Ogni musica, a meno che non vi chiamiate Schönberg , segue un’armonia sulle sette note, perciò, miei cari 25 lettori, siamo necessariamente arrivati alla settima, a me più cara (dopo il Mi) delle note: il Si.
Se le note che usiamo, tuttavia, sono note di viaggio, la chiave di volta dell’armonia saranno i compagni di questi nostri viaggi.
Nel mio itinerario finto accidentale ho avuto compagne scelte e compagni occasionali. Le mie amiche, quelle che sopportano la mia saccenza involontaria (!) e la mia sonorità notturna (!!) diventeranno affascinanti capitoli della storia che scriverò prima o poi.
In questo post voglio concentrarmi su un aspetto essenziale di qualunque viaggio: il luogo che ti accoglie alla fine di una lunga giornata, che ti fa dormire e che ti offre la doccia calda di cui il tuo corpo aveva bisogno.
Io ho scelto i giacigli del viaggio in solitaria (Tivoli, Subiaco e Sulmona), mentre quelli abruzzesi sono stati selezionati da un’amica accorta.
Di Subiaco ho già parlato, mentre per Sulmona troverò una cornice più adatta.
In una sorta di cavalcata da un lato all’altro del Parco Nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise, ci siamo arrampicate su di un borgo reso famoso da Gabriele D’Annunzio: Anversa degli Abruzzi.
Qui abbiamo trovato ristoro (e molto di più!) all’agriturismo La porta dei parchi.
Arrivando all’agriturismo si capisce subito che si tratta di uno di quelli ancora “vecchio stampo”, che offre, tra le attività, la possibilità di assistere alla mungitura (ancorché meccanica) di capre o pecore, che ti accoglie in maniera semplice, tra colonie di gatti che ti guardano pazienti e saccenti – son gatti, d’altronde – mentre ti aggiri con fare stupefatto e attitudine da safari (fotografico).
Però, già nell’ufficio in cui ti introduci per il check-in di rito, riconosci lo sguardo lungo del pastore in merchandising: presso la struttura (e online) è possibile “adottare una pecora” e sugli scaffali pieni di gadget pecorosi intravedi i certificati di adozione più recenti, tra i quali fa bella mostra di sé quello di Paola Cortellesi (!).
Camera accogliente e spaziosa, così come il bagno e la doccia rassicurante e calda, ma il vero fiore all’occhiello è la cena! Per una cifra modesta ti viene proposto un menu completamente a base di … pecora! Inevitabile pensare a quella che magari hai adottato e che sulla tavola imbandita ti si offre, in ogni sua parte! Pasto luculliano, curato in ogni particolare, genuino e, come dicevo, economico.
Di tanto in tanto compare il genius loci, immaginiamo il proprietario (la proprietaria l’abbiamo conosciuta: una toscana DOC trapiantata in Abruzzo da più di 30 anni): grosso cesto di capelli ricci, più bianchi che neri, epa prominente e sorriso a metà tra il burbero e il divertito, un personaggio a suo modo rassicurante.
Il secondo luogo, da citare perché ha contribuito in maniera essenziale alla buona riuscita della vacanza, è un altro agriturismo: Statale17 a Poggio Picenze.
Conduzione familiare, facce sorridenti, con rughe che ti raccontano tanto, mentre fai il check-in e studi il menu.
Franco, il figlio sommelier, come secondo lavoro è impiegato alle poste del borgo e questo pensiero ti catapulta in un Benvenuti al Sud in crossover con Giù al Nord, e ti sembra di respirare l’odore delle vie del borgo mentre lui, con simpatia consumata, ti legge le idee dello chef per la serata.
Tralascio infatti la descrizione dell’appartamento, una vera piazza d’armi fornito di tutto, con quattro posti letto e decisamente economico (90€ al giorno!) e mi concentro sulla cena (anch’essa estremamente economica)!
Tutto buono, naturalmente, tutto presentato con una cura dei particolari tipica di chi ama il proprio mestiere e vuole “solo” metterti a tuo agio, vuole vedere spuntare il sorriso nei tuoi occhi. Ciò che mi è rimasto impresso è stato “il nome proprio”: ogni prodotto non era solo “a chilometro 0” ma aveva un nome proprio. Il formaggio lo fa Andrea, il pane Evandro, e così via.
