La lega delle città greche della Ionia, ribellatesi alla vessazione persiana, dopo qualche importante successo deve capitolare e Mileto, città che aveva comandato la rivolta, deve arrendersi alla forza militare del Gran Re. La battaglia decisiva è quella di Lade, dove una flotta di navi greche, giunta in aiuto delle consorelle ioniche, cade miseramente, sbaragliata dalle truppe persiane: la morte dei marinai greci si accompagna alla deportazione degli abitanti di Mileto. E‘ la fine tragica della rivolta, ma anche l’inizio di un movimento politico ed economico che porterà alle Guerre Persiane e alla rivincita greca su tutta la linea.
Anche durante gli anni turbolenti della rivolta in Ionia, ad Atene il ritmo delle stagioni è scandito da feste e celebrazioni politico-religiose. In città, già da qualche decina di anni, si celebrano le Grandi Dionisie, feste in onore del dio del vino e della tragedia, che per l’occasione diventa nume tutelare delle trilogie presentate in agone alla popolazione. Tragedie, quindi, allestite con dispendio di mezzi da coreghi spesso illustri, e volute – pare – inizialmente dal tiranno Pisistrato, con intenti probabilmente propagandistici.
Anche in questo periodo di conflitti militari si continuano ad allestire tragedie (o commedie, nelle Lenee) e a frequentare il teatro, luogo in cui il mito si fa paradigma e dove i cittadini possono specchiare le proprie paure o i sentimenti più intensi come l’amore e il dolore e trovarne la più profonda giustificazione.
Aristotele non è ancora nato, ma il potere di katharsis dell’esperienza teatrale è già forte e attrae gli ignari spettatori.
I nomi più illustri dei tragediografi di quest’epoca sono persi tra le pieghe di qualche manoscritto non ancora recuperato, ma Eschilo, lui, c’è.
Eschilo sembra esserci sempre stato, ma anche lui deve aver imparato da qualcuno e la tradizione manoscritta ci ha conservato il nome del suo probabile maestro: Frinico. Un nome quasi parlante per noi, ci rimanda alla saggezza e, insieme, all’insistenza del grillo… di Frinico sappiamo ben poco, nato ad Atene, allievo di Tespi, tragediografo. Ma la storia del teatro e della tragedia attribuisce a Frinico un primato fondamentale, egli sarebbe il primo ad aver introdotto l’argomento storico nelle trame delle sue opere.
Prima di lui solo il mito, una storia talmente lontana da sembrare leggenda. Una storia fatta di avvenimenti esemplari, efferati e straordinari, combattimenti, amori, morti e nascite portentose. Nel mito c’è tutto, o meglio ci siamo tutti noi. Ma Frinico non lo ritiene sufficiente e in lui si fa urgente la necessità di riflettere e rispecchiarsi nella storia contemporanea: la rivolta delle città ioniche.
Frinico mette in scena La presa di Mileto, probabilmente già l’anno successivo all’avvenimento.
L’impatto sugli spettatori è devastante: si rappresenta un dramma vero, con morti vere, appena successe. Qualcuno si sente male, molti si bloccano nel dolore di guardare in faccia alla propria paura, non solo quella della morte ma anche e soprattutto quella della sconfitta. Erodoto ci racconta tutti i particolari dello spettacolo e le conseguenze per il suo autore: una multa di 1000 dracme e il divieto di rappresentare ancora la tragedia. Troppo sconvolgimento per l’ordine pubblico, questa la motivazione.
Frinico ci riprova quasi venti anni più tardi: Le Fenicie racconta la vittoria (questa volta) dei Greci a Salamina. La tragedia, che ha come corego lo stesso Temistocle, è un trionfo, tanto che l’allievo Eschilo ne trarrà potente ispirazione per i suoi Persiani, quattro anni dopo. In ogni caso, per tutto il V sec. a.C. non ci saranno più tragedie di ispirazione storica, si tornerà al caro vecchio mito, dove il potere catartico è in qualche modo anestetizzato.
La città di Atene multa chi “gioca” con i suoi sentimenti, oppure chi pretende di svegliare dal torpore degli incensi e delle ecatombi fumanti il popolo suddito, consapevole sotto il tiranno e inconsapevole nella tanto decantata democrazia periclea.
1000 dracme. Quanto faranno in euro? Tra un mese o due saremo probabilmente chiamati a risolvere la proporzione nello scegliere la meta ambita della prossima estate; ma in questo maggio “del ventennale” la domanda può non essere peregrina, se abbiamo assistito al film per la tv “I 57 giorni”.
Probabilmente il regista, o meglio ancora gli sceneggiatori, hanno temuto proprio la multa di Stato, una sanzione pecuniaria o più probabilmente una costrizione più sottilmente politica, per punire la rappresentazione troppo verisimile o troppo dolorosa di un evento tragico che, ormai da venti anni, viene vissuto in maniera corale, Frinico si sarebbe tuffato nelle vaste possibilità di un avvenimento simile.
Eppure “I 57 giorni” aveva molti buoni motivi per essere una riflessione storica o storicizzante: innanzitutto proprio la distanza dall’evento, poi il titolo che sembra suggerire la concentrazione di fatti e considerazioni nel periodo di tempo ben preciso tra la morte di Falcone e quella di Borsellino, infine la quantità di interviste e filmati originali, di libri di colleghi e di parenti e, naturalmente, qualche processo che, con i tempi lunghi della giustizia e della presa di coscienza italiane, ha dato già molto materiale su cui discutere e con cui individuare un quadro preciso degli avvenimenti.
