Ci sono molti modi per rimanere affascinati dall’archeologia. Di sicuro, lo scavo è quello più immediato e diretto: a contatto con la terra e con l’emozione di recuperare a nuova vita reperti sepolti dal tempo, magari per secoli.
La visita a un museo archeologico è un altro momento carico di pathos, o meglio, lo può essere. Dipende molto dal tipo di museo e da chi ci fa da “Virgilio” in un viaggio attraverso mondi più o meno conosciuti.
Poi c’è la Centrale Montemartini.
Un luogo magico, voluto dalla mente illuminata di un allestitore o curatore, il cui nome si perde nei meandri della burocrazia grigia, ma che andrebbe invece portato a esempio perché ben 20 anni fa, quando ancora allestire musei – soprattutto archeologici – era molto poco social e per niente media, decise che macchine e statue erano un binomio bellissimo.
Di questo luogo avrò modo di parlare presto, nel frattempo vi invito a leggere le riflessioni di una viaggatrice d’eccezione: Centrale Montemartini attraverso gli occhi di Marina.
Io invece vorrei parlare del giovane figlio di Quinto Sulpicio Engramus e di Licinia Ianuaria: Quinto Sulpicio Massimo.
Appena undicenne, il suo sorriso di marmo è incorniciato in una edicola e lo incontriamo in un angolo dell’ultima sala della Centrale, accanto a una uscita di sicurezza.
Sembra schivo, il piccolo Quinto, e lo sguardo abbraccia un punto nell’infinito, mentre le mani stringono un volumen, un libro.
Una cosa colpisce di Quinto e del suo monumento: sembra sia stato preda della furia di uno scalpellino compulsivo! Che ha riempito letteralmente ogni angolo del lato principale dell’edicola con parole, in greco e in latino. Perfino il volumen accoglie alcune frasi, e l’effetto è quello degli appunti presi a lezione, quando ci siamo dimenticati di portare il quaderno e chiediamo in prestito “solo due fogli”, finendo per scrivere in verticale, con abbreviazioni avventurose, o negli angoli, con equilibrismi di parole e frasi.
I genitori di Quinto Sulpicio Massimo hanno voluto così rendere omaggio al giovane, morto a 11 anni, ma già famoso per aver partecipato, appena decenne, al terzo certamen capitolino. Lui, così piccolo, in mezzo a una cinquantina di poeti, nel 94 d.C. Il suo componimento non vinse, ma ottenne una corona, una sorta di premio della critica, come apprezzamento da parte dei giudici, stupiti nel vedere tanta competenza in un ragazzo così giovane. Il monumento funebre di Sulpicio è dunque ricoperto dal testo in greco, come era previsto dalla gara, e in latino, del componimento presentato al certamen.
E quale argomento ha scelto Quinto Sulpicio Massimo per convincere i giudici? Il mito di Fetonte.
Ecco, questo particolare mi ha colpito forse ancora di più dell’originalità del monumento stesso.
Il ragazzino, a dieci anni, decide di raccontare la ramanzina di Giove ad Apollo, accusato di essere stato troppo indulgente con il figlio Fetonte.
Il mito di Fetonte è un classico esempio di hybris punita, unito a racconto eziologico, che spiega l’importanza dell’Eridano (il Po) nel commercio dell’ambra. Il giovane Fetonte vuole guidare il carro del Sole e lo sottrae al padre, Apollo. Un gesto che sembra la classica bravata, il figlio neopatentato che si mette alla guida del bolide paterno. Ma l’inesperienza impedisce al ragazzino di tenere saldamente le briglie dei cavalli e così il carro si avvicina pericolosamente alla terra, bruciando i campi, oppure si allontana, lasciando tutto e tutti al gelo. Giove è costretto a intervenire e fa precipitare Fetonte nell’Eridano, per poter recuperare il carro e ridarlo al legittimo proprietario. Le sorelle di Fetonte, le Eliadi (cioè figlie del Sole), si affrettano sulle sponde del fiume e cominciano a piangere calde lacrime. Lentamente i loro corpi mettono radici e si trasformano nei pioppi che orlano gli argini del Po anche oggi, mentre le lacrime sono gocce di ambra che cadono nell’acqua.
Il commercio dell’ambra proveniva dal Baltico e raggiungeva la pianura padana attraverso rotte fluviali.
Ecco che Quinto Sulpicio, il figlio che ogni genitore vorrebbe, studente modello e enfant prodige, svela il suo lato ribelle e racconta proprio la vicenda di un ragazzo probabilmente coetaneo. La hybris di Fetonte viene punita, ma Quinto non si dilunga sui momenti del furto o della punizione, bensì sulla figura del padre “distratto”, che non è stato in grado di correggere il figlio o di controllarne la crescita e l’etica.
Mi commuove Quinto, mi colpisce la grande maturità e mi incuriosisce questa sua scelta: forse una riflessione sul rapporto padre-figlio? Forse una richiesta di attenzione da parte di un ragazzino sensibile?
O forse le mie sono pure speculazioni e la vicenda di Quinto Sulpicio è solo una storia di ordinaria passione per lo studio di exempla ormai classici, anche per il I secolo d.C.
“…essendosi indebolito e ammalato per il troppo amore per le Muse”
ecco cosa scrivono i suoi genitori come epitaffio.
E Quinto diventa, in un batter d’occhio, un perfetto Leopardi: affacciato alla finestra in una notte d’estate, a interrogare la luna, oppure a cercare con gli occhi un carro proibito su cui balzare…