Oh Fortuna
velut luna
statu variabilis
semper crescis
aut decrescis
E’ una luna raggiante quella che mi accompagna nel rientro al Granducato. Mi segue mentre attraverso la sera fredda nel “regionale veloce”, una sorta di cammello di ferro: grande resistenza ai lunghi percorsi.
Ho fatto in modo che la giornata non finisse troppo presto, una volta atterrata a Roma ho fatto una deviazione di amicizia e così è già buio quando arrivo a Florentia.
Il motivo che mi ha spinto a cominciare questo viaggio è stato il bisogno di un abbraccio e devo dire che ne ho trovati tanti. Ma tra le molte immagini che mi rimarranno dentro ce n’è una che ancora mi fa emozionare al solo pensarla, eccola…
Il sabato dal Cormorano si danno il cambio piccoli gruppi di musicisti locali, che con una chitarra e un bouzuki rievocano atmosfere cupe di Rebetiko, oppure danze illuminate dal sole delle Cicladi, o ancora i canti dei glenti cretesi, le feste in cui si spaccano i piattini tra i piedi di chi balla e si gettano petali di fiori ai danzatori.
Mentre descrivo entusiasta la “mia” Grecia e soprattutto la mia Creta al terzetto novarese incontrato per caso, comincio a parlare appassionatamente di una canzone molto particolare.
Si tratta di una canzone tradizionale, originaria di Costantinoupoli e datata al ‘400: è quel che si chiama un paraklausìthyron, vale a dire un canto che l’innamorato (o l’innamorata) innalza dinanzi alla porta chiusa dell’amata (o amato). Le radici di questo vero e proprio topos letterario si possono rintracciare nella poesia ellenistica (!), perciò posso dire che mi ha affascinato fin dal primo ascolto, ma a questo si è aggiunta una caratteristica particolare: ogni volta che l’ho sentito intonare, ho visto gente commuoversi e unirsi subito al coro (difficile, tra l’altro, per le note piuttosto alte)….insomma, un vero e proprio inno nazionale, intriso di nostalgia e malinconia e di struggente dolcezza.
Nel parlare di tutto ciò, mi viene l’idea di chiedere ai tre bouzukisti di intonarlo per noi…. ottengo un’occhiata abbastanza ambigua: non capisco se apprezzano la scelta raffinata…o se mi vogliono strangolare, data la difficoltà del brano! In ogni caso mi dicono “vediamo quel che possiamo fare” e riprendono i rebetika.
E’ solo dopo una decina di minuti, quando ormai avevo abbandonato ogni speranza, che comincio a riconoscere i primi accordi.
Quando comincia la canzone, l’intera taverna si unisce ai musicisti… è un momento davvero magico…
S’agapò giat’eisai oraia
Ti amo perché sei bella
Ti amo perché sei tu
E amo tutto il mondo
Perché tu ne fai parte
Quella finestra chiusa
Aprila metà
Così che possa vedere il tuo volto
Ti amo perché sei bella
Ti amo perché sei tu…
Un’emozione da poco, avrebbe cantato qualcuno, ma un’emozione vera, dai brividi che scaldano il cuore. Questo viaggio cretese mi ha davvero accolto a braccia aperte e mi ha regalato istanti e istantanee preziosi.
vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem,
potestatem
dissolvit ut glaciem.
La musica ha accompagnato un po’ tutto il mio ritorno, fino al simpatico bar (definito “cosy”) in cui mi sono rifugiata per chiacchierare con un nuovo/vecchio amico; dagli schermi agganciati fin sul soffitto ammiccavano i video anni ’80-’90 che hanno segnato la mia adolescenza.
E il bar.. beh.. il bar si chiama Megara (segui il link…)
Herakles era un po’ stanco.
Si accomodò sulla pelle di leone, che ancora una volta si rivelava un giaciglio perfetto, e chiuse gli occhi.
Rimpiangeva il sole di Creta e l’aria salmastra che lo aveva avvolto mentre si muoveva alla ricerca del toro screanzato.
Euristeo lo aveva poi inviato da quello psicopatico di Diomede (per un attimo si era chiesto se l’impresa consistesse nel domare le cavalle sanguinarie, o piuttosto eliminare il loro folle padrone). Dopo Diomede era stata la volta di Ippolita, l’Amazzone … no, scacciò subito quel ricordo, ora non voleva pensarci.
