Oggi è successo.
Dopo due mesi e mezzo di avventura americana, con questo vezzo di intitolare i dispacci ad una supposta ricerca di me stessa, oggi ne ho davvero trovata una parte.
Ci voleva una notizia davvero tragica, per farmi ricordare le radici di apolide…
Serom in quatter col Padola,
el Rodolfo, el Gaina e poeu mi:
quatter amis, quatter malnatt,
vegnu su insemma compagn di gatt.
Emm fa la guera in Albania,
poeu su in montagna a ciapà i ratt:
negher Todesch del la Wermacht,
mi fan morire domaa a pensagh!
Poeu m’hann cataa in d’una imboscada:
pugnn e pesciad e ‘na fusilada…
La coincidenza, come al solito, mi spiazza: negli istanti in cui chiacchiero virtualmente con un amico casuale, incontrato via facebook e con il quale scopro tanti argomenti da condividere, mentre ripercorro velocemente le tappe dell’infanzia, da Salerno a Firenze, mi arriva la notizia della morte di Jannacci.
Ecco che, la mini biografia che stavo tratteggiando tra un emoticon e una pausa telematica, si squarcia e lascia entrare un enorme paragrafo in dialetto.
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
A San Vittur a ciapaa i bott,
dormì de can, pien de malann!…
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
sbattuu de su, sbattuu de giò:
mi sont de quei che parlen no!
Jannacci è per me associato inevitabilmente alle cantate in macchina, con mia madre. La mia “educazione musico-sentimentale”, quando, innocente come non mai, a 8, 9 o 10 anni, intonavo convinta canzoni di puttane, papponi, delinquenti, barboni, ladri, carcerati, disperati e derelitti. Il tutto con vero accento meneghino, quello stesso che ritrovavo nelle chiacchierate con mia nonna, e che mia madre tirava fuori in due occasioni sopra tutte: quando era arrabbiata, oppure quando faceva battute caustiche e quasi sempre volgari.
La parolaccia, se detta in milanese, non sembra tale, sembra un verso simpatico, ma in quella simpatia c’è tutta la consapevolezza della superiorità: vada via i ciapp… è un vaffanculo, niente di più e niente di meno. Però, con quella “c” ammorbidita dalla “i”, non rigida nel “cu”, e quelle “p” che fanno chiudere le labbra, ma non stringerle.
Eppure è un vaffa, a tutti gli effetti, e chi lo pronuncia di solito fa una smorfia, come a non dare importanza alla persona cui è rivolto: oltra al danno, la beffa.
Più severo il “va’ a da’ via el cu”, con una dieresi sulla “u”, che, di nuovo, ammorbidisce il tono, ma non il senso, qui più incattivito, ma sempre, velatamente, superiore.
Questa digressione glotto-logica, solo per dire che, per me, il dialetto era il sapore vero di casa mia. Una casa fiorentina, in cui si utilizzava un linguaggio magico, che solo noi capivamo. Enzo Jannacci lo cantava quel linguaggio! Una meraviglia nella meraviglia… potevo mettere in pratica le lezioni silenziose di mia nonna, divertendomi un monte! Alcune espressioni delle canzoni di Jannacci mi sono rimaste dentro per anni: il colore “de tra su” di un vestito, un colore di chi ha vomitato, ma un’espressione che di solito si riferisce agli ubriachi.. il vinaccia è “tra su de ciuc” (la ciucca è l’ubriacatura, il ciucco è l’ubriaco).
Il palo della banda dell’Ortica, che riceve il bottino “a cento lire” e commenta “quest’ chi l’è un laurà de stupid” (questo è un lavoro da stupidi) “io sono un palo, non un bamba” ..
Io all’epoca non dicevo nessun tipo di parolaccia, nemmeno “scemo”, una conquista di quinta elementare… eppure le canzoni di Jannacci andavano cantate senza censura, stavo recitando, soprattutto quelle che sforavano nel cabaret. Con Jannacci mi affacciavo nel mondo della comunicazione, della faccia di bronzo, dell’ironia, del sarcasmo, dello spettacolo d’arte varia. Si trattava, ovviamente, di imitazione e mi piaceva imitare le pause, le urla, quel tono da poco convinto, che invece trasmetteva una forza pazzesca.
