Un palazzo in mostra – scena terza

Esco dalla esperienza coinvolgente del Meraviglioso mondo della Natura, e mi dirigo verso la mostra-evento: “Leonardo. La macchina dell’immaginazione”.

L’ingresso introduce curatori d’eccezione come la Fondazione Treccani: un immediato imprimatur di ricercatezza, raffinatezza e affidabilità. Accanto, una dettagliata spiegazione del concept delle installazioni e del loro funzionamento, a cura dello Studio Azzurro.

Tre sale, non di più, all’interno delle quali sono disposte installazioni in legno e tela: sono forse queste le “macchine” di Leonardo? Così sembra, ma contengono una sorpresa: di fronte alla tela bianca è disposto un leggio, con parole tratte dagli studi di Leonardo, e al di sopra di questo è sospeso un microfono. Il visitatore sceglie una parola e la pronuncia a voce alta a favore di microfono, così da far scattare la proiezione di immagini tratte dai manoscritti, un sottofondo adeguato al tema trattato, e una voce narrante che legge la definizione o il pensiero legato al termine scelto.

Alle pareti pochi brevi pannelli illustrano ulteriormente alcuni aspetti trattati nella mostra.

Nell’ultima sala vi è un lungo tavolo in legno, definito “tavolo anatomico”, su cui sono disposti frammenti di statue in gesso che riproducono le parti del corpo umano. Qui, invece di un microfono, una torcia pende sospesa e il visitatore non deve fare altro che indirizzarla a illuminare l’arto o l’organo di cui vogliamo ascoltare la definizione leonardesca.

Completa il viaggio nell’immaginario di Leonardo un quadro di cui siamo chiamati a osservare il più minimo dettaglio, con tanto di animazione del paesaggio.

Nella mostra si ripercorrono tutti i temi cari al geniale umanista: dal vivere sociale, alla guerra, alla libertà, al viaggio, alla tecnica pittorica applicata soprattutto alla natura.

Agile e intrigante, per il modo così particolare di interagire con l’oggetto esposto.

Anche questa è visitabile fino al 14 luglio.

Se volete fare l’esperienza di tre mostre in un giorno, ecco i link alle altre due, sempre a Palazzo Reale: Ingres e Orfeo

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Un palazzo in mostra – scena seconda

Esco dalla mostra con l’insoddisfazione di chi non è riuscito a fermare i particolari (non sono ammesse fotografie), ma anche con gli occhi colmi di sguardi, corpi, dettagli preziosi, capelli ribelli, volti esigenti.

Dove dirigerò i miei passi?

Mi attrae il titolo “Il meraviglioso mondo della natura: una favola tra arte, mito e scienza”

La mostra comincia in modo spiazzante: la scritta “gatto morto” (!) campeggia infatti sul fianco di un vetrina, ma si scopre presto che è solo uno dei tanti giochi illusionistici che serviranno a spiegare i modi e le maniere di illustrare la natura (animale e vegetale) in manoscritti e quadri famosi. Dal gatto (vivo) di Leonardo alla scimmia di Dürer: un video dettagliato e divertente ci guida attraverso continui rimandi lungo il percorso a volte tortuoso seguito da animali più o meno esotici, ritratti a partire dal ‘300 fino a tutto il ‘500.

Orfeo allo specchio

Si giunge così alla seconda parte: la ricostruzione della sala dedicata a Orfeo di Palazzo Verri.

Attraversiamo le sale del Palazzo Reale e ci ritroviamo nel Salone delle Cariatidi: un luogo storicamente importante e architettonicamente impressionante, perché le signore colonnate che danno il nome alla sala sono alternate a enormi specchi.

Oggi, nella penombra richiesta dalle esposizioni temporanee, le Cariatidi sono una presenza più discreta, mentre le superfici macchiate degli antichi specchi conferiscono alla scena un tocco di esoterismo.

Nell’aria risuonano versi di animali, l’ambiente è opportunamente rinfrescato, io vago, sempre più Alice, ed entro in una sorta di quinta teatrale: una sala intera è ricostruita all’interno del Salone delle Cariatidi, si tratta della stanza dedicata al Ciclo di Orfeo, così come era allestita nel secentesco Palazzo Verri.

