Morsi e rimorsi storici

Cosa ci fanno uno storico delle religioni, uno psichiatra, una psicologa, un etnomusicologo e un’antropologa culturale nel caldo sole del Salento in una mattina di giugno del 1959?
Cercano di fermare su di un vetrino, sotto il microscopio della scienza sociale, il fenomeno del Tarantismo.

In queste notti d’agosto si celebra la Taranta e io mi inoltro per il sentiero antico e affascinante del morso delle tarantolate salentine.

Lo scorso giugno, grazie all’iniziativa di Swapmuseum e di CoolClub sono stata ospitata, insieme a due amici e blogger di successo, tra i suoni della Grecìa e le tradizioni del Salento.

https://djedmedu.wordpress.com/

https://generazionediarcheologi.com/

 

 

 

 

 

 

Siamo stati accompagnati nella visita di alcuni centri, tra cui Galatina e la cappella di San Paolo e per la prima volta sono stata iniziata al mistero del tarantismo. Uso il termine “iniziazione” perché si tratta in effetti di una esperienza mistica, dal momento che San Paolo è ormai da secoli il catalizzatore utilizzato dalla Chiesa cattolica per normalizzare un uso antichissimo. Registrato perfino da Leonardo da Vinci (!)

San Paolo brucia la serpe. Scultura sulla cattedrale di Mdina (Malta)

Cominciamo, dunque, dalla fine: San Paolo è a Malta, lo morde un serpente velenoso, lui sopravvive (Atti 28, 1-10). Evviva! Il Santo sconfigge il morso di bestie velenose!
Galatina, qualche anno dopo: nel paese dei “saggi” (KALE’ ATHINA sembra essere l’etimologia del nome del paese, come ricorda la civetta, simbolo della dea, che compare sullo stemma cittadino). San Paolo decide di “passare” la sua abilità a tre sorelle (Frazer l’avrebbe chiamata “magia da contatto”, noi non indagheremo oltre…). Quando la più anziana delle sorelle sta per morire, sputa in un pozzo e rende quell’acqua miracolosa per chi voglia guarire dal morso di un animale velenoso.
Il pozzo della cappella di San Paolo diventa perciò meta di pellegrinaggio. Anche perché Galatina (e il suo feudo) è protetta dal Santo e qui la taranta non morde nessuno! Le tarantate hanno finalmente trovato una cura al loro male. La Chiesa, che pensava di essere riuscita a normalizzare il rito pagano mettendolo sotto il patrocinio del Santo guerriero per antonomasia, colui che sconfigge i pagani con quella spada sempre al fianco, capisce però di essere caduta dalla padella nella brace. E così il pozzo viene chiuso.
La cappella! Bisogna andare nella cappella! Cristo Santo, ma come bisogna dirvelo?? Zotici contadini che non siete altro?

Le tarantate ci vanno nella cappella, ma occorre mettere un cartello che limita le manifestazioni troppo agitate…

Ernesto De Martino

Se questa è la storia in breve, l’opera di De Martino, lo storico delle religioni con cui ho cominciato, la apre come un ventaglio, strumento quanto mai necessario nei giorni della festa di San Paolo a Galatina, cioè intorno al 29 giugno. Il suo studio del fenomeno si inserisce in un progetto più ampio, quello di tracciare una Storia religiosa del Sud.
Egli individua nella Puglia e nello specifico nella terra salentina, il luogo in cui può essere osservato un fenomeno dalla portata antropologica particolarmente importante: da secoli, infatti, la popolazione salentina, per lo più quella femminile, è affetta dal fenomeno del morso della tarantola, che induce in stati di alterazione psichica. Chi è affetto da questo morso viene curato con un rituale che prevede l’esecuzione di una particolare musica e l’esposizione del morsicato a particolari colori. Il rituale può curare temporaneamente, perché, nella quasi totalità dei casi, chi viene morso una volta verrà poi morso un’altra volta (spesso la condizione di morsicato dura decine di anni).
Il primo passo da fare è capire se si tratti effettivamente del morso di un ragno (comunemente chiamato “tarantola”) e De Martino e la sua equipe si rendono ben presto conto che ciò non può essere. Quindi è necessario rintracciare l’origine del fenomeno e capire se l’intervento di San Paolo sia connaturato ad esso oppure se sia incorso in un secondo momento.
De Martino è uno studioso scrupoloso e traccia una storia degli studi, che ci permette di capire quanti studiosi, a vario titolo, si sono confrontati con le tarantate.
Rimando, insomma, al bellissimo volume “La terra del rimorso”, pubblicato da Il Saggiatore, dove De Martino riesce a unire la necessaria tassonomia del resoconto scientifico con la piacevolezza del resoconto dell’esploratore.
Oltre al libro, vale la pena guardare le riprese fatte a Galatina presso la cappella:

