Si è detto e scritto di tutto su La Grande Bellezza, ultima fatica di Paolo Sorrentino e in corsa all’Oscar tra i film stranieri.
Io non riesco ancora ad avere un’idea lucida su quel film: l’ho guardato per curiosità, a quasi un anno dall’uscita, con la netta sensazione di guardare un Fellini 2.0, una sorta di omaggio non richiesto alle atmosfere da “sogno o son desto“, con il protagonista perennemente con una mano in tasca e il sorriso a metà, pronto a trasformarsi in smorfia, di dolore o di disgusto.
C’è però un aspetto del film che mi ha colpito e che mi convince a sospendere il giudizio, magari rivederlo una o due volte, perché forse c’è qualcosa da capire che mi sfugge. L’aspetto in questione è la fotografia.
Un’inquadratura perfetta dopo l’altra, una luce che sembra fatta apposta per quel marmo, quei prati, quel fiume, quei volti… Una specie di Instamovie, vale a dire un film girato con la sequenza di foto Instagram, ora un po’ Mayfair, ora Earlybird o Sutro, ma anche Efe o Kelvin.
E cosa ritraggono le immagini così perfettamente patinate? Ecco, ho pensato che a questo si riferisse il titolo del film, alla bellezza monumentale, a quegli angoli di perfezione cromatica che circondano tutti noi (meglio se abitiamo a Roma) e dai quali non siamo più in grado di lasciarci suggestionare. Sono diventati scenografia, Instamania: il protagonista (strepitoso) si aggira spesso solitario, facendo riecheggiare il cuoio sui sampietrini (ah! un messaggio politico rispetto alle ultime polemiche?!?!), ma le statue, gli obelischi, le fontane che lo osservano mentre vaga silenzioso e sornione, le guardiamo solo noi. Non interagiscono con lui, sono quinte teatrali.
Anche il momento grottesco e molto felliniano della performance al Parco degli Acquedotti rinforza la sensazione: la pietra romana è lì per fermare la folle corsa di un’idiota, per provare la vacuità della zucca che risuona nella craniata, ma il suo ruolo è quello di un gigante buono che si fa beffe degli “umani”, intenti ad applaudire il nulla e ciechi di fronte al vero spettacolo.
Poi, nell’ultima scena, giunge chiara la battuta: “Stavo cercando la grande bellezza”. Il protagonista spiega come mai sono venti anni che non scrive più un libro: perché gli è mancata l’ispirazione. Questa
frase ha l’effetto di rilassare, finalmente si spiega il titolo, e contemporaneamente di innervosire, ma come? non ti accorgi di dove vivi? oh tu che hai una casa scajolica (i.e. di fronte al Colosseo)?
E così sono uscita dal cinema, confusa dalle tante immagini “belle” associate a contenuti di povertà morale disperante.
Poi arriva Sanremo 2014. Io resisto, resisto, resisto, ma la forza trainante del gossip e dei commenti sapidi dei contatti fb mi induce in tentazione. Cerco di guardare qualcosa, di ascoltare qualcosa, ma per lo più leggo titoli e commenti alle serate. E scopro che anche Sanremo celebra “La Grande Bellezza”. Sarebbe bello poter dire che è un modo come un altro per fare il tifo per un prodotto italiano agli Oscar: la serata è il 2 marzo, il Festival finisce una settimana prima, perché no? è una sorta di lancio, un “in bocca al lupo” etc. etc.
Invece mi rendo conto velocemente che la situazione è un’altra. Sulla falsariga di un discorso già affrontato da Fazio con Settis, si cerca di “inculcare” l’amore per il bello, si cerca di dire che la bellezza è dappertutto attorno a noi (in pratica il messaggio opposto di “la bellezza è nell’occhio di chi guarda”) e che solo riappropriandoci del concetto di bellezza riusciremo a preservarla.
Fabio Fazio attacca con un riferimento ampio, nelle immagini che scorrono dietro di lui c’è l’Italia da cartolina, la bellezza fisica e geografica.. ma.. ahimè … viene “interrotto” da due che non apprezzano la bellezza, forse basterebbe che lo ascoltassero fino in fondo, allora capirebbero che.. no, no, meglio buttarsi!
[per amor di patria sorvolerò sulla lista disarmante, cantilenata con un sottofondo musicale imbarazzante, un elenco di frasi fatte e luoghi comuni, appiccicati come su un tazebao..]
Luciana Littizzetto attacca un monologo inverecondo.. parte dalla bellezza fisica, mette alla berlina TUTTI i difetti fisici più grevi e triti possibili e immaginabili, sferra un attacco frontale alla chirurgia estetica…e conclude con un appello alle principali marche di prodotti alimentari per famiglie e/o bambini: impiegate bambini disabili o down nei vostri spot, sono belli tanto quanto quelli normali…(esatto, così come leggete, non ci sono commenti possibili)
Il terzo giorno, in barba alle più elementari leggi di resurrezione, arriva Luca Zingaretti. Questo attore, da me molto apprezzato, decide di riproporre le parole di Peppino Impastato sulla bellezza da insegnare ai bambini. Il travisamento del messaggio comincia fin dall’introduzione: Impastato, dice Zingaretti, è nato a Cinìsi (in realtà sarebbe Cìnisi, cacchio, almeno il luogo di nascita…). Concluso il breve monologo, Fazio si avvicina ringraziando per le belle parole “contro la mafia”…(esatto, così come leggete, non ci sono commenti possibili)
A questo punto, sconcertata, ho ripreso gli appunti (mentali) annotati all’uscita del cinema, e ho deciso di provare a scrivere qualcosa.
