Ho sempre voluto evitare di andare a fare visita ai campi dello sterminio ebreo.
Non mi vergogno di questa mia debolezza, non devo provare nulla a me stessa né tantomeno agli altri, inoltre ho avuto modo di capire che l’orrore e il dolore non risiedono ormai più tra quei mattoni, ma in ogni parola pronunciata da chi è scampato, un esempio su tutti Primo Levi, che quell’orrore non è mai riuscito ad allontanarlo, quasi rincorso dalle Furie di un destino ignobile.
Per questo ero sinceramente emozionata dall’idea di raggiungere Ani, un luogo di splendore e morte, di potere e desolazione, di bene e male, il santuario del popolo Armeno.
Ho sempre avuto una sensazione di panico nel pensare al genocidio armeno.
Per un fatto tragico quanto incredibilmente semplice, nella sua formulazione: non ci sono numeri impressi sulle braccia, né campi da visitare per commuoversi, i testimoni hanno rischiato di essere considerati dei facinorosi, si sono dovuti aggrappare con tutte le loro forze a figure i estranei, stranieri, che, per caso oppure no, hanno incrociato il loro destino di morte.
La precisione chirurgica dei rastrellamenti e la crudeltà così pratica della “deportazione fino a sfinimento” mi hanno sempre angosciato: come in quei sogni in cui si cerca di gridare ma ci manca la voce e apriamo la bocca disperati e increduli.
Per questo la visita di Ani, fatta al tramonto di un giorno di fine settembre, anniversario della fondazione della Repubblica di Armenia (21 settembre 1991), mi ha commosso e catturato.
Le mura possenti, ingentilite dal pallido rosa dei generosi restauri, sembrano difendere la città dalla grande bandiera turca che sventola proprio davanti. In lontananza non si capisce se la bandiera sia dentro o fuori… un po’ come quando si ammira la foto di Yerevan, con l’Ararat sullo sfondo… chi potrebbe mai pensare che il monte sacro per gli Armeni è stato lasciato al di qua del confine con la Turchia? Una questione di pochi chilometri, che non rovina la foto, ma fa storcere la bocca.
Dunque ci avviciniamo alle mura e alle torri immense, entriamo … ma a questo punto quella cinta lunga e perfettamente conservata, quelle torri enormi, sembrano una presa in giro: cosa difendono? Cosa proteggono? Cosa cingono?
Una landa desolata, accarezzata dal sole al tramonto che colora di un giallo caldo e dorato. Ruderi, ecco quel che resta di Ani, la città dalla 1001 chiesa. Monconi di pareti, abbozzi di volte e capriate, una cattedrale spettrale, senza più il tetto, una cappella tagliata a metà da un lontano temporale.
A questo punto si può scegliere: se compiere una visita classica, seguendo la pianta dell’archeologo scozzese-georgiano che ha scavato nei primi del ‘900 per conto dei Russi, oppure se lasciarsi guidare dalle pieghe del terreno e dalle ombre che si allungano.
C’è un vento forte, ma non freddo, che spazza le pietre e le coscienze. Se ti lasci spingere raggiungi il limite dell’ampio pianoro su cui si disponeva, un tempo, una delle città più fastose e affascinanti della Grande Armenia. A quel punto guardi in basso e vedi scorrere un fiume. Lo stesso che imponeva un limite all’espandersi della città e che oggi traccia un confine inevitabile e tragico, quello tra Armenia e Turchia.
Di qua e di là dal fiume le stesse colline, gli stessi colori. Il sole tramonta abbracciando con un solo occhio tutta l’ampia zona circostante. Non un filo spinato: l’acqua del fiume scorre senza pensieri. Eppure di qua e di là sulle colline, si individuano delle torri dalle pareti mimetiche. Di qua e di là ci sono postazioni militari.
All’improvviso quel vento sembra diventare più freddo e le pietre di Ani appaiono quello che sono realmente: ruderi pieni di terra e polvere.
Le mura ci guardano sconsolate, non è vero che non servono più a nulla: proteggono un’idea, difendono una testimonianza. Della gente che abitava Ani e che nella primavera di un anno non abbastanza lontano, è stata costretta ad abbandonare tutto quello che aveva e a intraprendere un cammino di morte.
La beffa tragica di quel confine, posto proprio a ridosso dei limiti del pianoro, è forse la ferita più difficile da curare, il numero sul braccio, il segno dell’ignoranza.