Quello che dico sempre ai miei ragazzi, mentre mi invento Virgilia in classe e li accompagno in un viaggio lungo un semestre attraverso i meandri della mitologia greca e romana, è che la tanto citata – solitamente a sproposito – hybris è forse lo strumento più sottile che gli dèi hanno per tormentare gli uomini.
Hybris è infatti il peccato commesso da chi “sgarra”, ma le regole da seguire non sono mai molto chiare, volutamente aggiungerei: per questo, ad esempio, Ippolito cade sotto gli zoccoli del toro mandato da Poseidone, e non sa nemmeno lui perché o come… forse quella svampita matrigna che si è ritrovato, Fedra, ha convinto suo padre Teseo di essere innamorata del figliastro? Non si rende conto, il giovane, che la colpa principale è comunque la sua: quella di aver disdegnato una dea, anche se in favore di un’altra. Non si rompe l’equilibrio, ognuno vuole la propria parte, ogni dio deve ricevere il proprio culto.
La mostra al Museo Archeologico di Napoli (in chiusura, purtroppo) dedicata agli “Amori Divini” ci fa vedere da vicino quanto siamo piccoli nei confronti degli dèi e quanto indifesi di fronte ai loro capricci.
Ma è anche un modo molto intelligente e diretto di mostrarci che la necessità di perderci nel mondo degli dèi greci ha continuato a tentarci ben oltre l’età classica: in mostra sono infatti raccolti diversi quadri del Cinque-, Sei- e Settecento, nonché statue in bronzo e marmo.. molti oggetti provengono, pensa un po’, dalle raccolto medicee!
Uno dopo l’altro scorrono davanti ai nostri occhi, già illuminati dall’abile accostamento del titolo, gli episodi più controversi delle relazioni sentimentali tra gli dèi e gli esseri umani: Callisto, sedotta da Zeus e per questo punita da Artemide a perdere la propria identità umana e diventare un’orsa; Iò, anch’essa sedotta da Zeus e condannata a vagare, in forma di giovenca, per il Mediterraneo, tormentata da un tafano, verrà salvata da Prometeo, ma questa è una storia che vi chiedo di leggere nel Prometeo Incatenato di Eschilo, il primo trattato sul libero arbitrio. C’è poi Ermafrodito, condannato da.. una stalker! Una ninfa che ottiene per lui un destino ibrido: in mostra, accanto ai più famosi esempi di Ermafrodito dormiente, che ci restituisce una sorta di accettazione passiva e tranquilla della sua nuova condizione, c’è una statua di Satiro che tenta di possedere il/la giovane, un esempio di violenza inaudita e muta nel ghigno di marmo.
Il mito di Callisto è forse uno dei più affascinanti, un po’ perché meno trattato di altri, e un po’ per la sua natura: Zeus seduce sì la ninfa, ma perché prende le sembianze di Artemide (!) e questo particolare, unitamente alla trasformazione in Orsa, fa pensare automaticamente alla condizione delle “orsette” di Brauron, le giovani educate nel santuario di Artemide. Evidentemente anche per loro valeva, come per i maschietti, una educazione sessuale che le legava alle loro compagne più grandi.
In Amori Divini troviamo anche Ganimede: rapito da Zeus e ritratto insieme all’aquila che nel mito è il simbolo del dio “rapace”, ma che nelle rappresentazioni iconografiche è quasi un animale da compagnia, una sorta di Hobbes (!). Infine Atteone, anch’egli da annoverare tra i “ma come facevo a saperlo” della mitologia greca: sfortunato cacciatore che si imbatte nelle nudità di una dea e ne viene ferocemente punito.
Questa immersione in una realtà “alternativa”, dunque, ci mette discretamente davanti all’unica grande verità del mito greco: non fidatevi, mai!
In maniera saggia il Museo Archeologico di Napoli ha voluto accostare la mostra a una modernissima serie televisiva: American Gods. Lo ha fatto con una riflessione a voce alta, una conferenza che si è tenuta ieri sera di fronte a uno dei capolavori della collezione farnese: il toro, ossia il supplizio di Dirce (lei non poteva fare la gnorri, quella punizione se la meritava eccome!).
L’accostamento è interessante e allo stesso tempo ardito, perché American Gods è una serie che si basa sull’omonimo romanzo di Neil Gaiman e che ha come protagonista principale quanto di più lontano dagli dèi dell’Olimpo: Odino!