L’autore delle tele è un pittore di Danzica, Pandolfo Reschi, con l’aiuto di un pittore belga, Livio Mehus. Manco a farlo apposta, Reschi è naturalizzato fiorentino e in effetti la decorazione del palazzo milanese deve molto al Granducato!

Entro nella sala e rimango colpita dalle dimensioni dell’opera: tre pareti sono completamente ricoperte dalla scena più classica di un Orfeo intento a suonare, circondato da animali. Tuttavia il mio primo pensiero va alla penombra che ingoia tutto e che impedisce una visione chiara. Mentre sono sul punto di uscire, infastidita quasi dallo sforzo richiestomi per individuare le figure…ecco che alle mie spalle spunta una luce, che piano piano si alza e comincia a inondare la sala. La quarta parete riproduce infatti le finestre presenti nella sala di Palazzo Verri e gli allestitori hanno pensato di ricreare in modo estremamente accurato l’ambiente originario del ciclo di Orfeo: completo della luce che, nell’arco della giornata, ne illuminava le diverse porzioni.

Un’esperienza bellissima! Dove la natura che circonda il cantore tracio sembra risvegliarsi man mano che è colpita dalla luce!

Accanto al box con la ricostruzione della sala, eccone un altro, delle stesse dimensioni, pieno di …animali impagliati! Si tratta dei 165 esemplari presenti nelle tele e che i curatori della mostra hanno voluto proporre in tridimensione, utilizzando la collezione del Museo di Storia Naturale e dell’Acquario e Civica Stazione Idrobiologica di Milano.

Impressionante, in tutti i sensi. Ogni animale è illustrato con una scheda dettagliata che viene proiettata a ciclo continuo sulle pareti del box.

Una interessante iniziativa vi aspetta al ricco bookshop!

Una mostra che mi ha sorpreso per originalità e che ha stimolato molta curiosità.

Visitabile fino al 14 luglio.

Se volete provare a visitare tre mostre in un colpo solo, ecco i link agli altri due allestimenti di Palazzo Reale: Ingres e Leonardo.

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Un palazzo in mostra – scena prima

In un caldo mercoledì di maggio ho indossato la mia migliore faccia da Alice nel Paese delle Meraviglie e ho varcato la soglia del Palazzo Reale di Milano, pronta a perdermi nelle sue sale.

Il lungo banco del primo piano accoglie i visitatori con volti sorridenti e tre distinte casse: tre mostre, tre temi, tre bigliettazioni. A destra e a sinistra si aprono le porte, che, come nel più classico dei giochi di ruolo, ci conducono verso tre mondi distinti e ci chiedono di praticare una scelta radicale.

Io, però, sono Alice-per-un-giorno, perciò scelgo solo da cosa cominciare, ma so già che mi avventurerò dappertutto!

Alla corte di Napoleone

Ingres è il motore che mi ha fatto giungere fino a Milano: adoro le atmosfere di questo pittore e ancora di più le sue donne, mai eteree, anzi solide e “tornite”, non rubensiane, ma voluminose quel tanto che basta a farle protagoniste indiscusse del quadro.

Dunque Ingres, ma non da solo: David e Fabre, Girodet e Le Brun. Davanti ai miei occhi sfilano le promesse della pittura francese: alcuni ancora giovani, altri già riconoscibili e riconosciuti. Accomunati tutti dallo spirito rivoluzionario eppure tutti coordinati attorno al nuovo potere, il potere dell’homo novus.


Jean-Auguste Dominic Ingres
Napoleone sul trono imperiale (1806)
Foto da Wikicommons perché, ahimé, in mostra non sono ammesse fotografie…

E infatti il fulcro dell’intera mostra è lui, Napoleone: che ci guarda sornione dall’enorme ritratto, incastonato in una sala scura e circondato dai numerosi bozzetti preparatori. Napoleone, il committente di molti dei quadri in mostra, tra cui “Il sogno di Occam”, che doveva ispirare le notti del condottiero, posto sul soffitto della sua camera da letto. Napoleone, il soggetto dei quadri che testimoniavano l’impresa del valico delle Alpi quasi che seguissero un moderno Annibale, oppure – in maniera forse ancora più calzante – un Alessandro Magno impegnato sul fronte Occidentale. La mostra milanese ambisce a ricreare un’époque, e un circolo artistico che a me, Alice in salsa antica, ha ricordato da vicino Augusto, Mecenate e i poetae novi della Roma del I secolo a.C.: quelli che furono chiamati a ritrarre e cantare chi si presentava come speranza di rinnovamento e invece preparava il terreno a un potere assoluto e spesso autodistruttivo.

