La bambina che attendeva il solstizio

Questa è una fiaba, oppure una storia inventata una sera di dicembre, da chi aveva il cuore troppo pieno di fantasie.

C’era una volta una bambina dai capelli scuri e dagli occhi grandi, con il viso attaccato alla finestra della sua stanza. La punta del naso si era già raffreddata e le guance cominciavano a congelarsi piano piano, mentre il fiato formava un alone rotondo sulla superficie della finestra. La bambina aveva deciso che avrebbe aspettato alzata il momento del solstizio.

Le era stato spiegato che si trattava di un passaggio – da una stagione all’altra, dall’autunno all’inverno – e che in quel momento si compiva un mistero grandissimo, il mistero della rinascita cosmica. Aveva anche chiesto il significato di un nome così particolare come “solstizio” e le era stato risposto che si trattava del fermarsi del sole. Noncurante delle implicazioni anche più terribili del concetto di “rinascita cosmica”, la bambina aveva deciso di credere supinamente alla spiegazione del sole fermo.

Perciò aveva scelto un punto da cui l’osservazione del sole sarebbe avvenuta senza intralci: la sua stanzetta, orientata verso Ovest. Comunicata la risoluzione, sua madre le aveva fatto presente che – tecnicamente – il momento di solstizio si sarebbe verificato in piena notte (!) e questo, beh, questo ci aveva messo un po’ a capirlo e accettarlo. Aveva perciò preso un foglio bianco, di quelli un poco ruvidi che suo padre teneva entro album rilegati in cuoio rosso, in uno dei lunghi cassetti della scrivania. Poi aveva aperto la scatola di velluto sistemata sul ripiano della medesima scrivania e aveva estratto un giallo, due marrone, un verde e un blu: ritrarre l’affascinante dio non era stato difficile, suo padre ne aveva appeso un’immagine sfolgorante al di sopra del pianoforte, diceva che gli serviva da ispirazione quando si decideva a comporre.

Luca Giordano 1685

Apollo sul carro solare, un disegno iperrealistico che la avrebbe aiutata a immaginare meglio. Era sempre così, ogniqualvolta voleva giocare a “quasi vero”, sua occupazione preferita, doveva prima disegnare i protagonisti e poi buttarsi anima e corpo in una creazione mentale che le faceva abbandonare temporaneamente l’io cosciente e permetteva a una versione di lei, assolutamente incorporea, di incontrarsi con quegli amici immaginari e vivere avventure senza limiti e confini.

Ora, insieme ad Apollo che le sorrideva dal foglio, aveva deciso di attendere l’evento e di guardare con i grandi occhi neri fuori dalla finestra. Due occhi che fissano la notte. Brillano di curiosità e di emozione, eccitati dall’immaginazione.

Cosa fissano, nella notte buia?

Un campo di stelle scintillanti.

Un lampo di metallo che guizza improvviso

Un muggito strozzato che sembra nascere dalle viscere della terra

Un battito d’ali nere e un gracchiare di corvo

Due fuochi fatui, fiaccole che illuminano per un momento lo sguardo atterrito del toro

Mitreo di Marino – II sec. d.C.
https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Fresque_Mithraeum_Marino.jpg

Finalmente lo scorge, è solo un ragazzo! Ma non guida un carro, non ha la chioma bionda. Solo un ragazzo, coperto del sangue del toro.

La bambina sa di aver assistito a una cosa mirabile, e i suoi grandi occhi, ormai abituati al buio, cominciano a vedere i contorni di una caverna, il luogo in cui tutto ha avuto compimento. La bambina è consapevole della sua responsabilità, come testimone. Sa che da oggi e per l’intera sua vita i suoi occhi si poseranno su tutto ciò che è opportuno ricordare, ma che spesso è troppo doloroso vedere.

Per l’intera sua vita. Per 28 lunghi giorni.

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Delle tre melarance che tu divenga amante

La Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea (Ct) è un appuntamento che ormai mi appartiene: per ben tre anni di seguito sono stata invitata, inizialmente come testimone di un certo tipo di comunicazione culturale e poi come testimone della Rassegna stessa. Con gli occhi di un’Alice consapevole, ho attraversato i luoghi della manifestazione e ho cercato di raccontarli attraverso immagini e riflessioni.

