Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus
Hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons
Et paulum silvae super his foret
Orazio, Satire II, 6
Orazio è spesso poeta del rimpianto, solo lui riesce a rendere estremamente poetico un male di vivere che a volte è quasi insopportabile… Così leggiamo già nel primo verso del sesto componimento del secondo libro di satire, che finalmente si è realizzato il desiderio (in votis) più intimo: essere proprietario di “un pezzo di campo non troppo grande”, con tanto di fonte d’acqua e di piccolo bosco. Nel corso della satira, il poeta amico di Mecenate sviluppa il proprio sentimento di insoddisfazione, quasi chiedendosi se la nuova condizione di serenità non possa togliergli la giusta ispirazione di giudizi graffianti sulla società romana; in effetti la satira si conclude con la nota favola del topo di campagna e del topo di città, parabola della ricerca di un benessere che non è mai troppo lontano da casa nostra.
Ma il riferimento al campicello non è nuovo in Orazio: nell’Ode I,1, il poeta si rivolge direttamente a Mecenate e cerca di spiegare quali sentimenti animino colui il quale voglia dedicarsi ai patrios agros, alla coltivazione dei campi paterni; allo stesso modo nell’Ode I,12 leggiamo un riferimento all’avitus fundus. Orazio si lamenta spesso della confusionaria vita di Roma, alla quale contrappone la tranquillità dell’appezzamento di terra da coltivare e da curare, dove i ritmi e le aspettative recuperano una dimensione più naturale.
Perfino un autore meno buono di Orazio, lo spagnolo Marziale, che compone epigrammi caustici in piena età imperiale, si lascia andare ad una descrizione amena dei campi di un amico, sul Gianicolo:
Iulii iugera pauca Martialis
Hortis Hesperidum beatiora
Marziale, Epigrammi IV 64
Addirittura paragonati al giardino delle Esperidi, i campi coltivati all’interno delle mura cittadine o in aperta campagna, esercitano un certo fascino sugli autori latini e molti, da Catone (heredium patre relictum) a Cicerone (paterus avitusque fundus Arpinas), ricordano con affetto il “pezzo di terra” spesso ereditato dal padre.
Questa affezione alla vita agreste si traduce spesso in lunghi soggiorni nelle accoglienti villae di campagna. Quelle cosiddette villae dell’otium, dove, coccolati dalla servitù e ispirati dai pregiati arredamenti di statue ed affreschi, uomini di lettere o politici dall’animo filosofico, si dedicano ai propri componimenti o alle riflessioni più profonde.
Ma da dove deriva questo stretto rapporto del rude Romano con la natura? In realtà, proprio dal fondamento dell’economia romana, un’economia agricolo-pastorale che trova la sua più completa realizzazione nella gestione del fundus: un vero e proprio appezzamento completo di casa padronale, campi coltivati, spazi riservati all’allevamento ecc. ecc. In termini giuridici, il fundus è una proprietà comprata o più spesso assegnata a cittadini romani (ma non solo) anzi, soprattutto in periodo repubblicano, ai veterani di Pompeo prima, poi di Cesare e di Ottaviano Augusto.
Le tracce di queste ripartizioni di terreni rimangono nella toponomastica di molti paesi italiani, anche Florentia, la colonia dedotta per contrastare il predominio dell’etrusca Faesulae (poco accorta alleata del temibile Catilina), conobbe, negli anni seguenti la sua fondazione, il fenomeno della centuriazione dell’agro, dunque della campagna circostante, con conseguente assegnazione dei lotti ai veterani di Cesare (inizialmente era stato Cesare a ipotizzare un premio per i veterani del defunto Pompeo, ma la sua morte procrastinò tale decisione che venne finalmente presa da Ottaviano Augusto a favore dei soldati del suo padre adottivo).
Dunque oggi, possiamo attraversare il quartiere suburbano di Rovezzano e pensare di percorrere i possedimenti di Rubetius (fundus Rubetianus/Rovezzano), oppure attendere impazienti la comparsa di qualche calciatore della Nazionale e intanto ammirare il quartiere popolar-residenziale del buon Corficius (Corficianus/Coverciano); anche le frazioni di Terenzano (da Terentius) e di Corbignano (da Corvinius), per non parlare di Maiano (da Marius) forniscono evidenti tracce di quella che doveva essere l’organizzazione del territorio alle porte di Florentia, in direzione di un’altra, più antica, importante città: Arretium.