Una mostra godibile, carezzevole come un morbido velluto; permette di ricreare lo spirito di un’epoca in cui tutto era ancora possibile.

La mostra è aperta fino al 23 giugno! Affrettatevi!

Se volete provare a visitare tre mostre in un giorno solo, ecco i link agli altri due allestimenti di Palazzo Reale: Orfeo e Leonardo.

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Una storia d’amore

Ho letto “Arruina”, anzi l’ho masticato.

Prologo

Ho cominciato a leggerlo pensando di trovarmi di fronte a una valanga di parole “solide“, quelle che scrocchiano sotto i denti mentre le leggi, tanto da spingerti a rileggerle ad alta voce. Così infatti era stato presentato da Edoardo Rialti e Bernardo Pacini in un bel pomeriggio fiorentino a L’Ora Blu, in viale dei Mille. Dopo quell’incontro avevo parlato con l’autore, Francesco Iannone, trovandomi di fronte un ragazzo, padre di tre figli, poeta per vocazione e insegnante di storia dell’arte per destino; con il titolo del Saggiatore si stava affacciando per la prima volta al mondo del romanzo, ma aveva già al suo attivo diverse pubblicazioni di poesia. Nato in un paesino in provincia di Salerno, dopo poche parole abbiamo abbattuto qualche grado di separazione: è infatti un frequentatore della Casa della Poesia di Baronissi, di cui io ho avuto il piacere di conoscere i fondatori, e conosce la libreria del Vomero “Io ci sto“, luogo da me conosciuto, di nuovo attraverso uno dei fondatori.

Bene, questo è stato lo spirito con cui mi sono accostata al romanzo: la conoscenza con l’autore, un sostrato brulicante di persone. Ma anche l’idea di trovarvi delle figure mitologiche, nel senso di prodotte da un mito/folklore/tradizione cui Francesco ha attinto a piene mani, come in un sacchetto di fagioli affondare le mani e ritirarle stracolme di legumi.

Una storia narrata

Comincio a leggere e comprendo subito che i due presentatori si sono dimenticati di dire una cosa fondamentale: Arruina è una storia d’amore. Ci sono un lui, una lei, e la loro bambina. Il racconto è in prima persona nella voce del padre: la bambina è stata rapita e loro la devono ritrovare. Non c’è niente da fare, è più forte di me: ho dovuto immaginare cosa celasse la complessa metafora e ho elaborato una mia personale lettura degli eventi. Nella mia interpretazione, la bimba è nata con un qualche problema e deve restare in incubatrice fino a quando la sua situazione non sarà stabilizzata. Il finale è lieto, lo dico già.

Ma Arruina è un viaggio che toglie il fiato.

Da piccola andavo regolarmente dall’oculista: noi bambini eravamo una miope e l’altro ipermetrope, perciò bisognava porre rimedio al peggiorare della nostra vista. L’oculista ci metteva un paio di occhiali di metallo e inseriva lenti di gradazioni diverse fino a quando non azzeccava quella che ci faceva leggere correttamente il tabellone. Ecco, leggere Arruina mi ha ricordato i momenti in cui le lenti erano troppo forti e io non riuscivo a mettere a fuoco, fino a quando compariva all’improvviso la lettera agognata, perché finalmente la lente era quella della gradazione giusta.

Così nel romanzo vengo travolta da un turbinio di parole e suoni che sembrano “troppo”, sono “troppo”, mi sovrastano, mi creano un’oppressione al petto, mi lasciano una smorfia sul viso, fino a quando non compaiono alcune frasi “normali” che permettono di seguire il filo della storia.