Quest’anno la mia curiosità ha cominciato ad alimentarsi già all’interno della ex chiesa di San Benedetto e Santa Chiara, che accoglie la manifestazione. Un luogo di per sé affascinante, con i candidi stucchi tra le macchie annerite del soffitto, che quest’anno ha ospitato una mostra di costumi scenici, curata da Ariana Talio e dall’Archeoclub di Licodia Eubea, da sempre attento a utilizzare gli spazi della ex chiesa per iniziative culturali di spessore.

Con “Abitare il racconto”, Ariana Talio ha voluto esporre i costumi da lei creati per un allestimento de “L’Amore delle tre melarance”, settecentesca trasposizione teatrale a firma di Carlo Gozzi.

Io sono cresciuta con le “Fiabe italiane” raccolte da Italo Calvino e le tre melarance sono un ricordo indelebile, quasi quanto l’espressione “bianca come il latte, rossa come il sangue”: nella mia mente prende forma all’istante l’immagine di un vecchio albero frondoso, una fonte in pietra, rigorosamente circolare, e infine ragazze esili e bianchissime, dai lunghi capelli e dalle labbra vermiglie. I ricordi si confondono quando si tratta di ricostruire la trama della favola e la spiegazione è semplice: quelli appena menzionati sono gli ingredienti di molti racconti del folklore italiano. I costumi di Ariana Talio mi hanno dato l’opportunità di fare un po’ di ordine nella mia memoria…

A volte mi diverte il pensiero che le favole siano state – e continuino a essere – catalogate: sembra quasi di vedere un grosso mobile in legno scuro, pieno di cassetti nei quali troviamo riferimenti a temi che, combinati in infiniti modi, danno vita a infiniti racconti. Così accade per le tre melarance, eppure la versione di Gozzi ha una genesi ben precisa: il nobile poeta veneziano spiega nei minimi dettagli che la sua favola teatrale è la risposta – per le rime, è il caso di dirlo – alla supponenza di commediografi come Pietro Chiari e Carlo Goldoni, i quali pretendono di far divertire il pubblico portando in scena episodi del quotidiano, grossolani e scostumati, come se solo la rappresentazione della realtà potesse interessare chi frequenta i teatri. Carlo Gozzi vuole dimostrare che il pubblico si diverte a seguire “fiabe fanciullesche” e trame immaginifiche, piene di “maraviglie”.

Così, nella seconda metà del Settecento, Gozzi sforna una serie di opere teatrali che prendono spunto dalle raccolte di Basile o da racconti folklorici diffusi nell’area veneta. La versione di Gozzi acquista una popolarità immediata e diventa un “classico”, cui altri autori attingeranno a piene mani nel corso del successivo secolo romantico: la Turandot di Puccini è debitrice dell’opera gozziana del 1762 e Prokofiev nel 1921 metterà in scena una variante dell’Amore delle tre melarance del Gozzi.

Dettaglio di uno dei costumi, foto di Gregorio Giarrusso.

La versione di Carlo

Carlo Gozzi pubblica un commento ragionato della prima rappresentazione, addì 25 gennaio 1761, quando coinvolse la compagnia teatrale di Antonio Sacchi, già coautore di Goldoni: i teatranti sono esperti improvvisatori di canovacci e all’autore è sufficiente dare loro gli appunti essenziali su come dovrà svolgersi la trama. Tra i protagonisti troviamo la Fata Morgana e il Mago Celio, metaforicamente simboleggianti Pietro Chiari e Goldoni, cioè imbonitori che, ognuno con il suo stile, cercano di sviare il giudizio del pubblico. A Gozzi resta il compito di far divertire con i lazzi della commedia dell’arte e attingendo a piene mani ai racconti delle nonne, cioè a trame che chi assiste allo spettacolo conosce bene, fin da bambino, per cui, tolte le sorprese dell’esito dell’azione, si conserva intatta la voglia di farsi meravigliare:

