Esiste un modo per sognare senza paura di essere svegliati bruscamente: basta decidere l’inizio e la fine del sogno, regalarci un sicuro perimetro e, all’interno di questo, lanciare la nostra fantasia a briglia sciolta.
Questo deve essere stato il pensiero che ha portato al processo di organizzazione del Natale. La nascita di un bambino divino è solo l’aspetto esteriore di una tradizione molto radicata (ramificata, direi) nei secoli. Come nella ricetta di un dolce goloso, partiamo dal nucleo, il solstizio di inverno, e aggiungiamo ingredienti che hanno a che fare con il periodo invernale, così come viene vissuto da società agricole in età medievale: una festa di luce (il 13 dicembre) e il lusso di concedersi riposo e feste durante quel periodo dell’anno in cui la terra stessa riposa e il seme cresce, indisturbato, e le attività all’aperto si riducono drasticamente. Otterremo un periodo di 12 giorni (in alcune tradizioni anche qualcosa di più) che i Cristiani decidono di dedicare a Gesù Cristo, ma senza rinunciare alle gioie di Saturno e delle feste che lo celebravano nell’antica Roma, i Saturnali.
Dei Saturnali manteniamo l’aspetto ludico e quella farsa che vede il sovvertimento dell’ordine sociale: lo schiavo eletto rex saturnalicius e il patrizio costretto a indossare gli abiti del servo. Feste, schiamazzi e regali e tanto, tanto cibo…
La conclusione di tutto ciò sarà la dodicesima notte dopo il Natale: una notte associata al viaggio di tre Magi, uomini sapienti che dall’Oriente odoroso giungono a Betlemme in cerca del “re dei re” e finiscono per offrire doni preziosi a un piccolo bambino in mezzo alla paglia.
Io però preferisco rimanere un po’ più pagana e, anziché celebrare gli uomini saggi, decido di ricordare la magia che loro portano con sé: questa notte diviene perciò un luogo sospeso, un momento in cui le identità di ciascuno vengono mescolate e forse, in questa mascherata, riusciamo a dire alcune verità che la vita quotidiana ritiene “fuori luogo”.
William Shakespeare sapeva bene cosa chiedere alla Dodicesima notte e così scrisse l’opera omonima, che sottotitolò “What you will” (Ciò che volete), proprio a sottolineare l’arbitrarietà degli eventi: Viola si traveste da uomo, il conte Orsino non riesce davvero a riconoscere la donna sotto le mentite spoglie? Oppure è più comodo per lui temporeggiare? E la contessa Olivia? Davvero è così cieca da confondere la ragazza con un affascinante giovane? O forse è un gioco delle parti così ben congegnato da sfuggire di mano ai protagonisti… fino a quando questa “notte” lascia il posto a un’alba piena di promesse di felicità e i due gemelli, Viola e Sebastian, diventano i compagni ideali, anche se di modeste origini, dei due nobili in cerca di emozioni vere (e plebee).
Quindi cosa sta accadendo in questa “dodicesima notte”? Tre Magi seguono una stella, una vecchia sorvola i tetti dei bambini a cavallo di una scopa, una donna si traveste da uomo per stare accanto a colui che ama.
Una mattina d’inverno del 1850, Walter Howell Deverell entrò con la madre in un negozio di modista a Cranborne Alley, a Londra. Fu catturato dalla visione di una delle commesse e quella sera stessa si recò dagli amici William Hunt e Dante Gabriel Rossetti in preda all’eccitazione per aver trovato una vera musa ispiratrice.
Si trattava di Elizabeth Siddal, che, nei giorni successivi, fu convinta a posare per la Confraternita dei Preraffaelliti e segnò il suo destino: di donna, di poetessa, di musa. Il primo quadro in cui comparve fu proprio uno di Deverell, ispirato alla piéce scespiriana: Elizabeth è ritratta nei panni da uomo di Viola.
La dodicesima notte è la notte in cui tutto è possibile: seguiamo anche noi la nostra stella e per una notte (e per l’ultimo giorno del Natale) sovvertiamo il destino, forse ne troveremo uno migliore!