La storia

Anni fa ho letto la saga di Malaussène e uno dei volumi mi è rimasto particolarmente caro: in “Signor Malaussène” il protagonista e la sua compagna, Julie Corrençon, sono vittima di un pazzo. Julie entra in coma e quando si risveglia non ha più il feto che portava in grembo. Non svelo i dettagli, dico solo che alla fine il bambino nascerà, ma la seconda parte del romanzo racconta il modo che Julie ha di affrontare il dolore dell’aborto (questo pensa infatti che sia accaduto mentre era in coma): Julie e Malaussène partono con un camper per un tour dei luoghi del Vercors, a lei molto cari; la donna decide di insegnare al compagno a riconoscere i vini coltivati nelle campagne della sua infanzia. Il tutto viene raccontato da un Malaussène annientato dal dolore, esattamente come Julie, eppure affascinato dall’energia della sua donna e dal dolore di lei, che viene elaborato in modo così originale e rabbioso e pieno – in qualche modo – di vita.

Anche il protagonista di Arruina racconta lo smarrimento suo e il dolore e la rabbia della compagna: nelle parole di lui ella è forte, combattiva, intelligente, estremamente determinata nel riavere la figlia, la Sperduta.

Creature del mito

Edward Burne-Jones: nel suo ciclo su Perseo le Graie sono meravigliose.

Ci sono tanti personaggi che accompagnano i due, che li ostacolano, che li aiutano. Le Nerissime sono le rapitrici: mi hanno fatto pensare alle Graie di Perseo, vecchie che si scambiano un unico occhio e un unico dente, nel mio immaginario erano sempre orrende, sporche, sgradevoli. Le Ianare sono le creature che indicano la via, ma lo fanno mettendo paura e angoscia, per questo ho pensato alle Erinni, a una qualche forza ineluttabile che ti porta là dove il destino ti attende, ma lo fa provocando grande dolore. Ci sono personaggi che servono a suggerire quale strada prendere, ma lo fanno sempre controvoglia: in realtà hanno bisogno di parlare del proprio dolore e solo in seconda battuta aiuteranno la coppia di genitori. Tutti, infatti, si ritrovano a Roccagloriosa, dove entreranno per trovare finalmente un po’ di pace…sono forse altri pazienti dell’ospedale dove è ricoverata la bambina? (la mia necessità di razionalizzare prende nuovamente il sopravvento e mi ricordo delle vite incrociate venti anni fa, quando aspettavamo ansiosi che mio zio uscisse dalla rianimazione dopo il trapianto di cuore)

Forse solo Hieronymus Bosch può aiutare a raffigurare i bambini che compaiono durante tutto il racconto: esseri sfigurati, membra staccate e riassemblate senza criterio, anime nere.

Virgilio

Poi c’è il Poeta: l’unico che sembra voler davvero aiutare la coppia. Ma il poeta vive in un tugurio insieme alla Grande Madre, che, fuor di metafora, io interpreto come la Terra. Una Terra martoriata, perché, non dimentichiamolo, ci troviamo pur sempre sotto il Vesuvio, nei Campi Flegrei, nella regione delle frane e degli sversamenti mefitici. Tutti quei liquami, tutte le descrizioni putrescenti, sembrano ora un grido di allarme e una denuncia. Ma il Poeta è intenzionato ad aiutare e io non posso fare a meno di rivedere in lui, nella sua sincerità, il sorriso di Francesco, dell’autore, del poeta.

La magia

Parlando con Francesco, il giorno della presentazione, gli ricordavo che la terra di Napoli ha adottato il poeta di Mantova, Virgilio appunto, fino a trasformarlo, in età già tardoantica e poi medievale, in un mago: quello che, stando alla leggenda, avrebbe messo un uovo nelle fondamenta del castello sul mare, per garantire prosperità all’intera città. Ebbene, alla fine del racconto il miracolo si compie, ma la vera magia è nella potenza della parola.

La parola ha accompagnato i due genitori, li ha sostenuti nel momento più oscuro, li ha invasi con tutta la sua portata di dolore, di lezzo, di lordura, di buio: ha permesso a lui di esprimere il più piccolo sentimento e a lei di urlare tutta la sua rabbia. La parola ha descritto in ogni dettaglio la schifezza che è vivere senza la figlia, perché te l’hanno portata via. Aggrappati alle parole sono giunti a Roccagloriosa e hanno affrontato le Nerissime.

Epilogo

Non ci sono più parole, ora, non c’è più buio. C’è solo luce, accecante e che rende indistinti i caratteri del futuro, una storia ancora da scrivere.

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