Aprivasi la scena al cortile del castello di Creonta. Ebbi occasione di conoscere, all’apritura di questa scena con degli oggetti affatto ridicoli, la gran forza che ha ‘l mirabile sull’umanità. Un portone fatto a cancello di ferro nel fondo, un cane affamato, che ululava, e passeggiava, un pozzo con uno viluppo di corda appresso, una fornaia, che spazzava il forno con due lunghissime poppe, tenevano tutto il teatro in un silenzio e in un’attenzione nulla minor di quella ch’ebbero le migliori scene dell’opera de’ nostri due poeti [Chiari e Goldoni]

Carlo Gozzi, Analisi riflessiva della fiaba L’Amore delle tre melarance, in “Racconti di orchi, di fate e di streghe”,
I Meridiani, p. 392.

Melarance e Melagrane

Il racconto inserito nella raccolta di Calvino è intitolato “L’Amore delle tre melagrane” e Calvino stesso traccia, nell’apparato critico, la serie di filiazioni che hanno presumibilmente portato alla versione abruzzese della storia, quella a cui lui fa riferimento. Dunque, “noce, nocciola, castagna, cocomeri, cedri, aranci, mele, melangole, melarance, melagrane”, frutti diversi a seconda del luogo di diffusione della storia, ciò che rimane invariato è il nucleo del racconto: un principe deride una anziana donna, questa si scopre essere una potente strega che lancia una maledizione, il principe è così condannato a struggersi d’amore per tre melarance. Una volta trovate le melarance, il principe deve stare ben attento ad aprirle vicino a una fonte d’acqua: dai frutti escono infatti ragazze bellissime che muoiono di sete. Due non vengono soccorse in tempo, la terza invece sopravvive perché il principe è riuscito a bagnarla prima che fosse troppo tardi. Quindi il ragazzo si allontana per andarle a prendere abiti adatti a una principessa e la strega approfitta per operare una scellerata sostituzione: infilza la testa della fanciulla con uno spillone e questa si trasforma (in colomba o in altro essere, a seconda della versione della storia), al suo posto viene messa una ragazza brutta, solitamente “turca” o “saracina”, e al suo ritorno il principe viene convinto del fatto che si tratti della stessa principessa che lui aveva lasciato “bianca come il latte e rossa come il sangue”. A malincuore il giovane porta al castello la promessa sposa, ma – e qui il racconto può allungarsi notevolmente – un caso fortuito permette alla ragazza della melarancia di riprendere il suo aspetto: vivono tutti felici e contenti, non prima di aver punito atrocemente la mora impostora.

O mythos deloi

Il costume della principessa trasformata in colomba.
Foto di Gregorio Giarrusso.

La versione di Carlo Gozzi è ambientata in un Settecento veneziano, con personaggi cari alla città lagunare, come Pantalone o Brisighella. La vicenda del principe Tartaglia e del fedele Truffaldino sembra a tratti una parodia delle imprese di Don Giovanni e Leporello, ma il principe gozziano è soprattutto la caricatura del giovane ricco e viziato. Il messaggio più importante di tutto il racconto sembra essere “il riso fa buon sangue”: un invito a frequentare il teatro e le belle commedie, a farsi distrarre da scherzi genuini e a cogliere il lato ironico della vita. La parte magica è fondamentale, certo, dal momento che l’azione prende le mosse da un sortilegio e la trama è risolta dallo scontro tra la Fata e il Mago, tuttavia la maledizione è la reazione alla brutta risata suscitata da un’anziana che cade, mentre il gesto che libera la bella principessa giunge alla fine di un’esilarante scena del quotidiano: la colomba che disturba il cuoco e fa bruciare l’arrosto per il re!

Abiti e Abitare

Entrare nella ex chiesa a Licodia il terzo weekend di ottobre significa immergersi in un mondo fatto di racconti: la dimensione cinematografica, le luci basse, lo schermo grande, i soggetti tratti da antiche civiltà e dai loro monumenti più affascinanti. Quest’anno la sensazione di viaggio fantastico è stata amplificata dalle trine e dalle piume, dai colori e dalle maschere disposte lungo le pareti: come antichi guardiani di un mondo di teatro e favola, invitavano al sogno e al sorriso. In fondo basta poco, è sufficiente indossare l’abito o anche solo accostare al volto la maschera di piume e paillettes, ed ecco che la nostra “persona” diventa qualcun altro e agisce secondo altre volontà.

