C’è poco da fare, il Musée d’Orsay è affascinante.
Ci sono entrata per la seconda volta e di nuovo mi ha trasmesso una sensazione di ombelico del mondo, di motore immoto, di centro cui convergono emozioni essenziali.
Non ultima quella di rivalsa sulla grandeur francese, dato che l’ultimo architetto, in ordine di tempo, a metterci le mani è stata la, ahimé compianta, Gae Aulenti, come testimonia l’elenco apposto bronzo-su-marmo all’ingresso della sala principale.
Entri nel d’Orsay e ti senti accarezzare dalle pennellate degli artisti più brillanti, intuitivi e scanzonati degli ultimi due secoli: sublime, estetica, etica, sperimentazioni, bassifondi, vino, donne, exit strategy…trovi tutto tra quelle tele.. perfino delle statue! O meglio, la concretezza della pietra per ancorare a terra i più arditi voli pindarici.
Ma quello che ti insegue e ti colpisce, in ogni sala o scala o angolo del museo, è la luce.
Non puoi fare a meno di sollevare gli occhi e cercare, d’istinto, la fonte di tanta grazia, che irradia da finestre troppo alte, se guardate dal pianterreno.
Conviene salire e far finta di cercare “La déjeuner sur l’herbe”, buttare uno sguardo ammirato ma distratto alle profondità marine dei Macchiaioli e poi … lasciare vagare l’occhio al di là dell’orologio…Usata e abusata questa immagine, lo so. Eppure non ne puoi fare a meno. Ora, poi, ti vengono anche in mente improbabili sovrapposizioni dell’Hugo Cabret di Scorsese, perciò non c’è verso, non ti puoi staccare facilmente dal quadrante dell’ex stazione ferroviaria di Orsay.
E cosa vedi al di là del vetro? Una ruota panoramica. E’ la prima cosa che ti colpisce, forse proprio per il richiamo circolare: si tratta del giardino de Le Tuileries, uno splendido esempio di “giardino à la francese“, con le siepi disposte a formare simpatici labirinti, il prato disegnato a macchie verdi tra la ghiaia biancastra dei vialetti, arredati con statue classiciste e moderne. Oggi sono i giardini su cui si affacciano i volumi sornioni del Louvre, ma la loro storia cattura anche più del semplice colpo d’occhio.
Il Palazzo, che però non ha mai goduto di troppa fama, e i giardini delle Tuileries nascono da un’idea di Caterina de’ Medici. Ebbene sì, il simbolo di promenades parigine deve la sua concezione alla “pazza” fiorentina che vuole portare lungo la Senna le armonie di Boboli. Fontane, una grotta, un labirinto, nel XVI secolo le medievali botteghe, con fornaci per la cottura di tegole (tuiles), vengono sfrattate per un giardino in tutto e per tutto italiano.
Qualche anno più tardi è un architetto di giardini francese, Claude Mollet, che tenta di dare una lezione di stile ai cugini italiani e sogna coltivazioni di bachi da seta tra i gelsi fatti piantare di fresco.
Nel secolo successivo Luigi XIII li usa come “barco di caccia“, con la benedizione della madre Maria de’ Medici, mentre la nipote, figlia di Gastone d’Orleans e soprannominata affettuosamente “La Grande Mademoiselle“, lo elegge a luogo preferito per intrattenersi con cortigiani compiacenti… in pratica si comincia ad intravedere il futuro da Parco Giochi, ma il gioco, per l’appunto, è bello quando dura poco e così la Signorina ne viene bandita perché sospettata di appoggiare lo spirito rivoluzionario della Fronda (1652).
E’ con Luigi XIV che i giardini assumono l’aspetto che, con alcune modifiche, conservano tuttora: André Le Nôtre è il nome dell’architetto-giardiniere. Con lui Le Tuileries diventano luogo di divertimento, di celebrazioni, di passeggiate: nel 1667 Charles Perrault, l’autore di alcune tra le favole più care, chiede e ottiene che i giardini siano aperti al pubblico. Proprio nei decenni in cui le prime collezioni d’arte sono aperte anche a visitatori che non appartengono alla nobiltà, i giardini del Re Sole si svelano in tutta la loro bellezza.