Di alcune canzoni intuivo una certa ambiguità, almeno per me.. in realtà si trattava di canzoni piuttosto esplicite. Ma non chiedevo mai niente, mai una spiegazione… Jannacci lo capivo a poco a poco, con le calze con la riga nera e il pappone che viene considerato un “pistola”, oppure le tragedie di chi è in bolletta, di chi si ritrova con la donna morta, di chi si è fidato ed è rimasto fregato dalla tipa di turno. Struggente l’invocazione alla Lina.. “mi fanno male i piedi, Lina”, il mio primo swing…
Tutta questa tragedia umana io la cantavo, perché così richiedeva il copione, ma nel cantarla mi sentivo più vicina a quell’alchimia di odori e colori e suoni e immagini, che era per me la Milano di mia nonna e di mio zio. La Milano dei lunghi mesi di luglio, passati a patire il caldo e poi a pescare fino alle 8 di sera. Ecco, Jannacci era l’inverno fiorentino: quando Milano sembrava lontana, una cassetta ascoltata in macchina spalancava di nuovo le ante di un immaginario armadio narniano…
Di alcune canzoni capivo meglio la trama, mi appassionavano ovviamente di più e l’impegno nel cantarle usciva raddoppiato. L’Armando, ad esempio, che, cantata mentre eravamo in macchina, acquistava un’atmosfera decisamente particolare!
Oppure “Ma mi”, che per me era “Quaranta dì, quaranta nott”. Canzone difficile, densa di parole, eppure chiara nella dinamica: l’interrogatorio con il meridionale, inevitabilmente “terrone”, il primo cenno di analisi sociale…
El Commissari ‘na mattina
el me manda a ciamà lì per lì:
“Noi siamo qui, non sente alcun-
el me diseva ‘sto brutt terron!
El me diseva – i tuoi compari
nui li pigliasse senza di te…
ma se parlasse ti firmo accà
il tuo condono: la libertà!
Fesso sì tu se resti contento
d’essere solo chiuso qua ddentro…”
E l’accostamento mentale con la Quaresima, altri 40 giorni e 40 notti di sofferenza (almeno nell’idea appresa con scolastica acribia). Lo spettro di una guerra, il colore scuro delle pareti di un carcere… sembravo Milva, quando la intonavo.. carica di una passione teatrale.
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
A San Vittur a ciapaa i bott,
dormì de can, pien de malann!…
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
sbattuu de su, sbattuu de giò:
mi sont de quei che parlen no!
La più popolare “Vengo anch’io” non mi piaceva… mi sembrava perdere completamente la pregnanza delle altre, tutte che raccontavano una storia, più o meno lunga; non mi soddisfaceva questo andamento a ritornello, mi sembrava fatta per “il grande pubblico”, tra l’altro con pochissime parole in dialetto.. che orrore! Anche “Ho visto un Re”, bella, però mi sembrava strano che Jannacci cantasse con qualcun altro, mi dava la sensazione di una cosa fatta un po’ controvoglia, per accontentare quell’altro mattacchione di Fo. In fondo, accanto agli altri, Jannacci mi sembrava sempre a disagio (ma ricordiamo che avevo davvero pochi anni).
La Canzone Intelligente, invece, mi incuriosiva: innanzitutto univa Jannacci ad altri due giganti della mia milanesità, Cochi e Renato, e poi andava ascoltata più e più volte per carpirne tutti i segreti. Come “lo sciocco in blues“, conquista ardua per il mio orecchio poco allenato. Alla fine il “filo logico portante” era entrato perfino nel mio parlare quotidiano, mi ispirava fiducia, la voglia di credere che intelligenza e logica potessero trovare il modo di convivere, seppure nel verso di una canzone.
Dunque, questa Ricerca di Stefitudine, oggi mi ha regalato un tassello importante. La sensazione forte di essere un’apolide maldestra, oggi ha ceduto il passo ad una supposta milanesità. In realtà, non è la città che mi chiama a sé, ma l’immagine e la sensazione che io ho di quella città e di molte cose che le sono legate.
Il dialetto è una di queste, Jannacci ne è l’espressione più alta.
La stessa esigenza che, una volta al liceo, mi fece leggere di nascosto “La Ninetta del verzee“, mi chiede prepotente di non dimenticare questa radice forte della mia infanzia. Questo tassello importante della Stefità, qualsiasi cosa voglia dire…
Grazie, Enzo Jannacci.
Sont saraa su in ‘sta ratera
piena de nebbia, de fregg e de scur,
sotta a ‘sti mur passen i tramm,
frecass e vita del ma Milan…
El coeur se streng, venn giò la sira,
me senti mal, e stoo minga in pee,
cucciaa in sul lett in d’on canton
me par de vess propri nissun!
L’è pegg che in guera staa su la tera:
la libertà la var ‘na spiada!
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
A San Vittur a ciapaa i bott,
dormì de can, pien de malann!…
Ma mi, ma mi, ma mi,
quaranta dì, quaranta nott,
sbattuu de su, sbattuu de giò:
mi sont de quei che parlen no!
Mi parli no!
Beh, anch’io lo ascoltavo nell’infanzia. E anch’io non posso dimenticare di avere ascendenze anche milanesi.
Siamo il risultato di tanti tasselli che si sono incastrati più o meno casualmente, Ste!
evviva i tasselli .. 🙂
Solo un enorme GRAZIE per quello che scrivi del mè Milàn…
grazie a te..