Ho avuto la netta sensazione che lì, tra quei borghi ancora con tracce fresche di sismi non più molto recenti, la forza stia proprio nell’unione, il valore aggiunto nella voglia di rimettersi in gioco, la qualità nella sincerità dei rapporti umani.
Conviene ora che, in questo post così tanto “foodblogger” rispetto ai miei soliti, spenda due parole per uno dei liquori molto diffusi in Abruzzo: il (la) Ratafià.
Si tratta di un liquore dolce, a base di amarene, e quindi mi sa che tra i miei 25 lettori non molti saranno desiderosi di assaggiarlo! Il segreto sta nel nome: ratafià deriverebbe da un latino “rata fiat” inteso di patti o contratti. Insomma, sarebbe il liquore bevuto a suggellare il raggiungimento di un accordo. Eccola la forza abruzzese: la voglia, ancora e nonostante tutto, di appianare divergenze e trovare una convergenza, su cui costruire un futuro, per tutti.
Vengo dalla culla del municipalismo, il Granducato di Toscana, dove il detto più diffuso è: “meglio un morto in casa che un __ all’uscio” (da completare con la città che più ci sta in odio), ho visto anche in Abruzzo le grandi o piccole schermaglie tra borghi limitrofi, ma qui la Grande Montagna sembra alla fine sorridere benevola a tutti e aspettare paziente che le incomprensioni si risolvano… in un bicchiere dal sapore liquoroso.
Tra i compagni di viaggio devo infine citare due abruzzesi DOC. Uno è un amico, compagno di scorribande “social”, ottima guida di Alba Fucens e di Celano (a breve su questi …monitor!); e poi uno inaspettato e benedetto. Si tratta di un fantomatico “contatto facebook”, una persona con cui condivido interessi e curiosità sul web, ma con cui non ci eravamo mai incontrati. Ebbene, ho deciso di approfittare della sua voglia di illustrarci L’Aquila, la sua città, e sono rimasta incantata da tanta generosità.
L’Aquila è una città difficile, credo lo fosse già prima del terremoto, così estremamente ricca di storia (99 cannelle, 99 chiese, 99 storie medievali da riassumere in 99 piazze!) e così anche moderna, grazie all’Università e alle iniziative musicali e artistiche. Dopo il terremoto L’Aquila è una città che ostinatamente vuole recuperare quella storia e invece si trova spesso al centro di una retorica di plastica, strumentale, inutile.
Visitarla con un cittadino (fortunato, a suo modo, dato che vive in un quartiere tra i meno colpiti e quindi è tuttora in casa sua) ha significato girarla evitando la retorica e riempiendo gli occhi con i tantissimi punti, magari più di 99, sui quali la comunità tutta fa leva per risollevarsi.
Abbiamo visitato lo studio di un giovanissimo e talentuoso fotografo, abbiamo sbirciato nei cortili dei meravigliosi palazzi Sei- e Settecenteschi che man mano vengono recuperati alla fruizione pubblica e che, in occasione della Perdonanza, diventavano palcoscenici ideali per spettacoli e mostre.
Abbiamo visto che L’Aquila è anche architettura fascista (ops, razionalista, pardon) e che non è facile far convivere anime così distanti e così importanti, ognuna a suo modo.
Abbiamo toccato con mano gli sforzi di far rivivere il centro storico, a oggi il più martoriato (il Duomo è ancora chiuso) e il tutto senza retorica, ma con un’obiettività che in fondo è anche la cifra di questi abruzzesi, cittadini di montagna!
Un solo momento mi ha colto alla sprovvista: la vista di una chiesa con il tetto crollato quasi interamente, e l’intelaiatura d’acciaio che, come un tutore, cercava di mantenere ancora un po’ della struttura originaria. Non so perché, ma lì ho avuto un singhiozzo strozzato. Forse mi ha colpito la ferita così aperta, forse mi ha commosso il tentativo struggente di ricostruire nonostante tutto. Ho pensato che, giusto quella chiesa, quel tetto, bisognava lasciarli andare, o mantenerli monchi, a costante monito di caducità.
In entrambi gli amici abruzzesi ho trovato quel che mi ha sempre affascinato degli abitanti di Trinacria: la voglia di raccontare la propria terra, un orgoglio e un senso di appartenenza che si mantengono intatti anche se la vita, il lavoro, ti portano in altre regioni.