Provo a immaginarmi Carlo Gozzi mentre si aggira orgoglioso tra il pubblico della Rassegna: guardando i volti degli spettatori, tutti intenti a seguire le vicende di archeologi di terra e di mare, italiani o stranieri, avrebbe probabilmente commentato citando se stesso:

la mia audacia cominciava a non esser più colpevole

“Racconti di orchi, di fate e di streghe”, I Meridiani, p. 394.
Foto di Gregorio Giarrusso

Ringrazio di cuore tutto lo staff della Rassegna del documentario e della comunicazione archeologica di Licodia Eubea, ma soprattutto l’Archeoclub di Licodia Eubea che con Gregorio Giarrusso e Vincenzo Palmieri mi ha fornito i testi e le immagini relativi alla inaugurazione della mostra “Abitare il racconto” e alla brochure esplicativa.

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Il museo delle storie

Siamo giunti alla settima edizione di Archeoracconto e questa volta, ad accoglierci e guidarci tra le storie della storia, è stato il Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

Si è trattato di una giornata molto partecipata, grazie soprattutto alla sapiente opera di fidelizzazione fatta dal Museo negli ultimi anni: l’istituzione ispira fiducia e invita alla partecipazione, perciò chi si è presentato il 5 ottobre era già un affezionato visitatore delle sale allestite in fondo al lungo braccio del Correr.

I reperti del Museo Archeologico di Venezia hanno tutte le carte in regola per diventare protagonisti di decine di archeoracconti: sono di nobile origine (sia per la qualità della fattura che per essere stati esposti nei palazzi di famiglie facoltose e importanti), hanno viaggiato (molti gli originali greci), raccontano il passato da un punto di vista privilegiato (molte le iscrizioni cretesi).

Curiosamente, guardando la serie di soggetti protagonisti degli archeoracconti, proprio nella città lagunare troviamo in prima posizione un bronzetto del dio del mare!

In queste giornate di tribolazioni per i veneziani, vale la pena ricordare lo stretto legame della città con il tridente di Poseidone/Nettuno, croce e delizia di un (mai) perduto amor…

Giambattista Tiepolo – Venezia riceve l’omaggio di Nettuno – 1745-50
(immagine da wikicommons)

I ringraziamenti sono tanti, questa volta, perché più numerosi del solito sono stati i contributi. Inoltre abbiamo una novità! Come spiegammo fin dalla prima edizione, l’archeoracconto può rivelarsi sotto qualunque forma, anche di graphic novel, o di haiku, ebbene, questa volta abbiamo un gioco di enigmistica e un… Gioco dell’Oca! Anzi, gioco dell’Archeoca! Lo potrete scaricare separatamente e divertivi a orientarvi nelle sale di un museo di carta.

Con l’insostituibile aiuto di Marina Lo Blundo, splendida sparring partner del progetto Archeoracconto, con l’affettuoso aiuto di Anna Buia all’impaginazione, e infine con l’aiuto professionale e coinvolgente di Marcella De Paoli e di tutto lo staff del Museo Archeologico Nazionale di Venezia, vi presentiamo oggi:

Qui invece:

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Cronache dal deserto – 3. Castelli di sole

Questa è la cronaca di 3 giorni in Giordania, a Wadi Mousa, sotto la guida esperta di Chiara Marcotulli, di Archeosangallo, uno spin-off accademico dell’Università di Firenze. Un viaggio di scoperte e di emozioni che condivido con voi, segnalandovi che con i viaggi Azalai, questa opportunità è alla portata di tutti!

Quando mi è stato proposto di visitare Petra, ospite della Missione italiana “Petra Medievale” a Wadi Mousa, ho accettato con entusiasmo: visitare Petra con Chiara Marcotulli significa apprezzarne tutta la carica medievale, mentre le chiacchierate con il Prof. Guido Vannini permettono di inquadrare i luoghi da cartolina in una cornice ben più ampia di pittoresche fessure nella terra. Petra e Shawbak sono state tappe fondamentali dell’insediamento crociato nella regione e la missione italiana è proprio quella di documentare le fasi crociate e quelle Ayyubidi fino ad arrivare ai Mamelucchi.

