte all’opera di Raffaello. Questa della visita isolata è sicuramente una benedizione e ho potuto allenare l’occhio ai riccioli, ai profili, ai gesti, così sapientemente distribuiti su questa superficie estesa: l’agile approfondimento di don Alberto Rocca (corredato da splendide riproduzioni, edito da Electa) spiega la necessità di avere un cartone delle stesse dimensioni della parete da affrescare, proprio perché la tecnica pittorica richiede velocità di esecuzione. Nel caso della Scuola di Atene, poi, Raffaello utilizzò due cartoni: quello esposto è il primo, fatto perché fosse approvato da Giulio II, il papa che con gli artisti ebbe momenti abbastanza burrascosi; da questo cartone fu ricavato quello da utilizzare sulla parete degli appartamenti del papa.

Una repubblica di filosofi

Raffigurazione di uno studente.
Senza studenti, i filosofi non hanno motivo di esistere. In realtà, Raffaello inserì molte figure di uomini illustri a lui contemporanei (e anche un suo autoritratto).

Esaurita l’estasi estetica e la commozione personale, legata soprattutto al titolo della composizione, questo nuovo allestimento mi ha dato lo spunto per riflettere sul contenuto della scena (anche questo ampiamente commentato nella guida di Alberto Rocca).

L’affresco doveva servire a decorare la Stanza della Segnatura, di papa Giulio II, e la definizione di “Scuola di Atene” fu attribuita soltanto nel ‘600, un secolo dopo la consegna dell’opera. Intendeva mettere in risalto il fatto che su quella parete comparivano i principali artefici del pensiero filosofico greco, delle colonne portanti su cui Marsilio Ficino (anch’egli presente) aveva costruito il pensiero rinascimentale. Platone e Aristotele al centro sia intellettuale che architettonico della composizione sembravano suggellare questa lettura: Raffaello aveva voluto raccogliere il pensiero dell’uomo, la Filosofia nella sua più radicale accezione.

Uno studio del programma iconografico della Stanza della Segnatura ci presenta la parete filosofica come una delle fasi di preparazione alla Teologia: il vero messaggio prodotto dalla lettura iconologica di soffitto, pareti, lunette. Ma io mi soffermo di nuovo sulla parete dei filosofi e in questo giorno di festa della Repubblica Italiana non posso fare a meno di pensare all’utopia platonica.

Dunque è tra loro che l’autore della ‘Politeia‘ (lett. “la forma di governo”, tradotta in latino come “Res publica”) riconosceva gli spiriti più adatti alla gestione della politica cittadina. Nelle parole di Socrate/Platone c’è spazio perfino per la menzogna: che nelle parole dei governanti è un modo efficace per imporre la propria volontà sui cittadini. Una versione greca delle “fake news”? O del “segreto di Stato”. Per evitare di finire nel caos di una demo-crazia, i filosofi dello Stato platonico devono saper gestire al meglio la loro qualità migliore: la conoscenza della verità.

Un cartone consumato

Ma allora, seguendo il ragionamento platonico, diventa di estrema importanza la selezione di questi governanti: solo i filosofi più adatti potranno gestire al meglio la popolazione.

Oggi festeggiamo il 73esimo anno di Repubblica Italiana: a che punto siamo arrivati? Quale direzione stiamo prendendo? Il cartone è sempre quello, ciò che cambia è il nostro modo di leggerlo: sembra che anno dopo anno dimentichiamo progressivamente a cosa corrisponde ogni singola figura. Non sappiamo più riconoscere la solidarietà sociale, né il rispetto delle istituzioni, così come diventa priva di significato la figura principale, quella della nostra Costituzione.

Da “Una vita difficile” di Dino Risi (1961)

Forse è giunto il momento di prendere una decisione: cambiamo cartone oppure scegliamo un “allestimento” che ci faccia recuperare la conoscenza delle nostre fondamenta?

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Il museo in piazza

Ecco il panorama sul retro (!) del Museo Archeologico di Reggio Calabria

Ci sono luoghi della cultura che ci sorprendono per la loro bellezza, altri per la ricchezza, altri ancora per la longevità della loro storia, e così via. La cultura è spesso percepita come qualcosa di lontano ed elitario, ma nella realtà è quanto di più popolare e linfa che innerva qualunque aspetto della nostra vita: siamo noi che facciamo cultura, quotidianamente, da migliaia di anni.

