Abracadabra

C’è un ritmo nelle cose, un battito leggero che segue le pieghe delle vesti. C’è una mano che batte sulla pelle di capra tesa a coprire il cerchio di legno. L’alito di vento attraversa sussurrando i riccioli un tempo biondi della testa elmata. Scompiglia i capelli e fa gonfiare il mantello dell’auriga innamorato, di Pelope.
Quando le sale sono vuote e buie, il raggio di luna illumina, una a una, le decorazioni del mosaico pavimentale, formando un serpente di luce che invita al gioco: una scacchiera, ecco cosa sembra l’antico pavimento della domus.
Il buio, la luna, il vento: esiste una magia negli oggetti di un museo? Dalla sala più lontana si diffonde un sottile filo di fumo grigio, seguendolo ci ritroviamo attorno a un calderone in rame, senza fuoco acceso, ma pieno di un liquido che sembra sobbollire. Ci affacciamo, illudendo di specchiarci, mentre di fronte a noi ci sorridono due occhi bistrati: la cantilena che sibilano le labbra rosse comincia a farci vorticare e in men che non si dica cadiamo per terra.
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Oggi è il primo di novembre. La festa dei fantasmi inglesi, Halloween, è passata e per strada non si vedono più mostriciattoli di tutte le taglie che chiedono un dolcetto, ma sperano di poterci far spaventare con uno scherzetto atroce. Oggi l’Europa ritrova le sue radici cristiane, quelle che si è costruita dopo secoli di allegro paganesimo, e si scopre più santa. Oggi è previsto il rito e stanotte nel museo il vento farà agitare ben più di due drappi incrociati.

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C’è un ritmo nelle cose, un pulsare di antichi calori: menadi filiformi finalmente rompono la loro posa da ballerine di carillon e si possono agitare, scarmigliate, al suono del tamburo. I satiri finiranno di trattenere il respiro e lasceranno che le pance prominenti si distendano in una corsa scomposta, dietro ai pepli delle loro compagne.Il rito è cominciato, ora quel vento erompe nelle sale, spalanca le vetrine e getta per terra le matrici ancora in bilico. Ma l’unico suono che si sente è il battere ritmato della mano sul tamburo.
Le labbra rosse si schiudono e dalla corona di denti d’avorio comincia a soffiare un sibilo, sempre più gelido. Il sottile cilindro grigiastro dell’alito ghiacciato si insinua nelle sale, creando un sentiero d’argento che sembra seguire un percorso preciso.
Ora al battere del tamburo si è aggiunto un fischio acuto. Le labbra rosse si richiudono, ma il fischio non smette di vibrare.

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A cosa serve il rito e di chi sono quelle labbra?
La notte del 1 novembre segna il passaggio di stato dalla santità dell’aureola a quella del cuore: chi decide quale morto può diventare santo e quale invece è destinato a un anonimo culto funerario?
Stanotte, 1 novembre, il rito sceglierà chi deve rimanere anonimo e chi può diventare santo. Il vento non sbaglia: è democratico e spazza via le incertezze.
Le labbra appartengono a una donna, essere umano non perfettibile. Conosce molto bene i luoghi del museo aretino, soprattutto gli angoli più bui dell’antico anfiteatro. Stanotte ha deciso che si vendicherà, perché è questo che fanno le donne, esseri umani mai perfettibili. Il rito che ha organizzato le è stato suggerito da una delle storie che ha letto nelle vetrine del museo, scritta da una donna e rivolta ad altre donne. Allora si è lasciata ispirare e ha deciso di far “sobbollire le acque” e far soffiare il vento freddo del suo Ka. Chiederà aiuto alle belle donne che danzano con i satiri e a quelle travestite che lottano con Ercole, a loro chiederà di scegliere se celebrare i santi oppure i morti, in questa notte di passaggio.
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La sua è una storia di dolore e di follia: abbandonata dalla madre all’età di quattro anni, Silvestra – questo il suo nome – ha vissuto per dieci anni in un convento di benedettine. Il 1 novembre dell’anno 1340 Silvestra viene mandata a rifocillare gli operai dell’erigendo monastero dell’ordine benedettino di Monte Oliveto: quella notte si perde tra le ombre della antica galleria e nessuno si chiederà più che fine ha fatto.
Comincia una vita soprattutto notturna, adottata dalle altre donne che frequentano i cespugli e gli anfratti di quella zona. Un giorno incontra Dio, purtroppo nella sua forma meno edificante: si tratta del conte vescovo, che ha saputo della bellezza di Silvestra, delle sue labbra rosse. La ragazza diventa una schiava, fino alla fine dei suoi giorni, ovvero fino alla morte per vaiolo, sopraggiunta prima del compimento dei ventidue anni.