L’arrivo a Petra è stato naturalmente denso di emozione: ho cercato di raccontare qui l’effetto così straniante del sentirsi ospiti nella comunità degli storici venditori (beduini e non) e dei loro negozi o tende. L’aspetto archeologico, vale a dire l’abilità dei Nabatei nel costruire tombe monumentali o dei Romani di modellare a loro piacimento ogni angolo roccioso e ogni ampia terrazza, diventa cornice decorativa di qualcosa di ben più vivido: la presenza umana, in tutte le sue sfumature antiche e moderne.

Ma con Chiara ci siamo spinte al di sopra di teatri e templi, arrampicandoci fino allo spuntone di roccia che ospitava l’antico castello crociato: Al Habis.

“La vista da qui”
In cima al colle di Al Habis, di fronte a noi il crollo di uno degli ambienti, sotto di noi la vallata di Petra e in alto a sinistra il villaggio beduino di Umm Sayhoun.

“Quando ho fatto la prima richiesta di scavo alle autorità giordane, ho richiesto il territorio di Shawbak, perché volevo indagare meglio il castello. Si sono dimostrati stupiti, mi hanno chiesto ‘Ma come? Non chiedete Petra? Tutti chiedono Petra’, e così ho deciso di chiedere i permessi per entrambi i siti”

Guido Vannini ricorda il suo arrivo in Giordania e una prima ricognizione fatta con l’amico Franco Cardini. Il loro interesse precipuo era rivolto all’indagine topografica, per capire le dinamiche insediative dei periodi crociato-ayyubidi in Transgiordania, e Petra sembrava un luogo già abbondantemente sfruttato dalle campagne archeologiche internazionali che cercavano una gloria più immediata. Ma alla necessità è seguita la virtù e in poco tempo a Vannini e ai suoi collaboratori è risultato chiaro che la presenza crociata a Petra poteva fornire importanti tasselli alla loro più ampia ricerca.

Oggi del castello restano pochi muri e molti crolli, Chiara mi guida con fare sapiente perché è stata proprio lei, insieme a Michele Nucciotti – vice direttore della Missione “Petra Medievale” – a condurre le ultime indagini; nel mettere a fuoco i tagli nella roccia o le chiavi di volta che suggeriscono ampi portali di accesso, prende forma un complesso fortificato ben articolato e posto a guardia di un ampio territorio.

Come nelle migliori tradizioni di avventurosi archeologi sempre in bilico tra la scoperta e l’abuso, ci arrampichiamo per una scala stretta, una sorta di via di fuga concepita in caso di assedio; ma usciamo per la “porta principale” e, dietro a una saltellante Chiara, io mi ritrovo nello stesso dilemma del Prof. Jones, chiamato a fare il “balzo della fede”! L’asse di legno non sembra molto solida eppure mi sostiene negli ultimi passi fuori dal castello.

Tranquilli, tutto sotto controllo!

Il castello verde

L’arrivo a Shawbak mi abbacina e tale resterò per il resto della mattinata: le colline tutt’intorno riflettono questo sole giordano e la poca vegetazione disegna trine impercettibili. Qui protagonista principale è la terra, che ha deciso di modellare un panorama primigenio, per cui ti sembra di essere il primo abitante di un mondo ancora da inventare.

Non è chiaro il significato di Shawbak, ma il toponimo completo è “Qalat Ash Shawbak” che dovrebbe indicare un castello di Shawbak “verde”: dinanzi a noi dobbiamo immaginare un panorama completamente diverso da quello moderno, un Eden ricco di wadi, di ruscelli e di fonti e quindi estremamente rigoglioso. Dalla collina si poteva controllare la via dei Re biblici: talmente efficiente che, in età romana, la via Nova Traiana coincideva in parte con essa.

