Cinema e archeologia
Cinema e archeologia, che accostamento affascinante! Tutto il mistero di un’occupazione che sembra essere stata creata solo per pochi adepti e che odora di muffa – spesso – ma anche di pietre e di spazi aperti, che sembra brandire – alternativamente – la frusta di Indiana Jones e il pennello di un anziano barbiere, unito alla “magia del cinema”.
La magia del buio e dell’ignoto – chissà com’è che sullo schermo compaiono le vite di persone così distanti da noi, eppure vicinissime – e la possibilità di lasciar andare a briglia sciolta la nostra fantasia, ché tanto, nel buio della sala suddetta, nessuno sa veramente cosa stiamo pensando, nessuno ci rivolge domande, ma ognuno di noi può perdersi nei meandri delle proprie associazioni mentali.
Quando racconto che il secondo fine settimana di ottobre lo trascorro a un Festival del Cinema archeologico, i miei amici e conoscenti restano a bocca aperta. Eppure ormai ce ne sono tanti, in giro per la penisola, per non parlare di quel che accade in altre nazioni europee (e non), dove forse sanno distribuire meglio le produzioni cinematografiche di questo tipo. Ma torniamo a Licodia Eubea e al suo fascino, che si sprigiona allorché Lorenzo Daniele e Alessandra Cilio arrivano con il loro gruppo di lavoro e allestiscono la macchina dei sogni per eccellenza, il cinematografo; prima in una badia ex chiesa e da quest’anno nel cosiddetto “teatro della legalità”, che offre un contesto più facilmente identificabile con la sala di un cinema.
L’edizione di quest’anno, la dodicesima, ha portato a Licodia molti registi e molte produzioni diverse, dopo una selezione fatta in base al tema portante: il superamento dei confini, sia fisici che ideologici, generazionali oppure sociali. Il risultato è stato, come sempre, un caleidoscopio di frammenti di storia e società e voglio provare a isolare qualche aspetto.
Lo stupore della morte
Quando dialogo con i miei studenti e presento loro gli aspetti più quotidiani del vivere antico, non posso fare a meno di partire dalle tombe: è il destino dell’archeologo, quello di interrogare principalmente i corredi funebri e di restituire la vita attraverso gli oggetti che circondano i morti. Perciò devo ammettere che, quando Jérome Scemla, regista di “Perou, sacrifices au Royaume de Chimor”, ha avvisato il pubblico di alcune scene di forte impatto emotivo nel suo film sulla scoperta di cimiteri di bambini sacrificati tra il Quattro- e Cinquecento in tre grandi aree dell’antico regno di Chimor, non pensavo che mi sarei impressionata più di tanto.
In effetti il momento più difficile, per me, è stato guardare le scene tratte da filmati improvvisati con cellulari, fatti da chi stava assistendo in diretta alle inondazioni e frane prodotte da El Niño, pochi anni fa. Questi filmati servivano a contestualizzare meglio la decisione disumana di sacrificare i propri figli alle divinità della montagna: ciò che i peruviani moderni hanno subito, pur conoscendo in anticipo ciò che li aspettava e avendo a disposizione alcuni mezzi per mettersi in salvo, deve essere sembrato l’Apocalisse agli abitanti di Chimor, i quali avevano solo le preghiere e i sacrifici a loro disposizione per tentare di sopravvivere alle calamità ineluttabili.
Ma le immagini moderne mi hanno addolorato più del rituale antico, per il quale, nonostante la drammaticità di quei resti bambini, ho evidentemente più strumenti di comprensione e accettazione. Senza contare le “sabbie del tempo”, in questo caso molto concrete, va detto, che seppelliscono il fatto e creano uno strato necessario alla rimozione.
Il film ricostruisce in realtà la storia della scoperta fortuita delle prime tombe e segue archeologi e antropologi nella loro ricerca: chi ha ucciso questi bambini, quando, perché? A cui si aggiunge un “dove”, nel momento in cui, dopo la prima area cimiteriale ne spuntano altre. La storia dei bambini di Chimor si intreccia con quella degli studiosi e ci viene restituita in modo estremamente realistico attraverso una ricostruzione storica degli eventi, con scene ambientate nel passato remoto in cui si svolsero gli eventi indagati. La chiave di lettura passa attraverso l’umanità dei ricercatori e si avverte prepotente la necessità di comprendere cosa sia successo, per poter accettare anche le realtà più scomode o sconcertanti.
L’intervista a Dario Piombino-Mascali e alla sua assistente Alessandra Morrone, uno degli eventi collaterali del Festival, è stata estremamente interessante proprio alla luce del film di Scemla. Dario Piombino-Mascali è infatti antropologo e paleopatologo e, tra i vari titoli e impegni, è anche curatore delle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, perciò nel suo intervento si è concentrato sull’aspetto socio-antropologico della decisione di mummificare alcuni dei corpi inumati nelle catacombe.
Il culto dei morti, ma soprattutto dei morti più giovani: Piombino-Mascali ha studiato a lungo la mummia di Rosalia Lombardo e la sua assistente si occupa soprattutto di giovanissimi defunti, delle loro patologie e dei rituali di sepoltura. Quando cominci a studiare materie archeologiche ti viene spiegato che le sepolture infantili più antiche avvenivano sotto il pavimento delle abitazioni, quasi senza corredo, e che ci vollero secoli prima di dare dignità di sepoltura anche ai più piccoli, come se la loro morte fosse un incidente di percorso durante la crescita all’età adulta.
Nel film di Scemla e nelle parole degli antropologi italiani i bambini diventavano episodi, più che persone sepolte: rituali propiziatori oppure manifestazioni di status symbol, di classe sociale (nel caso palermitano). Accanto ai piccoli peruviani gli archeologi hanno trovato anche dei lama, molto giovani, che – pare – in quella cultura erano considerati psicopompi, spiriti che accompagnavano nel viaggio verso l’Aldilà.
L’Aldilà, che espressione poetica e a un tempo vaga e insufficiente. Forse per questo, nell’Aldiquà, la forma estetica del defunto acquista importanza e diventa un vessillo da esibire da parte di chi non riesce a immaginarsi indipendente dalle credenze e dalle superstizioni.
Il rapporto tra vivi e morti è un tema antico quanto il mondo, io scrivo nel giorno di Ognissanti, quando la porta tra i due mondi è resa visibile dalla luce di fuochi, lanterne, candele, lumini, simboli di speranza e di fede, luci che salvano, ma in realtà illuminano un mondo che è sempre lì (qui) attorno a noi, solo che a noi piace dimenticarlo e ricordarcene unicamente in momenti codificati dalla società, possibilmente in riti collettivi.
Tutti santi, siamo, All-Hallow, tutti santi saremo.