Alcuni autori latini ci permettono di rendere ancora più vivida l’immagine del fundus, descrivendo minuziosamente questa vera e propria pietra angolare della società romana, a base agricola anche nei secoli più tardi e bui. Varrone e Columella, infatti, vissuti tra il I a.C. e il I d.C., sottolineano come sia saggia la scelta di chi decida di dedicarsi alla gestione di una villa che sia autosufficiente da tutti i punti di vista, indicando le caratteristiche fondamentali perché la villa e il suo terreno si sviluppino al meglio.
Proviamo a verificare se i lotti di terra di Rubetius, Corficius, Terentius e degli altri proprietari dell’agro fiorentino siano stati effettivamente un buon investimento…
La villa doveva essere costruita in un luogo che risultasse salubre tutto l’anno
Varrone I, 4, 3-4 Utilissimum autem is ager qui salubrior est quam alii, quod ibi fructus certus .. quare ubi salubritas non est, cultura non aliud est atque alea domini vitae ac fei familiaris
Doveva trovarsi nelle vicinanze di un corso d’acqua o di una sorgente
Varrone I, 11, 2 Villa eadificanda potissimum ut intra saepta villae habeat aquam, si non, quam proxime;
Columella I, 5 Sit autem vel intra villam vel extrinsecus inductus fons perennis
e i terreni di cui ci stiamo occupando sono attraversati almeno da due torrenti: l’Africo (Affrico, dalla direzione del corso d’acqua, verso Est come il vento Africus) e il Mensula (Mensola, da un nome probabilmente etrusco).
Doveva altresì essere posta su una collina o a mezza costa
Varrone I, 13, 7 Item videre oportet si est collis (..) ut ibi potissimum ponatur villa;
Columella I, 4 Haec igitur est medii collis optima positio
e di certo le pendici fiesolane, Vincigliata e Maiano sono un’ottima scenografia per i nostri possedimenti.
Non essere lontana dal mare o da un fiume navigabile
Varrone I, 16, 6
Eundem fundum fructuosiorem faciunt vecturae, si viae sunt, qua plaustra agi facile possint, aut flumina propinqua, qui navigari possint, quibus utrisque rebus evehi atque invehi multa ad praedia scimus
e noi abbiamo l’Arno, navigabile almeno fino alla tarda antichità.
Inoltre, la località oggi nota come Varlungo, deriva probabilmente da un Vadum longum che identificava un terreno piuttosto esteso, allungato sulla riva dell’Arno e lasciato incolto a causa delle frequenti esondazioni, ma utilizzato per l’allevamento.
O da una strada
Catone I, 3: Praedium prope siet, aut mare, aut amnis qua naves ambilant, aut via bona celebrisque
e qui è interessante notare che tutta la zona compresa tra le pendici di Fiesole e l’Arno era già attraversata da importanti vie di comunicazione in età anteriore alla fondazione di Florentia, quando gli Etruschi utilizzavano l’avamposto fiesolano sulla strada tra Volterra e Felsina (Bologna) oppure su quella pedemontana proveniente da Arezzo e oggi rimasta nella c.d. Setteponti ai piedi del Pratomagno. Nel 123 a.C. anche i Romanidecidono di far passare una delle loro famose strade, veri portenti di ingegneria civile, proprio ricalcando una delle vie etrusche: la Cassia vetus lambisce la collina di Fiesole e poi, in età imperiale, una prima Cassia Nova sarà costruita parallela all’Arno (ad essa seguiranno altre Cassie, sempre di collegamento tra Roma e la Liguria). Con il tempo quella Cassia diventerà Aretina e oggi, il suo ultimo tratto che sfocia in piazza Beccaria, è via Gioberti.
Dunque i presupposti ci sono tutti: acqua, colline, prati e strade. Ci sono anche le cave di pietra (a Maiano) e infine viene rispettato un ultimo consiglio Catone I, 3: oppidum validum prope siet, la vicinanza ad una città fortificata.. Florentia!
Perché fosse davvero efficiente l’organizzazione della villa, era necessario definire gli spazi dedicati alle singole occupazioni: nella pars fructuaria di una villa si concentravano perciò i luoghi per la lavorazione e la conservazione dei prodotti. Anche in questo caso la scelta del tipo di coltivazione da preferire seguiva alcune regole di base che Catone riassume in una sorta di classifica:
Praedium quod primum siet, si me rogabis, sic dicam: de omnibus agris optimoque loco iugera agri centum, vinea est prima, si vino bono et multo est, secondo loco hortus inriguus, tertio salictum, quarto oleum, quinto pratum, sexto campus frumentarius, septimo silva caedua, octavo arbustum, non glandaria silva.
