A cuore nudo nel Parco

A Val Fondillo le radici ricamano storie…

Un’estate particolare, questa del 2017. Un agosto passato a rincorrere il “luogo perfetto”. Forse è questo che intendevano gli antichi quando parlavano di locus amoenus, una definizione che ho sempre trovato difficile spiegare, che ho sempre preferito lasciare che fosse “avvertita” più che capita. Ecco, io sono andata – e lo sono tuttora – alla ricerca di questo luogo-non luogo, un posto reale in cui raccogliere i miei pensieri.
In questa mia ricerca ho avuto l’aiuto capace di un’amica e mi sono ritrovata… nel Parco Nazionale d’Abruzzo.
Questi, perciò, sono pensieri sparsi che ho raccolto nei cinque giorni trascorsi in una casetta ai piedi della rocca di Opi, non distante da Pescasseroli, nel cuore del Parco.

Il nome mi ha attratto subito: poteva mai un borgo essere intitolato a una delle meno note tra le dee? Una fanciulla con cornucopia, vale a dire tutti e nessuno, l’iconografia più trita dell’immaginazione antica. Eppure Opi, a poco a poco, si è fatta strada nell’animus dei Romani, che ne hanno rivendicato l’autoctonia: Opi era una divinità dei raccolti, pregata perché portasse abbondanza di messi e di frutti. Nel giro di poche generazioni eccola associata a Saturno: il dio dell’Età dell’Oro, il vecchio che si aggira per le strade nei giorni del solstizio d’inverno e si assicura che ciò che è stato seminato non venga gelato proditoriamente. Il dio cui offriamo la nostra allegria e follia durante i Saturnali, per l’appunto. Il vecchio del Natale futuro…

A Barrea c’è un presepe estivo. Tra i manichini, un bellissimo centurione romano…che indossa un tipico scudo sannita. Adorabile melting pot!

Insomma, ero decisamente entusiasta di poter trovare tracce di un culto antichissimo, come sembrerebbe attestare la pietra iscritta incassata nella torre del campanile: Sacerdos Cerialis. Opi come Cerere? La cornucopia e la spiga che prefigurano comunque un raccolto abbondante? In fondo, qui siamo nelle terre dei Sanniti e dei Safeni, tribù che i Romani convincono, più che conquistano, a collaborare; il nome più antico del centro abitato dovrebbe essere Fresilia (o Fresinia) e ci sono tombe che attestano la presenza dell’insediamento di VII – VI secolo a.C., ma forse, a cercare bene nelle stanze di antiquaria locali si riescono a trovare reperti di età preistorica. Questo, per lo meno, è quanto assicurano le pubblicazioni scientifiche.

Ma qui siamo nel regno dei borghi arrampicati su rocche medievali… Opi non pare riecheggiare divinità venerate da selvatiche (nel senso “della selva”) tribù, piuttosto, all’orizzonte si delinea la silhouette di Brancaleone e così, dalle guerre sannitiche, la nostra immaginazione ci proietta direttamente nei secoli finali del Medioevo e Opi diviene una abbreviazione di Oppidum: la città fortificata (di impianto romano).

Disposta su una tartaruga rocciosa, Opi si presenta come una punta di freccia rivolta verso il cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, di cui è stata la prima fautrice nel 1921, con la cessione di alcune terre e il versamento di una prima quota.
Una spina dorsale, la via San Giovanni, che ricalca la dorsale della rocca e porta dritta al “castellum aquae“, l’acquedotto voluto nel 1903 da Domenico Ursitti, benefattore della cittadina, forse non “primo del suo nome”, ma di sicuro appartenente a una casa(ta) che è stata protagonista della storia di Opi. Fotografando il “castellum” ironizzavo sui merli della piccola torre che, per l’appunto, sembravano aver preso in parola il termine latino, ma un’attenta lettura dell’Ursitti letterato e poeta contemporaneo, mi ha illuminato: l’architetto si è ispirato al monumento funebre di Cecilia Metella sull’Appia antica!

Mausoleo di Cecilia Metella

 

 

 

Opi: piena di sorprese, quindi. Come le targhe che ricordano un altro Ursitti, don Alessandro: non solo riuscì a evitare il bombardamento del borgo da parte dei tedeschi – non dimentichiamoci che qui siamo abbastanza vicini a Cassino, la zona era “calda” durante le manovre a fine guerra – ma corruppe un tedesco che stava per far saltare il vicino ponte sul Sangro, oggi noto come “ponte delle 12 uova”!