Il museo archeologico dovrebbe servire a “spiegarci” alcuni aspetti di questa cultura-di-tutti e darci gli strumenti per comprendere passaggi storici, a volte complessi, contesti economici e produzioni artistiche.

La città e il suo museo

Immagine della piazza interna da
https://bit.ly/30UJ2HZ

Nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, non appena varchiamo la soglia, ci ritroviamo in piazza Paolo Orsi: dalla piazza cittadina, Piazza de Nava, a quella racchiusa tra le mura del Museo Archeologico della Magna Grecia. Una soluzione simile, di piazza interna al museo l’avevo già notata a Palermo, ma qui mi ha colpito di più, perché ho avvertito chiaramente il collegamento diretto tra città e istituzione culturale. Il personaggio a cui è dedicata la piazza è quello stesso Paolo Orsi che ha letteralmente (ri)costruito i centri indigeni della Magna Grecia e della Sicilia e ha intessuto la complessa rete di relazioni tra Greci e popolazioni indigene dell’Italìa e della Sikelìa. Allo spirito di questo esploratore, indagatore del passato, studioso intuitivo ed estremamente fecondo, dobbiamo davvero moltissimo, soprattutto della conoscenza della storia antica della nostra Penisola e quindi a lui troviamo dedicato, ad esempio, il Museo Archeologico di Siracusa. Ma a Reggio Calabria Paolo Orsi ha lasciato qualcosa di più: l’orgoglio del passato; attraverso la costruzione di un Museo Nazionale che racchiudesse tutto il passato calabrese, così che fosse ben chiaro ciò che i Greci avevano trovato, i legami che avevano stretto con le popolazioni locali e gli sviluppi di questo incontro di culture.

Il museo e i suoi gioielli

Quando, nel 1972, l’ormai celebre Mariottini emerse dalle acque di fronte a Riace con la notizia del secolo, le sorti del Museo Archeologico della Magna Grecia sembrarono segnate: sarebbe diventato l’involucro dei due atleti (?) recuperati dal mare, due aspetti di un Mosè laico (forse) sicuramente greco e miracoloso. I Bronzi di Riace hanno così monopolizzato la visita del museo archeologico e dunque anche condizionato il finanziamento di restauri e ammodernamenti della struttura. Ma con l’arrivo del nuovo Direttore, Carmelo Malacrino, l’istituzione museale sembra aver recuperato lo spirito di Paolo Orsi. Non solo è a lui che si deve l’istituzione della “piazza” interna al museo, Malacrino e il suo staff hanno ripensato il Museo come luogo in cui raccontare lo sviluppo storico dei centri indigeni e poi il loro incontro con i Greci. Lo fanno sia attraverso il percorso museale, sia attraverso le numerose mostre tematiche che, nel repentino avvicendarsi, rendono sempre “nuova” la visita del Museo.

In questa nuova narrazione, i Bronzi di Riace diventano personaggi eminenti, ma non unici protagonisti: la vera protagonista è la Storia, che attraversa centri abitati e santuari e crea luoghi di grande vivacità culturale, come Locri e il culto di Kore/Persefone, il vero e proprio filo rosso della esposizione museale.

Percorsi

Armi e utensili maschili dell’Età del Ferro

Il visitatore comincia a esplorare il Museo dall’ultimo piano (una soluzione che già mi aveva colpito a Taranto) e livello dopo livello viene condotto dalla Preistoria alle varie fasi degli insediamenti indigeni, fino all’arrivo dei Greci. Alla spiegazione tematica (casa, moneta, tomba, tempio) si alterna quella topografica (ad esempio il Santuario della Mannella, a Locri) e veniamo condotti per mano ad ammirare alcuni tra i capolavori dell’arte indigena e magnogreca.

La città

Alla fine del percorso regionale giungiamo a una ricca sezione che raccoglie le testimonianze archeologiche di Reggio Calabria. Complete di riferimenti letterari e suddivise tra le varie fasi cronologiche fino all’epoca romana, incredibilmente ricca di monumenti.

E i Bronzi? Certo, ci sono anche loro! Ci hanno aspettato durante la nostra discesa: li troviamo in una stanza dedicata, che si raggiunge dalla sezione cittadina e che, guarda un po’, è situata esattamente al di là della piazza Paolo Orsi, ma separata da questa da una tenda (un sipario?). Il percorso è così ricostituito: piazza cittadina – piazza museale – spiazzo dei Bronzi.

Ma nel frattempo ci siamo innamorati di un’intera regione e dei molti popoli che l’hanno resa ricca e splendida ed emozionante, attraverso i secoli.

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