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Un altro rimbombo sul pavimento in cotto, il tamburo ha smesso di ripetere il suono martellante ed è stato sostituito da questo rumore metallico: è il pastorale ricurvo che annuncia l’arrivo del conte. Il volto segnato dalle rughe emerge dall’abito candido, ricoperto di ricami dorati. Le labbra di Silvestra finalmente si schiudono in un sorriso e gli occhi di brace attendono impazienti l’entrata di Xxx nella sala del calderone di rame. Nel frattempo, satiri e menadi si dimenano ormai in pieno sabba: la sottile superficie dei vasi corallini è percorsa dalla danza, che fa tremare i vetri delle teche. Anche il cratere con le rosse figure di guerriere è animato dal rito di Silvestra e così la processione del komòs si muove a scatti sempre più veloci, fino a far svanire le figure in una macchia arancione indistinta.
Xxx è arrivato nella sala: ora Silvestra deve solo fargli la domanda.

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Un giorno Silvestra aveva scoperto, tra i crocifissi d’argento del vescovo-conte, una coppa rossa. Lui aveva urlato di lasciarla stare, perché molto fragile, e così la ragazza aveva deciso che doveva riprenderla in mano, non vista, e guardare bene quale figura era impressa sulla superficie. Pensava a un Cristo, perché aveva visto un corpo seminudo, ma una volta riuscita a metterci le mani sopra, aveva capito che si trattava di un corpo femminile e che quella scena le era molto familiare. Il vescovo-aguzzino ci teneva a quella coppa, ma non la mostrava a tutti, anzi, quasi a nessuno. Non era un trofeo, né un dono prezioso, era piuttosto uno dei suoi sordidi segreti e come tale era custodito, al riparo da occhi indiscreti. Più di una volta egli aveva imposto a Silvestra di bere da quella coppa: riempita di vino, era servita ad annebbiare le notti più lunghe.
Quando la ragazza si era ammalata le era stato impedito di raggiungere gli appartamenti del vescovo, ma Silvestra si era intrufolata nottetempo e aveva deciso di rubare la coppa. Si era messa in testa che quelle strane e imbarazzanti figure potevano curarla, e così aveva continuato a bere, facendosi beffa delle urla del vescovo, il quale aveva messo sottosopra tutte le stanze per ritrovare la coppa, ma si era ovviamente tenuto ben lontano da quella della malata.
Il giorno della sua morte Silvestra ricordava bene la sensazione di umido e buio e freddo che l’aveva avvolta. Eppure era riuscita a riaprire gli occhi e, senza un briciolo di sgomento, si era fatta largo tra gli altri cadaveri e aveva scavato la poca terra con cui i becchini avevano ricoperto la fossa comune. Non le ci era voluto molto per comprendere che gli altri non la potevano vedere, così come si era resa conto ben presto del fatto che il tempo per lei scorreva in maniera diversa rispetto agli altri esseri umani, a quelli ancora vivi.
Eppure, tutte queste informazioni non l’avevano spaventata, non le avevano suscitato domande. Tutto era accaduto in maniera naturale e Silvestra, naturalmente, si affacciava alla sua vita di non viva.
Ma piano piano si era fatta strada un’altra esigenza: la vendetta sulle violenze subite dal vescovo. Le preghiere pronunciate ogni notte dopo aver consumato ciò che per il vescovo era illecito e per lei disgustoso, i rosari recitati ogni sera in mezzo ai fumi irritanti degli incensi, i digiuni pasquali e le penitenze quaresimali, indossate con i cilici che facevano sanguinare. E poi, suprema su tutte, la paura della morte, la certezza della punizione e la venerazione di quelle figure di Sante, mutilate o estasiate, ma sempre sfigurate come donne ed esaltate nella devozione a Dio.
Silvestra aveva sviluppato un odio feroce nei confronti dei Santi e stanotte si sarebbe vendicata.

