Quando ho cominciato a riportare le mie annotazioni sotto forma di note musicali, non sapevo di essere incappata in un affascinante filo rosso, sottile come un rigo di pentagramma.
I celebri “canti gregoriani” sono tradizionalmente legati a un Papa benedettino, Gregorio Magno, e benedettino è il filo rosso che mi ha avvolto in questi giorni di viaggio.
Così, continuo nella metafora del canto e quello di oggi lo accordo avvalendomi dell’uso di un diapason culturale: il “la” che ne scaturisce sarà una nota di base, sulla quale potrò armonizzare suggestioni che sembrano slegate tra di loro, ma che, una volta suonate insieme, producono – almeno spero – una musica gradevole.
Il breve itinerario benedettino è cominciato a Subiaco ed è terminato a Collemaggio: mi ha condotto in mezzo alle montagne, perché è qui che i benedettini si trovavano a proprio agio. “Il mio regno (dei Cieli) per una grotta!” si potrebbe parafrasare… e non posso fare a meno di immaginarmi gruppi di giovani sensibili, che si avventurano alla ricerca di un rito di passaggio, ma si imbattono inesorabilmente in anfratti già “occupati” e così macinano chilometri per potersi finalmente dire eremiti.
A Subiaco sono entrata nel Sacro Speco di Benedetto, spostandomi a Sulmona ho rimirato il monte Morrone, che ha visto nascere la vocazione di un monaco destinato a rimanere nella storia.
Dagli antri del Morrone Pietro medita sulla vita e si sente altruista, desideroso di aiutare, dal buio di quella ferita del monte. Ma viene rapito alla luce, di marmi variopinti e Madonne azzurre, così diviene papa.
Forse è il pensiero (rimpianto) ai cieli limpidi dei suoi monti a fargli scegliere il nome di Celestino.
Il suo primo atto è quello di perdonare: si sente in colpa, Celestino, per un qualche peccato di superbia che pensa di aver commesso accettando l’alto incarico. Così perdona tutto. E sceglie un momento perfetto per officiare il perdono: la fine dell’estate, quando un colpo di spugna può cancellare le grandi e piccole libertà che il caldo estivo ci spinge a prendere.
Abbassiamo la guardia e ci dimentichiamo, sciocche cicale, del nostro destino di formiche.
Attorno a Celestino si stringono i seguaci: usciti dalle grotte limitrofe, alcuni prendono il colore rosso del porporato, e poi ci sono i Fratelli di Santo Spirito o della Majella, già chiamati Morroniani e ora pronti a prendere il titolo di Celestiniani. Diffondono il verbo del loro maestro muto, una regola di vita, che per Pietro era attitudine naturale.
Ora, nel nome di questo papa umile, eremita mancato, si fondano chiese, monasteri, grance. La vita sembra scorrere placida per tutti, quasi fortunata, ma non per Celestino, sempre meno convinto della sua scelta imposta.
I lavori per la chiesa che ha pianificato durante intimi colloqui con la Vergine vanno avanti spediti. La Perdonanza è una realtà importante, Celestino V è amato dai fedeli. Ma Pietro fugge nuovamente sui monti, rinuncia a tutto, per guadagnare molto di più.
La fine di Pietro è cronaca, il suo destino irrimediabilmente legato a quello del suo creatore-carnefice, Bonifacio VIII.
Tra Subiaco e Collemaggio l’itinerario benedettino, tanto puntuale quanto improvvisato, mi ha portato sulle rive di un lago e nelle rocce di un altro antro: l’eremo di San Domenico, presso le gole del Sagittario.
La figura di Domenico è anch’essa estremamente affascinante: come ogni benedettino alla ricerca del “deserto” spirituale, contribuisce a costellare i rilievi di ben quattro moderne regioni (Lazio, Abruzzo, Molise e Campania) di “deserti portatili“, quegli eremi che oggi attraggono turisti di varia estrazione.La grotta di Domenico entra profonda nelle viscere della montagna, ma oggi quel che vediamo è un’area picnic pulita e invitante, guardata a vista da una cappella ottocentesca e da tabernacoli di via crucis disposti ordinati sulla roccia. Per accedere a quest’area sacra ed enogastronomica è stato costruito un ponte (in sostituzione del più antico, antecedente la moderna diga) cui hanno contribuito enti pubblici e fedeli privati: i mattoni firmati sono un atto di devozione quasi calvinista.
Ecco, Benedetto, questa è la tua eredità: montagne traforate, aria frizzante e miracoli che servono a ridurre la distanza tra la natura e la cultura.
A noi che visitiamo le chiese resta l’impressione di trovarci davanti a veri e propri esercizi di stili diversi. Forse riflettono un po’ la irresistibile ascesa di Pietro/Celestino: partono romaniche, solide nella loro fede fatta di chiaroscuri, e poi esplodono in un barocco accecante.
Mi allontano dalle tue montagne, Benedetto, e anche dalle tue pietre, Celestino, e perfino dalle tue serpi, Domenico: l’ombra lunga del Gran Sasso mi terrà al fresco ancora per qualche giorno, nel ricordo. Un’ombra che racconta favole belle, ma anche terribili, il tutto ritmato dal sommesso suono di un canto gregoriano…
Sulla prima sillaba si iniziò un coro lento e solenne di decine e decine di voci, il cui suono basso riempì le navate e aleggiò sopra le nostre teste, e tuttavia sembrava sorgere dal cuore della terra.
Da “Il nome della rosa”, Umberto Eco.