Cinque puntate per un racconto molto breve. Un esperimento, in realtà, ambientato in un anno importante per la Repubblica romana, per l’Impero romano e per la colonia di Florentia.
Siamo nel 27 a.C. e il veterano Settimio si trova a fare i conti con la propria vita, con le proprie disillusioni e con i sogni di gloria del figlio.
Qualcuno potrebbe vedervi un riferimento alla situazione politica italiana attuale, e magari vedere nell’Ottaviano che diviene Augusto un pallido ritratto del “non-giovane” che ci fa da Presidente del Consiglio.
Beh, quel qualcuno non sbaglierebbe…
Siamo giunti all’epilogo: ecco i link alle puntate precedenti.
Puntata UNO
Puntata DUE
Puntata TRE
Puntata QUATTRO
Farsàlia
All’arrivo di Facundo, Glauco diede il segnale alla cucina e le prime portate cominciarono ad arrivare in tavola. Settimio e Lucio sedevano insieme, mentre a Cieco e Facundo era stato lasciato un altro letto; Marco e Settimia sedevano poco distanti e Roscio si era accomodato sul terzo triclinio. Settimio aveva deciso fin da subito che Roscio avrebbe partecipato ai banchetti organizzati nella casa: la sua compagnia gli piaceva e, almeno a casa sua, non voleva che si riproponessero le sciocche suddivisioni sociali che animavano le discussioni nelle sale termali.
I due amici di Settimio chiesero a Lucio notizie dalla Città, sembravano avidi di sapere come procedevano i lavori per il grandioso tempio voluto da Agrippa poco distante dall’antica area sacra e anche quello di Apollo sul Palatino li incuriosiva non poco, soprattutto le decorazioni scelte da Ottaviano, con quel volto caricaturale della Gorgone che, a detta di molti, somigliava tremendamente a Cleopatra, la Signora d’Egitto.
Ma il vero argomento della serata riguardava Ottaviano. Era stato proclamato Augusto: «Ma quindi, aspetta, significa che dovremo venerare anche lui ora, come se ci mancassero dèi da queste parti..?» Roscio andava subito al sodo. «No, Roscio, in realtà il nome di Augusto non è una novità, mi sembra di ricordare che già ai tempi della guerra con Annibale, Scipione era stato salutato così dai suoi.»
«Ma figurati! La cosa è completamente diversa, qui si sta parlando di un titolo onorifico, però è importante perché il Senato, dopo gli ultimi anni, non credo si arrischierebbe a dare di nuovo fiducia a qualcuno…».
«Anche Ottaviano era sorpreso quando glielo hanno comunicato. Si dice che abbia subito scritto una lettera per rifiutarlo, ma i suoi centurioni lo hanno fermato e gli hanno spiegato che non poteva opporsi, era il volere del popolo».
A questo punto entrò Aulo Ofisio e, dopo aver salutato i presenti e dato una carezza a Settimia, si accomodò accanto a Roscio. «Lucio, di cosa stavi parlando? Mi è sembrato di sentire parlare di qualcosa che ha a che fare con il volere del popolo, niente di serio spero».
Roscio sogghignò, gli piaceva il vecchio Ofisio, nonostante le origini tanto diverse i due si intendevano bene, soprattutto quando parlavano di politica. «Stavo dicendo che il Senato ha conferito a Ottaviano il titolo di Augusto, gli hanno rinnovato l’imperium e molto probabilmente gli rinnoveranno anche il consolato quest’anno». Il volto dell’anziano magistrato divenne improvvisamente serio «Ah, interessante». Settimio notò il tono della voce leggermente cambiato e osservò il suocero. «Non sei contento?» – Lucio sperava di trovare nel nonno un alleato – «Finalmente un gesto chiaro dei senatori, io penso che ora Ottaviano avrà la possibilità di fare davvero quel che ha sempre avuto in mente.»
«E sarebbe?»
«Ora che Antonio non c’è più, che le province più difficili sono state ridotte al silenzio e che l’appoggio del Senato è scoperto, probabilmente non ci sarà più necessità di continuare a rintuzzare rivolte e sommosse, ma a tutti sarà chiaro che Ottaviano è l’unico in grado di mantenere la pace a Roma.»
«A te è chiaro?»
Lucio iniziava capire che in quella stanza era forse l’unico contento della decisione del Senato; a un certo punto si sentì stanco, stanco di doversi sempre scontrare con persone più vecchie e chiuse, poco inclini alla speranza e a dare fiducia ai più giovani. «Guarda, quello che mi è chiaro è che Ottaviano sta facendo tutto ciò che è in suo potere per dare un po’ di stabilità e di pace ai Romani, eppure c’è ancora chi non si fida di lui… e questo, ti assicuro, non riesco proprio a capirlo». Finì con un sorso il vino nella coppa e la porse al giovane schiavo perché la riempisse nuovamente.