https://www.youtube.com/watch?v=Z1r6qdA-_fk

L’esigenza di osservare le tarantate da un punto di vista antropologico si comprende ancora meglio se si contestualizza la “spedizione di De Martino” nell’ottica della questione del Mezzogiorno, che negli anni ’50 veniva decodificato fino alla drastica fossilizzazione che purtroppo conosciamo…

Molte sono le considerazioni che scaturiscono dalla lettura della storia delle tarantate…
Sole che brucia, la controra immortalata dal prezioso film di Lina Wertmüller. La noia, quando arriva, può far diventare impazienti: il conto delle ore che non passano mai. Lo studio di De Martino assomiglia al safari dello scienziato: l’animale da osservare è l’uomo in quanto animale sociale. Ma i numeri sono chiari, la quasi totalità di coloro che vengono “morsi” è femmina.

Dunque: la donna si ribella alla noia. Una noia che attanaglia e che si traduce in regole sociali, tanto granitiche quanto limitanti.
Dunque le tarantate si ribellano alle convenzioni sociali, ma questa ribellione può, deve essere sedata.

Come?

Forse cambiando quelle convenzioni? No, operazione troppo complessa, che richiederebbe ben altro che un accesso di isteria, e soprattutto richiederebbe alleati potenti.
Allora ecco che la stessa società che ha condannato le tarantate alla follia trova un modo per curarle: un rito sociale, ecco quello che ci vuole. La cura arriva proprio dalla stessa comunità che ha “creato” il disagio: i musicisti non lo sono di professione, o meglio, la loro professione è un’altra (barbiere, contadino, becchino, ecc.) ma si specializzano nei suoni che placano il ragno. Ogni ragno risponde a ritmi diversi e la bravura dei musicisti sta proprio nell’azzeccare le vibrazioni che permettano al veleno di uscire ancheggiando dal corpo della tarantata.

Il pensiero corre, inevitabile, alle menadi: donne, nubili, capelli al vento, vesti trasparenti, dedicavano loro stesse a Dioniso e fuggivano da una vita di mogli, madri, donne di buona famiglia. Nei boschi trovavano i satiri, le nostre tarantate trovano preti che le salvano… le menadi amano Dioniso, le tarantate parlano con San Paolo: gli chiedono di lasciarle stare, ma in cuor loro lo ringraziano, perché la sua spada ha tagliato i legami con le convenzioni sociali.

Da tarantate, esse godono di un’aura particolare, forse è questo che suggerisce il rimorso: se è andata bene una volta, perché non riprovarci l’anno prossimo e ritagliarci qualche giorno di pausa dalla noia anonima e asfissiante?

in Puglia le donne sogliono “quam saepissime” essere morse dalla taranta, con questa scusa diventando loro lecito “libere atque impune viros petere”

[dal dialogo Antonius, di Pontano, 1491]

“Questa scusa”, l’idea di vedere nel morso un significato più profondo è idea che viene da lontano. Se diamo un occhio alle circostanze del morso registrate da De Martino comprendiamo forse meglio:

“pizzicata alla finestra a mezzogiorno”

“pizzicata dopo la morte del padre”

“pizzicata dopo un sogno di scorzoni

“pizzicata mentre era in preghiera”

 

Torniamo al nostro punto di partenza: il morso è un modo per ribellarsi alla noia che prende la gola. La tarantata cerca di scappare. Lo fa con la mente perché il corpo è imprigionato. E la mente scappa attraverso la pazzia.

Si finge pazzo e comincia ad arare la spiaggia, fino a quando non gli viene messo davanti il figlio e Ulisse è costretto a scoprire le carte…

Perfino Ulisse, il più astuto tra gli eroi, lo aveva capito: chiamato a fare il proprio dovere di alleato di Agamennone e di guerriero della Grecia omerica, preferì fingersi pazzo per cercare in extremis di evitare la guerra.

 

 

 

In epoche più recenti pensiamo alla follia del Principe di Danimarca, che è “pazzo solo fra tramontana e maestrale. Quando soffia da scirocco distinguo un falco da un falchetto.”

(Atto II, scena 2)

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