Nei tumultuosi giorni della Rivoluzione, Maria Antonietta e il Delfino di Francia passeggiano nervosi e infatti il 10 agosto del 1792 il giardino viene definitivamente conquistato dal popolo, anche nel nome (Jardin National). Urge una “riconversione” e i due artisti chiamati all’ardua impresa sono l’architetto August Cheval de Saint-Hubert e il suo ben più famoso cognato, il pittore Jacques-Louis David.
La loro idea, ispirata alla più pura romanità, non giunge a conclusione, ma, niente paura, di lì a poco arriva al galoppo sul suo ben noto cavallo bianco… Napoleone Bonaparte! E’ sua l’idea di quell’amore di arco di trionfo ispirato al forense arco di Settimio Severo…
Nel XIX secolo le alterne vicende politiche si rispecchiano nei successivi interventi, una sorta di versione lugubre di Edward Mani di Forbice, dove siepi, prati, cespugli e topiaria assortita, spuntano dall’alba al tramonto, ridisegnando i viali e le sorti del giardino dei parigini.
Nel ‘900 i giardini de Les Tuileries si votano definitivamente al Parco Giochi: qui si allestiscono teatri di marionette, spettacoli di arte varia, acrobazie, corse con asini (!), banchetti che vendono limonate, concerti, fuochi d’artificio, ecc. ecc.
Ecco, tutto questo (e molto altro) si scorge dalla vetrata appannata del Museo d’Orsay: secoli di storia, oggi riassunti da punging ball (esistono ancora!!!) e ruota panoramica, autoscontro e calcinculo. Ma noi torniamo nella sala accogliente dell’ultimo piano del museo; quasi risucchiati dai sogni dipinti dei figli di quella lontana Rivoluzione, osserviamo le forme ma non ascoltiamo il chiasso volgare (nel senso di non nobile) del Luna Park.
Tornata nel Belpaese, nella patria che fu di colei che per prima intuì l’opportunità di cacciare gli artigiani di tegole, mi sembra di non essermi mai allontanata dalla vetrata rotonda del d’Orsay. Osservo, come in lontananza, un parterre fatto di notizie più grandi di me. La guerra più o meno lontana, i rifugiati sempre più vicini, partiti (di testa) politici che invitano alla violenza oppure che si esprimono nel modo più stolido su argomenti di levatura internazionale.
E poi il volgo (nel senso di non nobile), che conciona, commenta, sputa, si azzuffa: in questo giardino non si scorgono architetti, né menti illuminate, per quanto pazze. Ognuno decide di ritagliare un suo spazio, ma non si preoccupa di guardare il disegno d’insieme. Un film di serie Z mi offre una metafora ormai abusata, ma con le immagini più adatte a ritrarre il caos etico della società che mi circonda.
Va beh, ma così significa fare la snob, in fondo, si fa presto a dire civiltà dal chiuso di un museo di Impressionisti, dai, su, vediamo un po’ cosa c’è sul tavolo, nella vita vera…
I commenti meschini di fronte alla foto di chi dà una mano a un pugno di disperati su un barcone; le frasi incoscienti di chi firma “contro” la legge che vuole arginare l’omofobia, perché teme che leda il “diritto all’offesa”; lo stillicidio di offese contro un ministro africano, raccolte dagli istinti non solo più bassi ma pure fuori moda; lo spettacolo triste e stomachevole di chi ripete realtà false per farle diventare vere e intanto non si rende conto di coprirsi di ridicolo nel voler appoggiare un povero, vecchio, evasore fiscale rincoglionito.
E’ a questo punto che mi volto.
Cerco le pennellate, cerco i colori e i volti, cerco la luce che illumina i mondi dipinti. Ma non le trovo. Mi concentro. Nulla.
Allora apro l’oblò, e decido di scendere e cambiare (il) giardino.