Il motto dell’Arma dei Carabinieri sembra concepito ad hoc per definire la missione di uno dei suoi Comandi più prestigiosi: la Tutela del Patrimonio Culturale.
Costituita il 3 maggio del 1969, tale sezione dell’Arma è stata la prima nel mondo a destinare forze investigative pubbliche per tutelare la salvaguardia dei beni culturali di una nazione e per perseguire, spesso con rogatorie internazionali, i trafficanti di opere d’arte.
I successi del Comando Tutela si sono moltiplicati, anno dopo anno. Indizio, ahimé, di un problema serio e di ampio respiro, quello del mercato illecito di opere d’arte, ma anche della tenacia e della capacità, nonché della lungimiranza di chi è addestrato a difendere l’identità di una nazione.
Prima di ogni iniziativa volta a “fidelizzare” il cittadino-cliente nei confronti del bene comune; prima di ogni retorica che ha cercato di suscitare un senso di responsabilità, se non di appartenenza, culturale; prima di ogni evento che “socializza” la fruizione di luoghi della cultura; il Comando Tutela del Patrimonio ha saputo convertire forze di investigazione in veri e propri archeologi del crimine internazionale.
Ho avuto la fortuna di assistere ad alcune lezioni del generale Roberto Conforti, figura storica che ha guidato il Comando Tutela in molte, appassionanti battaglie: ricordo la semplicità e la passione con cui ci spiegava il ruolo del Comando e il rapporto complicato con i musei di mezzo mondo (come il Getty, dove, informati dell’arrivo del generale, sparivano temporaneamente dalle vetrine i pezzi più “scottanti”).
In questi giorni a Firenze è in mostra una selezione di alcuni degli oggetti recuperati in anni di attività del Comando Tutela del Patrimonio; la “Tutela Tricolore” è visibile nella nuova sezione di mostre temporanee degli Uffizi, è ad accesso gratuito e rimarrà allestita fino a metà febbraio.
Il percorso, in realtà, non riguarda la sola attività dei Carabinieri, ma è piuttosto un viaggio attraverso i tanti attacchi che il nostro patrimonio culturale ha subito nei decenni, e per i quali si sono mobilitate le forze dell’ordine.
Il primo impatto è, a dir poco, devastante: una tela di grandi dimensioni, completamente sfregiata… si tratta di un quadro rimasto tremendamente rovinato dalla strage di Stato di via dei Georgofili, il 27 maggio 1993.
Un messaggio chiaro per chi entra in mostra, gli attentati ai Beni Culturali lasciano ferite difficili da rimarginare, a volte impossibili, come testimonia bene la riproduzione fotografica di un altro dipinto andato distrutto, e i frammenti di altre tele, briciole non più ricomponibili.
Forse seguendo il filo rosso di una “guerra all’arte”, la sezione successiva è dedicata alla figura di Rodolfo Siviero. Noto come “l’agente segreto delle opere d’arte”, Siviero, figlio di carabiniere, divenne celebre per la tenacia con cui decise di recuperare le numerose opere trafugate dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale. In mostra possiamo ammirare alcuni dei suoi più celebri recuperi e così accedere al livello più profondo della Tutela Tricolore.
Perché, in effetti, quel che ci viene proposto non è un percorso storico-artistico, o meglio, è anche questo, ma ogni opera esposta è presentata attraverso le peripezie che l’hanno fatta ritrovare, strappata alle grinfie dei più smaliziati trafficanti, tolta agli ambienti asettici di qualche caveau, ripristinata alle sale frequentate e pubbliche di musei importanti.
Così, seguendo i successi di Siviero, veniamo trasportati negli anni della guerra, quando l’UNESCO stava per fare la sua comparsa e nel frattempo i Nazisti si sentivano padroni di uomini, donne, bambini e “suppellettili” di pregio, e venivano scambiati per amanti dell’arte…
Risale a quegli anni la prassi di tagliare l’oggetto
trafugato, per poterlo trasportare meglio, o per farlo arrivare più velocemente e in sicurezza sul mercato.
