Cinque puntate per un racconto molto breve. Un esperimento, in realtà, ambientato in un anno importante per la Repubblica romana, per l’Impero romano e per la colonia di Florentia.
Siamo nel 27 a.C. e il veterano Settimio si trova a fare i conti con la propria vita, con le proprie disillusioni e con i sogni di gloria del figlio.
Qualcuno potrebbe vedervi un riferimento alla situazione politica italiana attuale, e magari vedere nell’Ottaviano che diviene Augusto un pallido ritratto del “non-giovane” che ci fa da Presidente del Consiglio.
Beh, quel qualcuno non sbaglierebbe…
Buona lettura!
Farsàlia
Stava cominciando ad abituarsi a quel silenzio.
La nebbiolina fitta, l’umidità che impregnava l’aria. E la brina: una coperta leggera, ghiacciata, brillante di cristalli piccolissimi. Caio Settimio aveva preso l’abitudine di aspettare il momento della colazione seduto sul tronco tagliato della vecchia quercia. Da lì contemplava una parte della valle sottostante e aspettava, in religioso silenzio, la comparsa del sole. Ultimamente si era scoperto più riflessivo, la barba non la tagliava più, da quando era morta Annia, e alcuni dei suoi amici più cari avevano cominciato a scherzare chiamandolo il Filosofo, soprattutto se lo vedevano passeggiare distratto con i suoi cani. Lo scherzo era diventato per lui quasi una nota di vanto e ora anche la servitù cominciava a riferirsi al padrone come al Filosofo, sebbene non in sua presenza.
Accanto a Settimio comparvero Tessalo e Taco. Il primo si accoccolò tra le radici del tronco, mentre l’altro, il figlio ancora cucciolo, cominciò a latrare in risposta a ululati lontani, che provenivano da punti imprecisati tra i cipressi della valle.
La giornata si annunciava fredda e tersa e Settimio cominciò a ripassare nella sua mente gli impegni: quelli improrogabili, come amava ripetere il prezioso Glauco, agitando nell’aria l’elenco che aggiornava puntigliosamente tre volte al giorno, e poi gli impegni imprevisti. Questi erano i preferiti da Settimio, perché gli permettevano di tornare completamente padrone della situazione, evitando di farsi imbeccare da Glauco o dagli altri consiglieri che, numerosi, lo circondavano senza essere stati interpellati.
Gli imprevisti richiedevano spirito di iniziativa, senso pratico, velocità di esecuzione. Gli tornavano in mente gli insegnamenti di Sceva e la capacità del centurione di far fronte anche alle situazioni più disperate nei boschi durante la campagna militare in Britannia. Il volto di Settimio subiva allora una sorta di trasfigurazione: linee marcate, quasi severe, l’iride più limpida che mai. Tessalo sembrava avvertire prima degli altri il cambiamento in atto e compariva a orecchie dritte accanto al padrone.
Uno degli ultimi imprevisti aveva finito per coinvolgere anche un paio di amici vicini. Una notte era andata a fuoco la stalla a nord-est e l’evacuazione degli animali, la catena umana per spegnere l’incendio, nonché una buona dose di energie spese a calmare gli schiavi urlanti, erano state coordinate dal Filosofo con l’aiuto di Lucio Memmio Cieco e di Caio Ateio Facundo, due ex commilitoni.
In casa se ne era parlato per giorni e i più entusiasti erano stati naturalmente i figli del Filosofo. Settimia era la più vispa e ciarliera, instancabile nel rievocare i momenti concitati in cui la nutrice era venuta a svegliarla in preda al panico. La povera donna, già scampata a un terribile incendio sulla nave che l’aveva portata in Italia, era terrorizzata dal fuoco e temeva ormai il peggio per tutta la famiglia, perciò aveva pensato subito di portare in salvo la sua prediletta. In effetti la stalla era piuttosto lontana dalla casa padronale, ma il forte vento e l’ora notturna avevano risvegliato gli antichi timori.
Marco, maggiore di cinque anni rispetto a Settimia, era più riflessivo e aveva cercato subito di applicare gli insegnamenti del nonno Aulo Ofilio, suocero di Settimio, al quale era molto legato. Fin dalla morte tragica di Annia e dopo aver constatato le difficoltà di Settimio nel riprendersi e nel gestire i ragazzi, il vecchio Aulo aveva voluto affrontare il dolore buttandosi anima e corpo nell’impresa di educare il nipote prediletto. Lucio, il primogenito, non era presente la notte dell’incendio, ma i fratelli avevano voluto scrivergli una lunga lettera per informarlo di tutti i dettagli.
Settimio si alzò lentamente e Tessalo gli fu subito dietro, scodinzolante. Taco era ormai perso dietro lepri o chissà in quali avventure. “Speriamo non incontri di nuovo un istrice” si scoprì a borbottare a mezza voce il Filosofo.
Non aveva ancora finito la colazione che già Glauco saltellava impaziente per portarlo dal fattore: il giorno precedente erano finalmente arrivati gli arbusti promessi da Facundo e quella mattina bisognava capire come e dove piantarli.
Settimio era contento quando poteva parlare con Roscio, perché era un uomo che rispettava e che considerava quasi un amico. L’amicizia era stata sempre un grande problema per il Filosofo.