Infine eccolo di ritorno da un viaggio nell’oscuro Occidente. Sospirò e si rigirò per cercare la posizione su quella pelle ruvida. Il pensiero di quel…di quel mostro… non se lo era aspettato così. Si era ormai abituato alle bestie, a creature enormi oppure mefitiche, o anche pericolose perché rese folli da invisibili tafani mandati dagli dèi. Sapeva come trattarle, in fondo si trattava di esseri più simili a lui, si poteva dire che fossero suoi pari e quando li affrontava era difficile distinguere quale dei due fosse la bestia, anche perché la pelle del leone avvolgeva entrambi i contendenti e nascondeva le fattezze dell’umano.
Ma quando si trattava di affrontare degli uomini (o, peggio ancora, delle donne!) Herakles cominciava a vacillare, non era sicuro di quale arma usare, di come avvicinarsi, di quali colpi aspettarsi. Gerione, poi, era addirittura tre opliti in uno!
Sussultò nel sonno al pensiero del povero servo, Eurizione, corso in aiuto dell’orrido cane a due teste. In fondo lo aveva abbattuto facilmente, con una sola freccia. Tuttavia gli era dispiaciuto: aveva riconosciuto in lui i tratti del servo sciocco, di un essere semplice, che si limitava a obbedire senza pensare. Dunque un vero ingenuo, un puro.
Eppure, proprio quella morte innocente gli aveva dato la forza di affrontare Gerione: il padrone tricorpore, la creatura più mostruosa che gli fosse mai capitato di vedere in questa sua vita così piena di stranezze …
E ora si trovava addormentato in una regione boscosa di quella che chiamavano Esperia, la terra d’Occidente. Poco distante aveva lasciato pascolare la mandria prelevata a Gerione, mentre lui si concedeva un veloce riposo.
Quando si svegliò capì di aver fatto un errore a cedere al sonno, perché – per Zeus! – i buoi sembravano molti di meno! Sapeva che era inutile provare a contarli, in fondo non aveva fatto un elenco preciso quando li aveva rubati a Gerione. Eppure…c’era poco da fare, erano stati decisamente decimati!
Cominciò a pensare se questo era davvero un problema, in fondo significava aver meno animali da riportare a Euristeo. Tuttavia gli scocciava il fatto di essersi lasciato fregare durante il sonno, e comunque doveva cominciare a muoversi, perciò legò insieme quelli che erano rimasti e si avviò fuori dal bosco.
Mentre guardava il sentiero gli sembrò di scorgere delle impronte di zoccoli. La cosa strana era che sembravano venire verso di lui… mah.. si stropicciò gli occhi, poco convinto di quel che vedeva. La vegetazione intorno era sempre più fitta, ma ad un certo punto passò davanti ad una grotta.
Non ci avrebbe fatto nemmeno caso, se non fosse stato per uno strano muggito che sembrava arrivare proprio dall’oscurità di quell’antro; subito, uno dei buoi che stava guidando rispose al muggito. In men che non si dica anche gli altri animali si unirono in un coro spaventoso… anche perché ai versi delle bestie sul sentiero, rispondevano muggiti scuri che sembravano far crollare la volta della grotta.
Herakles decise di entrare, non prima di aver notato che quelle impronte “all’indietro” partivano proprio dalla grotta.. Dentro, infatti, trovò il resto della sua mandria e così decise di organizzare una sonora punizione a chiunque avesse osato giocargli quel tiro.
Dopo essersi assicurato che gli animali fossero tutti insieme al sicuro, si appostò all’interno della caverna e aspettò il ritorno del “condannato”.
Quando avvistò Caco sorrise sornione: finalmente un uomo che era simile ad una bestia! Sarebbe stato facile affrontarlo e, naturalmente, abbatterlo!
Il gigante si rivelò anche più stupido del previsto, per un istante Herakles si bloccò, indeciso se provare compassione nei confronti di un essere chiaramente tardo e sgraziato. Ma Caco cominciò a deriderlo e a ricordare come era stato facile sottrargli le bestie mentre dormiva beato… e quest’ultimo spregio segnò chiaramente il suo destino.
Herakles fu contento di allontanarsi da quei luoghi, in fondo non gli era mai piaciuta la montagna, men che meno la collina, figuriamoci poi la foresta!
No! Lui era … un uomo di mare …