«Caro nipote» cominciò allora Ofisio con un sorriso «mi fa piacere vederti così sicuro del tuo Ottaviano, io, per parte mia, sapevo della decisione del Senato già da un mese almeno. Da tempo a Roma stanno cercando di capire cosa fare con questo personaggio e forse ora hanno trovato la strada giusta. Ma quel che vuole Ottaviano, credimi, è ben difficile da decifrare. In ogni caso credo che tu abbia ragione: la sua figura è l’unica che possa portare un po’ di requie alla nostra repubblica.»
«Io so solo che dopo Azio la mia famiglia è riuscita a riprendere in mano gli affari e oggi le nostre navi solcano il mare orientale senza timori», Facundo era stato sempre molto attento al proprio tornaconto e non aveva mai pensato di poter far carriera militare, ma si era sempre lasciato aperta la possibilità di unirsi ai fratelli nella gestione dell’azienda di famiglia.
«Vuoi dire che tornerai a casa con noi, Lucio?» Marco andava sempre al sodo.
«Non so ancora quando, Marco, ma puoi star certo che i giorni della guerra stanno giungendo al termine».
«Spero che gli dèi ti ascoltino, ultimamente si sono accaniti su Roma…», Cieco era propenso alla riflessione amara, soprattutto da quando il fratello lo aveva riempito di debiti di gioco: «D’altro canto, come si dice? Ognuno è artefice della propria fortuna, dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare per non ricadere negli stessi errori e ritrovarci a combattere i nostri stessi fratelli».
«Hai ragione, Cieco, non possiamo pensare che un uomo da solo riesca a cambiare le cose, ma certo se non fosse per lui staremmo ancora a batterci fra noi. Ora Ottaviano è Augusto, prediletto dagli dèi, sono sicuro che sapranno guidarlo nelle scelte, come hanno fatto fino a qua», Lucio non voleva lasciarsi abbattere dal gruppetto di nostalgici disfattisti.
«La fortuna aiuta chi osa, no? Oppure aiuta i prepotenti… non ricordo bene» la voce
di Roscio interruppe l’idillio, e la sua risata quasi isterica intendeva dire che tutti quei complimenti al Becchino, come aveva ribattezzato Ottaviano, gli stavano dando il voltastomaco.
Settimio li stava ascoltando e nessuno sembrava richiedere un suo intervento, ma a quel punto si fece sentire: «Io penso proprio che la fortuna, qui, non c’entri assolutamente nulla». Lucio sobbalzò, si era quasi dimenticato del padre accanto a lui. «Certo, hai ragione papà. Non è fortuna, ma l’abilità di Ottaviano che ha combattuto e si è costruito un esercito fedele e forte. La fortuna casomai è la nostra, che abbiamo avuto in sorte di ricevere i benefici di questa sua abilità».
«Non intendevo dire questo». Cieco e Facondo avevano già riconosciuto il tono e lo sguardo, entrava in scena il Filosofo. «Aulo, ricordi quando Cesare cominciò a vincere, in Gallia?»
«Certo, Settimio, a Roma non si parlava d’altro e io stesso mi ero recato da Cesare per vedere con i miei occhi le condizioni in cui si muoveva e verificare che le notizie che faceva arrivare in città fossero effettivamente vere.»
«Bene, allora ti ricorderai anche quello che si diceva a Roma riguardo alle sue continue vittorie. Si diceva che quell’uomo doveva venire a vincere un po’ anche in Italia, vincere la crisi economica che lasciava sul lastrico tanti commercianti, si intende».
«Sì, hai ragione, c’era perfino un detto: è venuto, ha visto, ha pagato».
«Lo ricordo bene anche io. Ebbene, si sono mai chiesti i Romani a prezzo di quali sacrifici venivano fatte quelle elargizioni, o vinte quelle battaglie, e cosa passava per la testa di Cesare, la sera, quando si ritirava nella sua tenda? Ecco, io sì, io mi sono fatto queste domande, anche perché io ero lì e assistevo ai suoi momenti di rabbia, ai suoi silenzi carichi di significato, alla sua gioia contenuta. Tutto in lui era misurato, perfino lo starnuto. Tutto era calcolato. A quell’epoca io non me ne rendevo conto, ma col tempo tutto è divenuto più chiaro. Poi c’è stato Antonio, ti ricordi Facondo quante risate ci siamo fatti con lui?».
«A essere sincero, Settimio, non ricordo di aver mai riso tanto con Antonio, né di aver passato del tempo al di fuori delle esercitazioni o degli scontri sul campo.»