La terza sezione si apre con alcuni oggetti che meriterebbero una mostra a sé. Si tratta della grande opera di investigazione che si originò da un fortuito controllo in autostrada! Venne fermata l’auto di un uomo, Giacomo Medici, il quale si rivelò essere un trafficante d’arte a capo di una rete molto estesa di acquisizioni indebite e illecite compravendite. Come nei più classici dei film dell’orrore, il trafficante “seriale” aveva nel portabagagli una quantità spaventosa di polaroid che ritraevano vasi, statue, quadri. Spesso interi, spesso in frammenti (per la ragione pratica esposta sopra).
Dalle indagini emerse un traffico internazionale che aveva in Svizzera il centro di smistamento (grazie soprattutto alle maglie molto larghe nella legislazione locale) e nei principali musei del mondo gli acquirenti più prestigiosi. I frutti di questo scandalo li godiamo ancora oggi, si chiamano “Nostoi”, “Venere di Morgantina” ecc.ecc.
Ma, senza dilungarmi sulla Medici Conspiracy (vd. libro pubblicato), vorrei sottolineare il pregio degli oggetti esposti in mostra: da Vibia Sabina, strappata alla placida residenza di Tivoli, all’hydria del Pittore di Micali, caposaldo dei corsi di archeologia e di mitologia greca, con la celebre immagine dei pirati tramutati in delfini (chissà che non sia un desiderio recondito dei nostri difensori dell’Arma!).
Un cratere mi ha colpito più degli altri: si tratta dell’opera del pittore Assteas, come dice l’iscrizione, che ha ritratto il ratto di Europa.
Il mito fondante del nostro continente, ricco di messaggi e interpretato in mille modi già in età antica. Assteas decide di ritrarre la personificazione di Creta, tra le divinità che assistono al ratto, prefigurando la fine della folle corsa del toro/Zeus; inoltre, a suggellare l’unione di Europa e del suo rapitore, il pittore mette “Pothos“, il desiderio, una divinità forse più sensuale di Eros, sicuramente meno comune.
Si passa quindi a una sala in cui i reperti sono solo riprodotti, perché il vero protagonista è un video delle teche Rai: si documenta il rientro di tre importanti dipinti rubati ad Urbino nel febbraio del 1975 e recuperati dai Carabinieri nel marzo del 1976. La partecipazione della cittadinanza è quasi commovente e scalda il cuore, ma segna anche una tremenda distanza con l’epoca odierna. Io ho visitato la mostra proprio nel giorno della conferenza stampa per il recupero dei quadri di Castelvecchio, quelli finiti in Ucraina: le poche decine di tweet, a commento dell’evento, stridevano a confronto del bagno di folla dei cittadini urbinati, raccontato prontamente dalla televisione di Stato.
A questo punto, anche per non rovinare la visita che raccomando caldamente, sorvolerò su alcune sezioni e darò conto dell’ultima vetrina esposta.
Si tratta di una collezione di gioielli, rubata a Villa Giulia nel 2013. Non è solo l’efferatezza del furto a colpire (fumogeni, vetrine fracassate), ma l’individuazione di chi ha commissionato il furto: “una facoltosa signora russa che desiderava possedere proprio quei gioielli“!
Devo ammettere che un poco mi è mancata, nella narrazione della mostra, la parte dedicata alla preparazione scientifica dei Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio: perché potrebbe sembrare che, soprattutto in alcune circostanze, i Carabinieri intervengano senza alcun supporto scientifico, archeologico o storico-artistico. D’altro canto è chiaro che il messaggio della mostra è un altro.
I curatori ci chiedono di riflettere sul danno che viene subito dall’intera collettività, ogniqualvolta un oggetto, grande o piccolo che sia, viene sottratto illegalmente. Se il semplice cittadino non se ne accorge, o decide che non sia un danno grave, c’è chi invece si prende l’incarico di vigilare, tutelare e recuperare.
Chi commercia in opere d’arte rubate non è un appassionato d’arte, ma solo una persona che vuole dimostrare un potere effimero, economico, con cui decide di schiacciare un diritto di tutti. L’identità di un popolo passa attraverso la sua cultura, dovrebbe essere interesse di ciascuno di noi il preservarla.