Lo scorso ottobre sono stata ospite della Rassegna del documentario e della comunicazione Archeologica di Licodia Eubea e, tra un film, un documentario e una presentazione, ho avuto la possibilità di girare nei dintorni. Ne sono scaturiti dei post, le Cronache di Licodia, ma il materiale raccolto in quei giorni non si è ancora esaurito…
Oggi ricorre l’anniversario della morte di Giovanni Verga, che si è spento a Catania il 27 gennaio 1922. Io ho avuto la ventura di inoltrarmi nelle “rughe” di Vizzini, il paese che gli aveva dato i natali.
Due passi nel Museo dell’Immaginario Verghiano di Vizzini.
“Una voce poco fa” Maria Callas gorgheggia sardonica: Rosina che ne sa una più del diavolo, trilla con astuzia e già pensa al suo Lindoro e a come riuscirà a “vincere” contro il burbero tutore che le impedisce il vero amore. La vanità (e forse vacuità? Ah, bricconcello di un Gioacchino!) femminile riempie la piccola sala all’ultimo piano della palazzina in cui è allestito il Museo dell’Immaginario verghiano, a Vizzini.
Quest’ultimo piano, come si confà a un piano nobile, è arioso e luminosissimo, in una ventosa giornata di fine ottobre: Margherita Riggio, collaboratrice dell’Assessorato al Turismo e curatrice del progetto espositivo al secondo piano, mi sta presentando il suo illustre inquilino, Giovanni Verga.
La mia conoscenza di Verga, lo confesso, è sempre stata piuttosto “antologica”, scolastica. Questa visita, per alcuni versi inaspettata, mi ha aperto gli occhi e ha sollecitato una certa qual curiosità riguardo all’illustre letterato.
Perché, in effetti, quello che si sperimenta nelle sale del museo a lui dedicato, allestite con cura e intelligenza, non è tanto la vita letteraria di Verga, quanto la sua passione e il suo spirito: indomito, curioso, impetuoso, scanzonato, buono, impertinente. Un uomo nato il 2 settembre del 1840 in questo paesino arroccato su una bassa collina, tutto pieno di saliscendi e di viuzze strette e ripide, di scorci da mozzare il fiato e di chiese, ah quante chiese (!), che svelano dietro ogni colonna gli occhi brillanti di una Madonna o di qualche Santo, secenteschi nelle fogge e moderni negli sguardi.
Facile comprendere il motivo che ha spinto Margherita a cominciare il racconto di Verga dalla sala in cui ci troviamo: è dedicata alle figure femminili che hanno attraversato la vita dell’autore verista. E cosa c’è di più “vero” della passione? Perché le ragazze, le donne, che Verga conosce sono una sorta di florilegio di passioni: la purezza (finta), l’audacia (vera), la ritrosia, l’intelligenza … sì, nelle donne di Verga l’intelligenza diventa un’arma di seduzione, qualcosa per cui rischiare il tutto per tutto, lontano da casa.
Nella sala si ricompone un sodalizio letterario, quello di Verga e Capuana, insieme nella Firenze capitale d’Italia, nel 1865. A scambiarsi idee e anche donne, a frequentare salotti letterari dove la passione per le lettere spesso sfociava in passione carnale.
Tra i volti che mi guardano in questa sala ci sono due donne che hanno incrociato in modi diversi, ma ugualmente intensi, la vita di Verga: Giselda Fojanesi (4) ed Evelina Cattermole (5). La prima, infelice moglie del poeta Mario Rapisardi e felice (?) amante di Verga, la seconda, felice (?) amante di Mario Rapisardi e poetessa dalla vita avventurosa come un romanzo… ottocentesco.
Io ricambio lo sguardo trasognato e rimango colpita dalla presenza di così tante fotografie: molte sono opera dello stesso Verga e ritraggono le donne che ha conosciuto, ma anche e soprattutto le persone della sua famiglia e chi viveva nel suo palazzo, i contadini e le loro famiglie, gli amici, i vicini…
Affascinante anche il solo pensiero che il “padre” del Verismo fosse un così convinto e abile utilizzatore dell’invenzione che più di ogni altra ci ha posto di fronte al quesito sull’essere e l’apparire.
E così attraverso le sale, la musica intanto cambia e rimanda le note della Cavalleria Rusticana, ambientata poco distante da Vizzini, in un luogo oggi fatiscente, fagocitato da una natura non domabile. Osservo le teche con il panciotto, i pettini per i baffi, la macchina fotografica, le lettere…e dalla parete mi fissano docili gli occhi di chi immagino sia stato un po’ la cavia di questo scrittore-fotografo.
Mi domando se, proprio questo gioco della fotografia, non abbia suggerito allo scrittore punti di vista diversi, più intimi, dai quali osservare i soggetti dei suoi racconti.
Riprendo a scorrere i volti delle amiche: Maria Brusini (6), che ebbe con Verga un rapporto epistolare durato nove anni e che non poté incontrarlo perché osteggiata dalle zie, le quali avevano raccolto informazioni su quel siciliano con la fama di sciupa femmine. Paolina dei Greppi Lester (2), dell’alta nobiltà di Milano, che Verga incontra a quarant’anni (lei è di poco più grande) e alla quale invia questo primo biglietto: “Basta un vostro sorriso per farmi nascere il sole dentro”.
Altre tre donne sono riunite nel “catalogo”: una è Eleonora Duse (7), con la quale Verga parla di Cavalleria Rusticana, poi c’è Lidia Cristofori Piva, (3) musa di Carducci, il quale diventa – anch’egli – rosso di passione e rabbia per il favore che Lidia mostra verso il lestofante siculo, e infine c’è Dina.
Un nome altisonante quello di Dina Castellazzi di Sordevolo (1), giovane contessa che fa vivere a Giovanni Verga anni di grande – di nuovo – passione … che il “generoso” scrittore condivide con Paolina Lester Greppi.
Sì, non c’è dubbio che in queste fotografie Giovanni Verga ci è restituito in tutto il suo splendore di poeta, romanziere, amatore, un perfetto personaggio da feuilleton.
Eppure, quel “sole dentro” non si accende in maniera indiscriminata: attraversando le sale del museo notiamo anche le parti scure del carattere di Verga, ne leggiamo i momenti bui, entriamo nel mondo di una borghesia siciliana che ha ancora indosso l’aura della famiglia nobile (i Verga pare risalissero a un ramo cadetto dei Fontanabianca) ed esercita il potere della proprietà terriera: una responsabilità gravosa e delicata nella Sicilia dei Vespri e dei Fasci.
Le campane delle mille chiese di Vizzini suonano mezzogiorno, l’orario tipico per i duelli. Chissà quanti ne avrà suscitati Giovanni Verga, l’uomo giunto dalla Sicilia per rubare i cuori delle donne più conturbanti e tormentate di quei primi anni del Regno unificato. Un uomo inquieto, che, in quelle terre così distanti dalla sua, cercava chi potesse restituirgli il sole, cui costantemente anelava.