«Esatto!». Settimio batté la mano sulla coscia e fece un sorriso compiaciuto, un atteggiamento curioso per lui, Roscio strabuzzò gli occhi e cercò di guardare quanto vino aveva ancora nella coppa. «Hai proprio ragione, noi non siamo mai stati compagni di Antonio per una bevuta, non lo abbiamo mai coinvolto in qualche fuga notturna, mai visto ubriaco una volta! Eppure, con il corpo di Cesare ancora caldo, Antonio si è rivelato al mondo intero per un essere arrogante, prevaricatore, spregiudicato. Ormai è noto come l’amante della Signora d’Egitto, il traditore, colui il quale stava svendendo Roma alla sua puttana! Cosa vi suggerisce tutto ciò? Forse che Antonio stava recitando una parte quando era nostro commilitone e che, non appena ha capito di avere più autonomia di movimento, ha finalmente gettato la maschera e si è rivelato per quello che era.?
Non vi rendete conto che siamo in balia di provetti attori? Ognuno di loro ha un brogliaccio a cui attenersi, sono anche grandi improvvisatori, infatti. Seguono la loro parte fintanto che è utile alla scalata, al successo. Una volta ottenuto ciò che vogliono, possono finalmente liberarsi della maschera ed esprimersi liberamente.
E ora arriva Ottaviano, anzi, scusate, l’Augusto! Innanzitutto, mi potete spiegare da dove viene questo titolo? È la prima volta che lo sento».
«È presto detto, si tratta di un riferimento a Romolo. I Senatori avevano pensato di chiamarlo nuovo Romolo, ma Ottaviano ha rifiutato, dicono che non lo ritenesse opportuno», Ofilio era ben informato di questi aspetti, che sembravano formali ma che in realtà impegnavano i più esperti legislatori anche fino a notte fonda. «Allora Munazio Planco ha avuto l’idea e ha deciso di proporgli il titolo di Augusto, degno di rispetto e di venerazione: se Romolo ha fondato Roma sulla base del sacro auspicio tratto dal volo degli uccelli, Ottaviano viene riconosciuto come nuovo fondatore di Roma».
«Va bene, quindi si tratta di un’ennesima rinuncia di Ottaviano che si conclude con un onore più alto di quello cui ha rinunciato. O sbaglio? Avevo capito, Cieco correggimi se sbaglio ma ne parlavate proprio tu e Torquens la scorsa settimana, che Ottaviano meno di un mese fa aveva deciso di ritirarsi a vita privata. E ora ce lo ritroviamo addirittura Venerabile, nuovo Romolo?»
I commensali avevano ormai smesso di sorseggiare il vino.
«Ebbene, non so come facciate ancora a parlarne stando seri, ma questa per me è davvero una situazione ridicola. E devo dire che comincio a esserne stufo. Prima Cesare, con i suoi discorsi di grandezza, di terre e soldi da distribuire a tutti indistintamente – eppure sappiamo bene quanti debiti stesse accumulando mentre diceva tutte quelle falsità, e cosa gli interessasse veramente: il potere massimo per sé e la sua famiglia. Poi Antonio, che lo vuole vendicare… e dalla sera alla mattina diventa coraggioso, invincibile, risoluto, salvo poi intestare l’intero patrimonio di Roma alla moglie e ai figli! Quindi Ottaviano, che per tutti è solo un ragazzo – eppure quel ragazzo era già dentro l’alta politica dei pontefici mentre noi ancora non sapevamo dove seppellire Cesare! E oggi mi si viene a dire che è l’unico che può salvare Roma.
Io so che la terra che oggi coltivo me la sono guadagnata con il sudore e con il sangue. Che non sono state le promesse a farmi andare avanti, ma la certezza che quello che facevo lo facevo per la mia famiglia, per potermi alzare ogni mattina ed essere fiero di me, perché i miei figli potessero dire che il loro padre era una persona coerente. La fortuna poteva aiutarmi, oppure ignorarmi, non mi interessava: la mia vita non è mai stata in balia del volo di qualche uccello migratore.
L’atmosfera si era fatta improvvisamente cupa e pesante. I convitati erano talmente presi dai loro discorsi che non si accorsero di Settimia: la ragazzina aveva preso un pezzo di carbone dal focolare e, annoiata dai discorsi dei grandi, aveva cominciato a scarabocchiare a terra.
Ne era venuto fuori una sorta di ritratto grottesco della scena, con gli ospiti sdraiati sui letti triclinari. Su tutti spiccava un volto dagli occhi spiritati e l’ispida e folta barba, la bocca aperta sembrava una maschera teatrale: nelle intenzioni di Settimia si trattava di suo padre, ritratto nel momento più accalorato del suo discorso. Nel silenzio che era calato dopo le ultime parole di Settimio, Marco proruppe in una risata e indicò l’opera della sorella: «Guarda papà, Settimia pensa di essere a teatro!».
«Giusto», chiosò Roscio, «questi vecchi sono i ridicoli personaggi dello spettacolo comico più antico del mondo».