Una storia d’amore

Ho letto “Arruina”, anzi l’ho masticato.

Prologo

Ho cominciato a leggerlo pensando di trovarmi di fronte a una valanga di parole “solide“, quelle che scrocchiano sotto i denti mentre le leggi, tanto da spingerti a rileggerle ad alta voce. Così infatti era stato presentato da Edoardo Rialti e Bernardo Pacini in un bel pomeriggio fiorentino a L’Ora Blu, in viale dei Mille. Dopo quell’incontro avevo parlato con l’autore, Francesco Iannone, trovandomi di fronte un ragazzo, padre di tre figli, poeta per vocazione e insegnante di storia dell’arte per destino; con il titolo del Saggiatore si stava affacciando per la prima volta al mondo del romanzo, ma aveva già al suo attivo diverse pubblicazioni di poesia. Nato in un paesino in provincia di Salerno, dopo poche parole abbiamo abbattuto qualche grado di separazione: è infatti un frequentatore della Casa della Poesia di Baronissi, di cui io ho avuto il piacere di conoscere i fondatori, e conosce la libreria del Vomero “Io ci sto“, luogo da me conosciuto, di nuovo attraverso uno dei fondatori.

Bene, questo è stato lo spirito con cui mi sono accostata al romanzo: la conoscenza con l’autore, un sostrato brulicante di persone. Ma anche l’idea di trovarvi delle figure mitologiche, nel senso di prodotte da un mito/folklore/tradizione cui Francesco ha attinto a piene mani, come in un sacchetto di fagioli affondare le mani e ritirarle stracolme di legumi.

Una storia narrata

Comincio a leggere e comprendo subito che i due presentatori si sono dimenticati di dire una cosa fondamentale: Arruina è una storia d’amore. Ci sono un lui, una lei, e la loro bambina. Il racconto è in prima persona nella voce del padre: la bambina è stata rapita e loro la devono ritrovare. Non c’è niente da fare, è più forte di me: ho dovuto immaginare cosa celasse la complessa metafora e ho elaborato una mia personale lettura degli eventi. Nella mia interpretazione, la bimba è nata con un qualche problema e deve restare in incubatrice fino a quando la sua situazione non sarà stabilizzata. Il finale è lieto, lo dico già.

Ma Arruina è un viaggio che toglie il fiato.

Da piccola andavo regolarmente dall’oculista: noi bambini eravamo una miope e l’altro ipermetrope, perciò bisognava porre rimedio al peggiorare della nostra vista. L’oculista ci metteva un paio di occhiali di metallo e inseriva lenti di gradazioni diverse fino a quando non azzeccava quella che ci faceva leggere correttamente il tabellone. Ecco, leggere Arruina mi ha ricordato i momenti in cui le lenti erano troppo forti e io non riuscivo a mettere a fuoco, fino a quando compariva all’improvviso la lettera agognata, perché finalmente la lente era quella della gradazione giusta.

Così nel romanzo vengo travolta da un turbinio di parole e suoni che sembrano “troppo”, sono “troppo”, mi sovrastano, mi creano un’oppressione al petto, mi lasciano una smorfia sul viso, fino a quando non compaiono alcune frasi “normali” che permettono di seguire il filo della storia.

La storia

Anni fa ho letto la saga di Malaussène e uno dei volumi mi è rimasto particolarmente caro: in “Signor Malaussène” il protagonista e la sua compagna, Julie Corrençon, sono vittima di un pazzo. Julie entra in coma e quando si risveglia non ha più il feto che portava in grembo. Non svelo i dettagli, dico solo che alla fine il bambino nascerà, ma la seconda parte del romanzo racconta il modo che Julie ha di affrontare il dolore dell’aborto (questo pensa infatti che sia accaduto mentre era in coma): Julie e Malaussène partono con un camper per un tour dei luoghi del Vercors, a lei molto cari; la donna decide di insegnare al compagno a riconoscere i vini coltivati nelle campagne della sua infanzia. Il tutto viene raccontato da un Malaussène annientato dal dolore, esattamente come Julie, eppure affascinato dall’energia della sua donna e dal dolore di lei, che viene elaborato in modo così originale e rabbioso e pieno – in qualche modo – di vita.