***

“Eccoti, sei venuto, finalmente. Accostati, più vicino.” Le labbra rosse si muovevano lentamente e la voce risuonava profonda. Il vescovo-conte era pallido: non per la luce della luna, non perché si trattava – a tutti gli effetti – di un fantasma, ma perché il suo animo cristiano e superstizioso era stato strappato dall’oscurità del Purgatorio e ora si trovava dinanzi una strega, né più né meno. Può, un morto, avere paura? Il pensiero faceva sorridere Silvestra, ma non la distoglieva dalla domanda che si era preparata: “Ora evocherai per me i Santi che hai pregato durante tutta la tua vita. Li elencherai, uno a uno, e li condannerai all’oblio. Dunque, quali sono i Santi che sei pronto a sacrificare?”
Il vescovo cominciò a tremare e cercò di resistere alla domanda imperativa, ma invano; la magia era troppo forte. Ascoltò la sua voce d’oltretomba cominciare a pronunciare le prime sillabe. Alla fine di ogni nome si sentiva il suono sordo di un colpo di tamburo.
LUCIA” – Tam! – “MATTEO” – Tam! – “TERESA” – Tam! – “DONATO” – Tam!
Sentiva che Silvestra non era ancora sazia, aveva bisogno di altri due nomi e sarebbero stati quelli dei genitori del vescovo, i primi Santi con cui aveva dialogato da bambino: “LAURA” – Tam! – “GUIDO” – Tam!
Nella sala scese un silenzio innaturale e i due spettri si guardarono per un lunghissimo attimo.
Poi si udirono in lontananza ritmi forsennati battuti su tamburi: il suono sordo di calcagni nudi accompagnava urla femminili lanciate nell’aria fredda del museo. Nel giro di pochi minuti si materializzarono satiri e menadi, che tra risate sguaiate e fischi cominciarono a tirare la veste bianca del vescovo e a gridare nomi di uomini e donne del lontano passato di Arezzo: “FINA”, “GIUNTA”, “BENIVENI”, “JACOPO”. Ogni nome era salutato da un giocoso boato e dalle risate. Si arrivò agli ultimi due: “DANZA”, questo era stato il nome della madre di Silvestra, forse un’abbreviazione di Costanza, che i genitori avevano ascoltato in qualche grida di piazza.

Infine, cadde nuovamente il silenzio. Satiri e Menadi si avvicinarono sorridenti allo spettro dalle labbra rosse e le misero le mani sulle spalle ossute. Poi, come se stessero seguendo le indicazioni di un maestro d’orchestra, all’unisono sussurrarono … “SIL-VE-STRA

E così, l’antica ragazzina guardò per l’ultima volta negli occhi il vescovo e si preparò a riposare. Dagli alberi del vicino anfiteatro si sollevarono le immagini diafane degli altri antichi aretini citati dalle creature dionisiache: il rito aveva funzionato e ora i Santi elencati dal vescovo avrebbero perso la loro aureola e sarebbero stati cancellati dai calendari. Al loro posto sarebbero comparsi gli oscuri aretini, strappati al buio della morte anonima, sarebbero stati ricordati anno dopo anno nelle preghiere dei devoti e nelle funzioni dei sacerdoti.
Anche Silvestra, finalmente soddisfatta, avrebbe trovato il riposo che cercava.
Nemo contra Deum, nisi Deus ipse

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