Ne “La Grande Bellezza” la scenografia non si limita a strade e palazzi: le statue la fanno da padrone, con rimandi continui al mondo greco e romano. Solo un’altra volta mi era capitato di notare questo uso quasi filologico delle statue antiche: in “Le fate ignoranti” Ozpetek comincia il suo film con un primo piano su un busto di Antinoo, il giovane amato da Adriano e a cui l’Imperatore dedica un culto dopo la morte accidentale nel Nilo. All’epoca avevo pensato “Chissà quanti si rendono conto che un film su una donna che scopre l’omosessualità del marito, comincia con il volto del tenero amante di un grande Imperatore?”.
Con il film di Sorrentino ho avuto gli stessi pensieri, le scene rimandano continuamente ad un pensiero, ad un topos, ad un riferimento classico: la serata passata a farsi inoculare botox a botte di 700 euro è ambientata in una sala barocca di un palazzo principesco, ma al centro, su di un tavolo in marmo, spicca il volto candido di una testa apollinea, che dovrebbe ispirare armonia e “bellezza”; la suora-santa accoglie fedeli delle gerarchie ecclesiastiche di tutto il mondo appollaiata su di una grande poltrona di vimini. E’ rugosa, avvizzita, socchiude gli occhi, attorno a lei si agitano i fumi dell’incenso, non tocca per terra, ma ciondola i piedi. Come non pensare alla Pizia di Delfi? Dalle cui labbra pendono in molti, troppi, ognuno con interessi che vanno ben oltre la ricerca spirituale.
Il Colosseo, poi, incombe sulla casa del protagonista e sulle vicende umane che la agitano. Forse un simbolo degli antichi scontri fra gladiatori, o piuttosto il rimando alla trasformazione, da arena a chiesa a palazzo: “Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini”, tanto per intenderci.
Poi c’è un altro filone di bellezza che Sorrentino decide di regalarci: quello della fiaba. La Ferilli (una scelta a dir poco coraggiosa) viene abbigliata come l’ultima Biancaneve, con un bavero alzato che ci fa sempre dubitare se non si tratti piuttosto di Grimilde. Insieme a lei, il protagonista contatta un personaggio prestato dal mondo incantato delle favole: colui il quale possiede le chiavi dei palazzi di Roma. Sorrentino, siamo ormai a due terzi del film, decide di essere più didascalico, e, come un Propp qualsiasi, inquadra Roma da un buco di serratura, ricavato in un giardino. Il simbolo ci viene porto sul piatto d’argento del “già interpretato” e così ci lasciamo guidare in palazzi che.. ops! in realtà sono i musei capitolini!
Le signore dall’aspetto centenario che giocano a.. Bridge/Burraco/non so non rispondo, all’ombra del Galata Morente o dei ritratti Imperiali, illustrano perfettamente il binomio Lotto/Beni Culturali, ma non viene da ridere.
Dunque è di questo che si tratta! La Grande Bellezza non è Roma, ma lo spirito di Roma. Non sono le strade o i palazzi, ma quel che ospitano al loro interno e le storie che le hanno animate. Non si tratta di un pezzo di marmo “classico”, ma della classicità che si nasconde/rivela in ogni nostro gesto quotidiano… dalla ricerca di una perfezione estetica (il botox) a quella di perfezione etica (la suora/santa).
Allora, Fazio, la bellezza non c’entra nulla!
Non si tratta di far affezionare le persone alle “cose belle”, in modo da non fargliele distruggere, si tratta di farle affezionare a “gesti belli“, cioè a una vita vissuta per davvero, riscoprendo ogni giorno i motivi delle nostre azioni quotidiane, dandoci dei motivi per compierle. Solo così saremo in grado di scrivere di nuovo un nostro libro, solo accorgendoci del fatto che “bellezza” è un termine fuorviante.
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore (Peppino Impastato)”.
Ecco, lui lo aveva capito, diceva “bellezza”, ma intendeva “impegno civile”, diceva “bellezza” ma intendeva “solidarietà”. Qualunque cosa può essere “bello”, basta mettere “le tendine alle finestre”, ma la gente deve smettere di guardare le tendine e cercare ciò che mantiene vivi e curiosi e stupiti. Per questo non possiamo più accettare le liste, gli elenchi, di concetti “presi e messi lì”. Non possiamo più ascoltare persone “ottimiste per natura (economica)” dirci di essere ottimisti. Non possiamo più assuefarci, ma essere sempre attori di qualcosa. Non possiamo più lasciare che qualcun altro arrivi a dirci che cosa è bello, inventiamoci noi il nostro bello e lottiamo per mantenerlo vivo.