Da ragazzo aveva dovuto fare i conti con una sensazione di reclusione: era figlio unico, quindi senza fratelli a cui badare, ed era orfano di madre, perciò era coccolato dalle donne della famiglia, le quali, in un moto iperprotettivo, preferivano tenerlo nelle loro stanze piuttosto che lasciarlo andare libero a giocare con i ragazzi del paese. Il padre era spesso lontano e non si rendeva conto delle difficoltà di relazione di quel figlio che gli ricordava inevitabilmente la sorte tragica della moglie, morta nel darlo alla luce. Le cose erano migliorate durante gli anni di addestramento militare, dove la sua aria riflessiva gli aveva guadagnato il nome di Severo. Forse l’unica vera amica che avesse mai avuto era stata Annia, la sua Annia. Solo con lei era riuscito ad abbandonarsi ai sogni e grazie a lei aveva superato gli incubi che lo inquietavano di notte, tutte le notti da quando era tornato dalla Tessaglia: con una gamba rovinata e un cane magrissimo. “Hai trovato il tuo Argo?” gli aveva chiesto, dolce, Annia. In effetti i due sembravano condividere destini simili, e insieme si erano ripresi, lentamente.
Con Roscio, Settimio si fermava a chiacchierare fino a dopo il tramonto e spesso il burbero fattore gli offriva di condividere il pasto serale nella stanza modesta in cui viveva, non lontano dalle stalle. La sera dell’incendio se l’era vista brutta, il vecchio Roscio, ma era stato anche il primo a dare l’allarme e a cercare di spegnere le fiamme.
«Come hai detto che le chiamano?», chiese Settimio, «Prugne armene, il tuo amico deve averle pagate oro, a Roma ormai non si trovano più se non al mercato nero». Settimio aveva preso un’aria da vero filosofo e sembrava in grado di valutare la bontà dei frutti già solo toccando e soppesando l’arbusto; era una sorta di tecnica che aveva appreso dallo stesso Roscio anni addietro, quando si era reinventato proprietario terriero alle porte della nuova colonia in Etruria. A quel tempo era un ex soldato, già ex cittadino, insomma, quanto di più lontano da un contadino, e i primi tempi era stato imbrogliato da più di un commerciante. Per fortuna Roscio, scuotendo i corti riccioli vermigli, aveva provato pena per il veterano idiota (come in cuor suo lo aveva soprannominato) e così aveva deciso di aiutarlo e di proporsi come fattore. In realtà quella terra era appartenuta al padre di Roscio, ma i debiti di gioco gliel’avevano fatta perdere, finché non si era presentata l’occasione della nuova colonia e della distribuzione dei fundus ai veterani di Cesare.
«E questi, invece, cosa sono?», Settimio era passato ora al gruppetto più numeroso di piante in attesa di sistemazione: «Mah, questi mi convincono poco, pare che arrivino addirittura dai Parti, non mi è capitato di vederne tanti, eppure sembra che i tuoi amici ricchi ne vadano pazzi. Le chiamano persiche». Al riferimento agli amici ricchi Settimio aveva alzato lo sguardo e si era fatto serio; Roscio sapeva come irritarlo e forse non gli era ancora passata la stizza per quell’incidente della settimana precedente.
Settimio aveva dovuto ospitare un vecchio centurione, che nel frattempo aveva fatto carriera in senato, Manlio Atilio Torquens. Non gli era mai piaciuto, ma si trovava in viaggio verso Roma, di ritorno dai suoi possedimenti in Gallia, e così per spirito cameratesco non aveva potuto rifiutargli un pasto caldo e un riparo per la notte. In effetti, più che lo spirito era stato il riferimento a Lucio a convincere Settimio a recitare la parte del bravo ospite. Atilio aveva lasciato intendere di potersi informare sulla salute del ragazzo, ferito in battaglia e costretto a letto ormai da più di un mese. Lucio sembrava aver preso i due tratti caratteristici dei genitori: minimizzava qualunque problema, come faceva la madre, ed era estremamente parco di parole, come il padre. Perciò le sue lettere assomigliavano ad asciutti dispacci militari.
Tuttavia il prezzo da pagare per tenersi buono il senatore era stato alto: innanzitutto Atilio era rimasto ben più di una notte, in pratica quasi dieci giorni, e poi si era fissato di volere a tutti i costi assaggiare la vecchia scrofa di Roscio, una specie di animale da compagnia per lui (Settimia lo prendeva in giro e aveva annunciato di voler organizzare il matrimonio fra il fattore e il grosso suino). Secondo Atilio si poteva cucinare seguendo una delle ricette che aveva gustato in Gallia, aggiungendo erbe che ne avrebbero esaltato il sapore. Alla fine Settimio non aveva potuto fare altro che accontentarlo, ma Roscio aveva deciso di fargliela pagare a poco a poco.
Decisero infine di incamminarsi nel campo per capire dove fosse meglio piantare gli arbusti e Glauco seguiva impaziente il loro lento passo, già pensando all’impegno di metà mattina, il secondo nella sua lista. Raggiunsero un pianoro da cui si riusciva a vedere la lunga striscia argentata del fiume lungo le cui rive si era deciso di fondare Florentia.