Dunque, riassumendo:
1.vinea 2.hortus 3.salictum 4.oletum 5.pratum 6.campus frumentarius 7.silva caedua 8.arbustum 9.glandaria silva.
Può essere interessante notare che, poco al di sopra di Settignano (in questo caso un’intera area probabilmente gestita dalla gens Septimia, che ci ha lasciato alcune testimonianze epigrafiche), esiste il Fosso di Valonica, la cui etimologia si collega alle valonae, ghiande utilizzate per colorare i tessuti, un’arte che dall’epoca romana continua fino almeno al Seicento in queste zone dell’agro fiorentino.
La pars rustica comprendeva, invece, gli ambienti che ospitavano l’instrumentum vocale, cioè gli schiavi; quello semivocale, cioè gli animali; ed il mutum, cioè gli attrezzi da lavoro.
Quanto al tipo di allevamento, si trattava innanzitutto di allevare gli animali che potevano servire alla sussistenza di tutte le persone coinvolte nella gestione della villa: la pastio agrestis comprendeva ovini, maiali, buoi, asini, cavalli e poi animali di servizio cioè muli, cani e schiavi (Varrone II, 1, 12 parla di allevamento degli schiavi pastori, classificato come allevamento di animali di servizio; mentre Columella I, 8 parla anche di schiavi agricoltori).
Con la pastio villatica, invece, si preferiva un tipo di allevamento più pregiato e quindi più proficuo: animali selvatici, volatili di tutti i tipi tra cui i pavoni, pesci … tutto ciò che poteva essere venduto ai ricchi Romani cittadini sempre intenti ad allestire banchetti luculliani e desiderosi di impressionare i propri invitati con ogni tipo di prelibatezza.
La zona invece dedicata al dominus e alla sua famiglia costituiva la pars urbana , completa di tutte le comodità degne di un vero proprietario terriero: sale triclinari estive e invernali, “stanze per gli ospiti”, piccole terme e, a volte, anche palestre e ginnasi, con lunghi portici immersi nella natura.
Come dice Simona Accardo (da cui abbiamo tratto i brani e le descrizioni della villa romana), la villa non fu solo lo specchio del carattere prettamente agricolo dell’economia romana, ma anche dei mutamenti architettonici e dei mutamenti economici. Dalla conduzione diretta del fundus, si passò al capitalismo degli immensi latifondi in cui lavorava un esercito di schiavi, per finire con la crisi del settore produttivo del III d.C.
Le accorate parole di Seneca , in visita presso la villa di Scipione l’Africano, esprimono meglio di qualunque discorso proprio questo aspetto della villa romana: una istituzione politico-economica che riflette, nella propria evoluzione, l’involuzione del mos maiorum, l’abbandono progressivo di quella vita sana e onesta che aveva caratterizzato i più grandi personaggi della storia di Roma.
Magna ergo me voluptas subiit contemplantem mores a Scipionis ac nostros: in hoc angulo ille “Carthaginis horror”, cui Roma debet quod tantum semel capta est, abluebat corpus laboribus rusticis fessum. Exercebat enim opere se terraqueo (ut mos fuit priscis) ipse subigebat. Sub hoc ille tecto tam soridio stetit, hoc illum pavimentum tam vile sustinuit : at nunc quis est qui sic lavari sustineat ?
Ho provato un grande piacere a confrontare i costumi di Scipione e i nostri : in questo cantuccio « il terrore di Cartagine », a cui Roma è debitrice di essere stata invasa una sola volta, lavava via la stanchezza della fatica nei campi. Si dedicava ai lavori agricoli e vangava la terra di sua mano, come era costume degli antichi. Abitò sotto questo tetto così squallido e calpestò questo pavimento tanto rustico: ma adesso chi sopporterebbe di fare il bagno in questo modo?
Seneca, Epistolae ad Lucilium, XI, 3, 5
…e sul costume degli antichi Romani sono ancora attuali le considerazioni di Catone, come le ha interpretate Luigi Magni nel suo film del 1971…
http://www.youtube.com/watch?v=ZWffXaMUius
L’accostamento può sembrare un pò inopportuno e forzato, ma il blog mi pare propenso ai voli pindarici…
bello! W Pindaro! W i voli! W Mao Tse Tung!
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