Invece no. Purtroppo “I 57 giorni”, in bilico tra storia e mito ha scelto, una volta di più, il mito. Del buon padre, del magistrato coraggioso, del buon cristiano, dell’amico fedele, del cittadino votato all’abnegazione, del figlio devoto, del marito innamorato.
La storia dei giorni che hanno definitivamente ucciso la capacità di ottenere verità e giustizia è stata scambiata con il mito di un eroe che in Italia non può più parlare, ma solo benedire. La capacità di trasformare la testimonianza in martirio (vedi, su tutti, il caso di Saviano) o il dovere in atto eroico, ecco cosa è stato rappresentato, proprio nel ventennale di Capaci e via d’Amelio.
Peccato, un’altra occasione persa, soprattutto per chi attende ancora una luce, per chi grida a gran voce il diritto di sapere, di ascoltare nomi che sono noti e comprendere, anche se in forma romanzata, come si sono svolti alcuni fatti. Ma ormai le nostre giornate e soprattutto gli schermi dei nostri computer, sono pieni di parole vane, immagini taroccate e buoni sentimenti tanto vuoti quanto inutili. Il mito si è impossessato prima dei nostri discorsi e poi delle nostre menti, ormai ogni scoppio è terrore e ogni morte è eroismo. Così facendo ci dimentichiamo di ragionare e soprattutto di chiedere, ogni evento è cristallizzato in uno slogan o in una maglietta, in un simbolo che nasce prima ancora di sapere cosa dovrà rappresentare.
In questo ventennale solo un mito non compare, quello della verità.
Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l’idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell’intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto
Platone, La Repubblica, libro VII, 517 b – c
Per ottenere la verità bisognerebbe spazzare via i falsi miti, primo fra tutti quello degli eroi. La nostra società non è più in grado di distinguere tra termini pregnanti, se due magistrati uccisi dalla Mafia che tratta con lo Stato che essi servono sono considerati eroi, non ha molto senso ascoltare le parole di un esponente dello Stato (Berlusconi Premier) che definisce eroe un uomo mafioso (Mangano). Per questo non è rispettoso della verità questo nostro modo di ricoprire tutto e tutti di frasi fatte, di termini svuotati di significato; tutti orpelli che ci tolgono alla vista l’essenza delle persone e dei fatti.
Se abbiamo ancora voglia di celebrare il sacrificio di magistrati e poliziotti, sarà opportuno cominciare con il capire il motivo di questo sacrificio.
In “I 57 giorni” Zingaretti-Borsellino esprime più volte la domanda chiave: “perché?”, ma gli sceneggiatori sembrano intervenire proprio là dove la risposta si fa più prossima. Non è dato sapere “Perché”, ci basti guardare al “come” e concentrarci sul “quando”. Ma se non capiremo il motivo, saremo condannati all’ignoranza e la prossima volta, con l’armamentario della commemorazione pronto all’uopo, non dovremo fare altro che chiedere “Chi?”
Grazie per questo bel pezzo, Stefania!
Gli esempi della tragedia greca sono calzanti e spiegano bene l’effetto anestetizzante del mito.
Ho trovato il film su Borsellino noioso a dire la verità. Prima pensavo di non vederlo, poi mi sono convinto, confesso e me ne vergogno che la reticenza era anche dovuta alla difficoltà di spogliare il protagonista attore dell’aura camilleriana…ma era anche un reticenza più intima, per quella storia di 57 giorni che ho trovato sempre triste, dolorosa e così desolatamente umana. Niente di eroico o mitologico: la ‘storia’ di Borsellino mi ha sempre commosso per quella sua presa di coscienza di una fine imminente, della perdita di un Amico, di un collega di lavoro, del senso della sconfitta e di impotenza che cercava di esorcizzare attraverso gli ultimi discorsi con la voce rotta dall’emozione.
Ho pensato alla fine del film, che sarebbe bastato poco per farne un buon film. Ho ripensato a “Diaz” visto un po’ di tempo fa: un pugno nello stomaco certo, un film forte certo, tanti fatti, scene crude e amare; però anche lì sono rimasto insoddisfatto. Come spesso mi capita faccio passare qualche giorno e ripensandoci trovo quel film assai scolastico, ti confesso fastidioso.
Poi, per rifarmi, ho riguardato il film di Petri, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, dopo qualche tempo. Confesso che la visione di questo film dopo i due di prima, a distanza di qualche settimana, ha creato un effetto di straniamento ancora maggiore, che avevo provato solo col “Divo”. Eppure lì la storia era tutta così apparentemente astratta: Dostoevskij e poi Kafka alla fine, tanta psicanalisi e sociopolitica.
Mi chiedo come si fa ad avere film del genere oggi…forse perché quelli erano gli anni della contestazione e il risveglio delle coscienze era ancora in atto, non a caso il film di Petri/Frinico rischiò il sequestro perché ritenuta sovversiva…
grazie a te, Luca. Certo che guardarsi Petri … vuol dire cercare, più o meno inconsapevolmente, quello che i due film (I 57 giorni e Diaz) non ti hanno dato… bisognerebbe capire bene cos’è. Probabilmente la sincerità sui fatti, un po’ di coraggio e l’onestà di dire quel che si pensa. Pensa a Todo Modo, ad esempio, personaggi ben riconoscibili come Moro e Andreotti, si perdono in un film che è pura allegoria. Perché non farne di simili oggi? Non credo tanto al problema della presa di coscienza, come dici tu. O meglio, c’è anche questo, ma più forte è l’ozio. Il gesto ozioso di chi non legge nemmeno più, non riflette, ma “condivide” una foto, una frase, l’ombra di un concetto. Un gesto facile che crea l’effetto domino. Ecco, chi fa film oggi sa che il pubblico è ozioso, e basta un niente per metterlo in moto.