Per questo, ci dicono le cronache, nel 1115 Re Baldovino fonda Mont Real e costruisce il castello “in quindici giorni”! Una simile iperbolica affermazione non fa che confermare l’esistenza di un insediamento già prima dell’arrivo crociato, indicato sulla Tabula Peutingeriana come Negla (oggi, il centro del paese di Shawbak è chiamato Nigil dai locali). I documenti di questi primi anni indicano le tappe del successivo allargamento del castello, con il quartiere degli ospitalieri e la chiesa di Santa Maria, consacrata nel 1118.

Ma Mont Real diviene ancora più celebre perché incrocia la strada di Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb, al secolo il Saladino (più o meno feroce, a seconda delle cronache); dopo un assedio di due anni il castello viene conquistato dagli Ayyubidi e, come ha ben evidenziato il lavoro degli archeologi, continua la sua vita da vera e propria città fortificata. Dopo di loro giungeranno i Mamelucchi e infine gli Ottomani.

Chiara mi conduce tra porte, sale, ambienti in fase di scavo, mura e torri dal profilo possente. La sua spiegazione è una cavalcata nella storia crociata, di cui Shawbak non era che uno dei forti, a controllo di un’area vastissima. Proprio questo aspetto è al centro di un progetto internazionale per la valorizzazione di tutto il territorio: da una parte l’indagine e la “messa in rete” degli altri castelli e dall’altra il censimento dei tanti villaggi che costellano l’antico percorso crociato. Ora che mi volto a guardare le colline intorno a noi, riesco a vedere le enormi potenzialità di quello che potrebbe diventare un parco storico-archeologico e addirittura un albergo diffuso.

Ma Shawbak si svela a poco a poco e mi sussurra i suoi tesori: abbiamo appena visitato una chiesa situata nella cinta più esterna, il cosiddetto “borgo”, sul lato Sud, quello dove – al di fuori delle mura – si posizionò l’esercito nemico. Chiara riesce a ricostruire per i miei occhi l’assedio del Saladino e mi indica sulle pareti gli interventi post-crociati e le tracce della trasformazione del luogo di culto in semplice magazzino. Quel che ci aspetta fuori dalla chiesa, tuttavia, è decisamente eccezionale: Chiara ripercorre le tappe dello scavo e dello studio delle strutture, quando una prima interpretazione propendeva nel vedere nelle tante piccole vasche gli apprestamenti di una tintoria di età mamelucca.

Solo la costanza e, come capita spesso, un po’ di fortunate coincidenze, hanno permesso di raggiungere l’interpretazione corretta: si tratta di un saponificio, uno dei più antichi in Giordania! Le vaschette dovevano contenere alcune piante alcaline, le cui ceneri servivano a consolidare l’olio d’oliva nella glicerina. Strati di glicerina venivano stesi…nell’ex chiesa e qui tagliati a formare i saponi, così preziosi e diffusi nel Levante.

Ai racconti di Chiara si sovrappongono quelli stratigrafici del prof. Vannini, il quale mi fa riflettere sull’avvicendarsi di culture e sulle “firme” di pietra che spesso restano a imperitura memoria, come cartigli di un passato glorioso. I Mamelucchi abitarono qui dal 1260 al 1517 e con loro il castello visse forse la sua epoca più gloriosa: centro di smistamento di merci, di controllo di vie carovaniere, e di produzione di tessuti e saponi.

Con Chiara torniamo a cercare un po’ d’ombra negli ambienti coperti e nei corridoi formati dai contrafforti interni; giunte presso una delle torri più monumentali ci accorgiamo che al suo interno alcuni operai stanno facendo la loro pausa pranzo. Il castello di Shawbak è infatti già al centro di una riqualificazione dell’area, in vista della valorizzazione culturale: una nuova, più ampia strada farà accedere più comodamente i turisti.

Ultima tappa della nostra visita è la chiesa principale del castello crociato: oggi diroccata in maniera artistica, ci offre giochi di luce di sicuro effetto e custodisce nelle sue viscere il lapidarium del sito. Epigrafi, rilievi, colonne, plutei… qui sotto attendono pazienti e in fila di essere riconosciuti e intanto ricordano tempi remoti e le mani sapienti che hanno dato loro forma.

Esco da Shawbak diversa da come vi ero entrata: il racconto del castello è stato ricco di dettagli e di passione, il sole – da queste parti – non illumina soltanto, ma dà forma alla storia.

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