Allora maestro, tu che conosci l’Occidente non ti offenderai se ti dico che in tutti questi giorni non ho meditato un solo minuto; che, invece di concentrarmi sul naso, la mia mente ha fatto di tutto, dal ridipingere la casa in campagna a un progetto per allargare la biblioteca; invece che pensare al respiro, ho pensato alle cose da scrivere e a quanto è assurdo essere qui; quando tu dici di pensare alla “gola”, penso a stringere la tua che mi forzi a questa tortura; quando dici “gambe“, penso a quelle sotto le gonne di tutte le thailandesi che mi stanno lì accanto, anche alle gambe di quella vecchia e brutta in ultima fila!”. John rise divertito. “Non disperarti” disse. “Anche tutto quello che dici è passeggero. Finirà. Magari sono secoli che la tua mente non è stata messa sotto controllo. E ora, tutt’a un tratto, pretendi di domarla? In pochi giorni? Aspetta. Tieni duro. Continua a conoscere aniiccia.” [da Un indovino mi disse]
Era il 2004 e, come spesso succedeva in quella “torre d’avorio vegetale” della Scuola di Atene, anche la notizia della morte di Tiziano Terzani mi arrivò con un leggero ritardo, tre giorni per la precisione. Era stato mio padre a farmi conoscere questo personaggio complesso e affascinante, regalandomi “Un indovino mi disse”. Un libro importante per me, che attraversavo un annus horribilis, piena di paure e idiosincrasie; leggere di un giornalista affermato che si era lasciato convincere da un indovino a interrompere per un anno intero i viaggi aerei e affidarsi a ogni tipo di mezzo alternativo, mi aveva aiutato ad accettare le mie piccole follie quotidiane, forse anche a superarne qualcuna.
Da quel momento in poi è stata una continua scoperta, ma soprattutto un profondo senso di gratitudine. Non si era trattato di un semplice piegarsi alle volontà di un fato lontano, Tiziano Terzani aveva sfruttato le possibilità di questa strana condizione di predestinato: il suo è un reportage a tutti gli effetti, di quello che significa vivere e spostarsi nell’Oriente più estremo; delle tante credenze che condizionano la vita di milioni di persone; del proprio mondo interiore che cambia gradatamente ma inesorabilmente. Eppure, il fiorentino ruspante non perde nulla della sua toscanicità e si mantiene sarcastico e gioviale, diffidente e curioso, permaloso e generoso. Questo, più di tutte le parole, mi ha catturato subito di Terzani.
Così ho cominciato a conoscerlo, nella sua forma più filosofeggiante. L’ho pure sentito parlare, a Firenze, poco prima di cominciare la mia personale avventura greca. Ho imparato a specchiarmi nel suo sorriso e ho letto anche il suo ultimo giro di giostra.
Ma per me Tiziano Terzani è ben lontano dalla figura di santone buddhista. La sua forza sta proprio nel suo essere profondamente occidentale, alla ricerca di un modo migliore di stare al mondo. “Buonanotte signor Lenin” è a oggi l’unico possibile modo di analizzare la situazione sociale, storica e politica degli Stati piccoli e grandi che sono scaturiti dall'”esplosione” dell’Unione Sovietica.
Per questo, dopo aver viaggiato attraverso tutta l’Unione Sovietica, dopo aver visto nove delle quindici repubbliche che facevano l’Unione, son voluto andare fino a Mosca. (…) semplicemente per passare un’ora sulla Piazza Rossa, per tornare là dove tutto è cominciato, per entrare in quel mausoleo dove lui, Lenin, è rimasto per decenni a fare da simbolo ispiratore di tutto, a fare, così imbalsamato, da modello per tutte le altre mummie del comunismo (…) E’ certo su ispirazione delle statue di Lenin che sono nate quelle, più grandi e più pesanti, di Kim Il Sung nella Corea del Nord. (…) Lì, dinanzi a quel cadavere ormai anche lui destinato a morire, mi è tornata in mente l’assurda domanda che m’ha arrovellato durante tutto il viaggio: come è possibile che per decenni l’Occidente abbia avuto paura di questo paese? M’è tornata in mente anche la rabbia che durante questo viaggio m’ha preso, a volte, contro i miei predecessori, giornalisti o no, vissuti qui. Mi pareva che m’avessero tradito non raccontandomi quanto fosse povera, squallida disorganizzata questa Unione Sovietica e come disperata e misera vivesse la sua gente. [da Buonanotte Signor Lenin]
“La porta proibita” è esattamente ciò che ognuno di noi dovrebbe fare: andare e constatare, prima di lasciarsi avvinghiare da ideali più grandi di noi. Nel suo viaggio tra le tante terre dell'”impero” cinese, Terzani mette in luce, tra gli altri, la questione uigura dello Xinjang.
Non ho mai nascosto il fastidio provocato dai pacifisti della prima ora che utilizzavano, utilizzano e utilizzeranno le sue “Lettere contro la guerra” come manifesto di idee spesso lontane dallo spirito di Terzani. Quelle lettere non si possono leggere senza il contraltare delle affermazioni di Oriana Fallaci; né si devono recitare sgranando rosari di buone azioni che noi ormai non capiamo nemmeno più. Tiziano Terzani è pur sempre quello che apriva le porte di Max Mara in via Tornabuoni a Firenze e urlava “Vaffanculo!” alle commesse attonite…a parziale risarcimento della cacciata della storica Libreria Seeber…caduta sotto il peso della “Firenze da indossare”.
Quello che Terzani mi ha lasciato è stata la sua curiosità e la voglia di capire. Un atteggiamento aperto ma non supino rispetto ad un mondo fatto di meschinità e odio a buon mercato. Un modo di fare giornalismo che oggi nessuno riesce ad accettare, perché troppo faticoso. Le stesse “Lettere” sono state scritte rimettendosi in viaggio, e quindi in gioco, per capire di più ciò che stava succedendo.
Quando è morto, il mio dispiacere più grande è stato per il Mondo. La perdita di un’occasione, di leggere, ascoltare, condividere, discutere, riflettere, un pensiero più libero di tanti altri, sincero anche nei suoi difetti.
Alla lunga io non ero fatto per l’ascetismo, per la rinuncia. La vita era per me ancora qualcosa di meraviglioso, un richiamo forte. Trovavo che era molto più nel mio carattere includere che escludere come invece avevo fatto di recente. Al limite trovavo l’includere anche più saggio. (…)il rapporto con Angela si appianò e quando, dopo due mesi, ci incontrammo per andare di nuovo a New York, ritrovarsi fu la cosa più naturale. Non ci fu da fare i conti di nulla. Solo delle gran risate. Gli aggiustatori mi trovarono bene e dissero di volermi rivedere dopo un anno. (…) Passai l’estate in famiglia a Orsigna. Ricominciai a vedere gente, alcuni amici, e mi coinvolsi in un progetto per salvare un vecchio mulino ad acqua nel fiume. A volte rispondevo persino al telefono, segno che la mia nevrosi era in qualche modo sotto controllo. (…) L’11 settembre fu uno spartiacque nella vita di tutti e certo anche nella mia. Tornare in montagna mentre l’umanità affrontava scelte di enorme portata storica mi era impossibile. Dinanzi a quel che succedeva e ancor più dinanzi a quel che sentivo forte sarebbe successo – è angosciante essere Cassandra – tornare a fare l’eremita mi pareva indecente. (…) mi sentivo ancora parte del mondo, non volevo esserne schiavo; volevo cercare di viverci meglio. [da Un altro giro di giostra]
grazie, Tiziano…