 

Le case costruite sulla roccia, gli angoli da cui ammirare monti e camosci, o camosci su monti… la terrazza che guarda su “Le Prata“, un retaggio latino (?) dei campi nella valle, dove i contadini di Opi pascolavano gli animali o coltivavano orti. L’aria frizzante di Opi mi ha già rigenerato, sono pronta per addentrarmi nel Parco. Ma, a proposito, cos’è il Parco Nazionale d’Abruzzo?

Quattro giorni sono pochi, ci organizziamo con passeggiate mattutine e gite pomeridiane e io scopro un mondo del Parco fatto non solo di alberi e sentieri, ma di altri borghi, più o meno grandi; di vie “al Castello“, o “alla Torre“, di fontane, spesso rimaneggiate proprio negli anni in cui prendeva corpo il Parco. Vedo segnali stradali che mi promettono incontri con la fauna locale e mi lascio bruciare da un sole meno filtrato, in un’atmosfera – calda – di “gita al Faro“.
Scopro che il lago di Barrea deve la vita a una diga che ha creato scompiglio tra i borghi della valle: voluta sotto il Fascismo, ma in un altro punto, viene costruita alla fine degli anni ’40 e servirà a prototipo della infausta diga del Vajont – alla cui costruzione alcuni abitanti di Barrea lavoreranno e uno perderà la vita, morte bianca.
A Civitélla Alfidena, invece, ci incuneiamo negli stretti vicoli dietro la Torre, che sembra uscita da una scacchiera rinascimentale: le geometrie bianche e nere di ciottoli e pareti ci indicano la strada e incorniciano una delle più belle dediche lapidee che abbia mai visto.

Vi chiedo due minuti per leggere questa dedica che ha dell’immaginifico

In due punti opposti del borgo sono state create delle aree protette per linci – da una parte – e lupi – dall’altra – le cui condizioni fisiche non permettano loro di vivere allo stato brado. Una sorta di safari “buono” che, naturalmente attrae molti curiosi.

Ma sono soprattutto due i momenti che mi hanno curato ferite che nemmeno sapevo di avere…

Innanzitutto una passeggiata alla Camosciara, fatta la mattina presto, prima…

…prima che apra il parcheggio, prima che la natura umana si imponga con mala grazia su quella selvatica, prima che un inquietante trenino vomiti decine di villeggianti di fronte al bar e alle timide cascate.
Prima, c’è il silenzio. L’aria frizzante. Cerve e cerbiatti che ci guardano attoniti e poi si scambiano occhiate dubbiose: “Ma che, son già le NOVE??”
No, non lo sono e noi parliamo poco, ci lasciamo accarezzare dai colori e dagli odori di un luogo “bello” e accogliente. L’arrivo alle cascate è già guastato dal pensiero che questa solitudine perfetta stia per finire. Un ultimo tocco di magia: la farfalla che si lascia avvicinare…e poi, in un battito d’ali ecco che la magia si spezza.

Infine, la passeggiata in un luogo dal nome “perfetto”: Macchiarvana. D’inverno l’aula più adatta per lezioni di sci di fondo, d’estate un campo esteso dove rintracciare il passaggio dei cinghiali o degli orsi e camminare senza premura e con pochissimi dislivelli.

Si può raggiungere perfino Pescasseroli!
Ma il mio momento magico, la mia sospensione del tempo, è nella faggeta che dobbiamo attraversare per arrivare al campo (e quindi anche per ritornare alla macchina).
Alberi a distanza regolare, luce che cattura: la faggeta ti intrappola, non vuoi più uscire.
Come nella migliore fiaba dei Grimm (o forse nella più spaventosa?) ti senti completamente inerme di fronte alla serenità che ti danno questi alberi, dal tronco stretto, svettanti. Al di fuori… esiste qualcosa al di fuori? Mi aspetta qualcuno “al di fuori di qua”? Non lo so, non mi interessa neanche più.
Ecco, il mio locus amoenus, l’ho trovato – o lui ha trovato me. Io sono piccola, ora, più piccola di sempre; voi mi guardate, cari faggi, e io mi sento un’ospite tra di voi. Posso restare qui?

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2 risposte a A cuore nudo nel Parco

  1. nino scrive:

    Un testo scritto col cuore prima che con la mente. C’è tutto.Un testo da leggere e rileggere ancora. Grande Stefania. Non poteva far di meglio.

    • Stefania scrive:

      Grazie mille a voi, per l’ospitalità squisita! Che mi ha permesso di godere appieno delle bellezze di Opi e del Parco.

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