A grandi linee, ed evitando spoiler, la serie riguarda, infatti, una fantomatica guerra tra dèi tradizionali e dèi moderni: i tradizionali sono gli Aesir, della mitologia nordica, e poi Gesù, i Jinn, e le varie divinità più “classiche”.
I moderni sono, beh, quasi scontato forse ma sono le nuove tecnologie, che stanno prendendo il posto innanzitutto della nostra capacità di immaginare e di lasciarci andare alle emozioni più profonde.
Odino è il dio che decide di chiamare a raccolta gli antichi compagni e di organizzare una controffensiva, per evitare l’oblio.
La storia principale è inframezzata da “quadri”, episodi che servono a percepire meglio gli antichi dèi tra di noi.
Ecco, questi episodi minori sono la vera scintilla della storia, secondo me. Certo, la figura di Odino è perfetta per lo scopo del romanzo: Wotan/Odino è sempre stato il dio vagabondo, che si traveste da straccione e si insinua nelle vite dei mortali, per controllarli – forse – ma soprattutto per divertirsi alle loro spalle. Se Zeus cambia forma e dichiara la sua natura di dio atmosferico, Odino si fa uomo tra gli uomini, l’infimo tra loro, e prende le sue donne con l’inganno. Accanto a Odino c’è un Leprecauno e allora io non posso fare a meno di pensare che il buon Gaiman deve aver almeno letto “Profumo di Jitterbug”, di Tom Robbins.
Nel libro di Robbins i protagonisti sono un vichingo che si accompagna a una bellissima indiana ed è aiutato da Pan in “persona”! Robbins riesce a riempire il suo racconto di riferimenti storico-antropologici e la coppia così assortita scopre un particolare tipo di meditazione che li rende immortali, dunque simili agli dèi… (ma su Robbins non vi dico di più, dovete leggerlo!).
Dicevo però che gli episodi minori di American Gods sono le vere chiavi di volta di tutta questa nostra chiacchierata: dove sono gli dèi oggi, sono ancora in mezzo a noi? Ne sentiamo il bisogno?
La figura più affascinante è sicuramente quella di Bilquis: si dovrebbe trattare della Regina di Saba, ma non è questo che interessa, Bilquis ama, in maniera totale, sensuale e violenta. Cacciata dai Talebani (sì, così accade nel libro), in America diventa una barbona, che gli dèi moderni salvano iscrivendola su…Tinder! E così, la dea della fertilità, signora delle orge e datrice di vita, incontra i suoi amanti in una stanza rossa. Non fa distinzione di genere o età, tutti, al culmine dell’orgasmo, vengono “fagocitati” e assorbiti nella sua vagina.
L’immagine è indubbiamente forte, ma il senso è chiaro: la dea ti possiede completamente e, durante l’atto, Bilquis chiede solo una cosa, di essere adorata. Così, in una anonima stanza di Motel, si riproduce un rituale di iniziazione che affonda le proprie radici millenni prima dell’arrivo di Gesù Cristo.
Un altro aspetto molto curato nel libro è il rapporto con la morte: Gaiman deve essere particolarmente affezionato al rito della pesatura del cuore presso gli Egizi. In sé è quasi una banalizzazione, eppure mi è piaciuto notare un particolare: una donna musulmana muore per un banale incidente domestico. Alla porta si trova Anubi e inizialmente è sconcertata, perché non pensa che sia il dio “giusto”. Tuttavia, alla fine della sua vita prevale una tradizione ancestrale, prevalgono i racconti della madre egiziana, prevale, insomma, una sorta di naturale inclinazione, uno ius soli o ius soul (!). Là dove sei nato e dove sei cresciuto troverai le radici del tuo destino: anche se, viaggiando o cambiando veste politica, ti ritrovi incasellato in una religione diversa.
American Gods ci pone una domanda ormai non più evitabile: abbiamo ancora bisogno degli dèi? Gaiman e Odino pensano di sì, o almeno lo sperano.
Noi continuiamo la nostra vita reale e poi ci ritagliamo del tempo per una realtà “aumentata”: dai desideri, dalla fantasia e, perché no?, anche dalle mostre di mitologia.
Poi torniamo a casa, ci guardiamo allo specchio, e speriamo di scorgere in un dettaglio la nostra immortalità.
*Un verso di Personal Jesus, canzone dei Depeche Mode. La libera traduzione è “allungati e tocca la fede”