Anche il protagonista di Arruina racconta lo smarrimento suo e il dolore e la rabbia della compagna: nelle parole di lui ella è forte, combattiva, intelligente, estremamente determinata nel riavere la figlia, la Sperduta.

Creature del mito

Edward Burne-Jones: nel suo ciclo su Perseo le Graie sono meravigliose.

Ci sono tanti personaggi che accompagnano i due, che li ostacolano, che li aiutano. Le Nerissime sono le rapitrici: mi hanno fatto pensare alle Graie di Perseo, vecchie che si scambiano un unico occhio e un unico dente, nel mio immaginario erano sempre orrende, sporche, sgradevoli. Le Ianare sono le creature che indicano la via, ma lo fanno mettendo paura e angoscia, per questo ho pensato alle Erinni, a una qualche forza ineluttabile che ti porta là dove il destino ti attende, ma lo fa provocando grande dolore. Ci sono personaggi che servono a suggerire quale strada prendere, ma lo fanno sempre controvoglia: in realtà hanno bisogno di parlare del proprio dolore e solo in seconda battuta aiuteranno la coppia di genitori. Tutti, infatti, si ritrovano a Roccagloriosa, dove entreranno per trovare finalmente un po’ di pace…sono forse altri pazienti dell’ospedale dove è ricoverata la bambina? (la mia necessità di razionalizzare prende nuovamente il sopravvento e mi ricordo delle vite incrociate venti anni fa, quando aspettavamo ansiosi che mio zio uscisse dalla rianimazione dopo il trapianto di cuore)

Forse solo Hieronymus Bosch può aiutare a raffigurare i bambini che compaiono durante tutto il racconto: esseri sfigurati, membra staccate e riassemblate senza criterio, anime nere.

Virgilio

Poi c’è il Poeta: l’unico che sembra voler davvero aiutare la coppia. Ma il poeta vive in un tugurio insieme alla Grande Madre, che, fuor di metafora, io interpreto come la Terra. Una Terra martoriata, perché, non dimentichiamolo, ci troviamo pur sempre sotto il Vesuvio, nei Campi Flegrei, nella regione delle frane e degli sversamenti mefitici. Tutti quei liquami, tutte le descrizioni putrescenti, sembrano ora un grido di allarme e una denuncia. Ma il Poeta è intenzionato ad aiutare e io non posso fare a meno di rivedere in lui, nella sua sincerità, il sorriso di Francesco, dell’autore, del poeta.

La magia

Parlando con Francesco, il giorno della presentazione, gli ricordavo che la terra di Napoli ha adottato il poeta di Mantova, Virgilio appunto, fino a trasformarlo, in età già tardoantica e poi medievale, in un mago: quello che, stando alla leggenda, avrebbe messo un uovo nelle fondamenta del castello sul mare, per garantire prosperità all’intera città. Ebbene, alla fine del racconto il miracolo si compie, ma la vera magia è nella potenza della parola.

La parola ha accompagnato i due genitori, li ha sostenuti nel momento più oscuro, li ha invasi con tutta la sua portata di dolore, di lezzo, di lordura, di buio: ha permesso a lui di esprimere il più piccolo sentimento e a lei di urlare tutta la sua rabbia. La parola ha descritto in ogni dettaglio la schifezza che è vivere senza la figlia, perché te l’hanno portata via. Aggrappati alle parole sono giunti a Roccagloriosa e hanno affrontato le Nerissime.

Epilogo

Non ci sono più parole, ora, non c’è più buio. C’è solo luce, accecante e che rende indistinti i caratteri del futuro, una storia ancora da scrivere.

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