Il primo e più famoso è stato Paolo Rossi, che si è portato dietro tante polemiche e perplessità per un intervento di censura da parte di qualche papavero Rai (non dimentichiamoci che quell’anno – il 2003 – il buon Alberoni era Presidente del CdA Rai). Dopo di lui, citare il discorso di Pericle agli Ateniesi, riportato nel II libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide, è diventato sinonimo di condanna del malcostume italiano contemporaneo, soprattutto del malcostume di Silvio Berlusconi e del suo Governo.
Sul discorso di Pericle si è detto e scritto tanto tra i filologi e gli storici antichi; sono intervenuti eminenti specialisti del pensiero greco classico i quali hanno di volta in volta analizzato la questione dal punto di vista di Tucidide, da quello di Pericle e, naturalmente, da quello degli Ateniesi cui Pericle si rivolge. Ciò che è stato chiaro fin da subito a tutti è che sicuramente il termine “democrazia” ha subito un cambiamento importante nell’accezione comune nel corso dei secoli.
Qui non è necessario riprendere la ricca bibliografia a riguardo, ma ritengo che sia opportuno suggerire una riflessione più profonda per evitare che i momenti in cui il famoso discorso viene citato, diventino una serie di buone intenzioni di cui, ci dice la saggezza popolare, è lastricata la via dell’Inferno…
Sabato 16 ottobre 2010, per celebrare i 10 anni di “Ad Alta Voce“, Bologna si è trasformata in una sorta di grande sala di lettura e nei luoghi più significativi (piazza Maggiore, Museo della Memoria di Ustica, la Stazione Centrale, ecc.) alcuni scrittori contemporanei si sono ritrovati a leggere ad alta voce brani di racconti che avevano come tema comune quello della “memoria“. Naturalmente ci sono stati momenti di grande intensità, in cui sono state evocate le vittime dei campi di concentramento, alternati a letture nostalgiche di tempi lontani, ricordi personali di chi leggeva brani autografi oppure realtà lontane nello spazio se non nel tempo.
L’incontro nella sala d’aspetto della Stazione Centrale di Bologna è stato un’occasione per ripercorrere la tragica memoria della strage del 2 agosto 1980: la testimonianza di Giuseppa Fresu, rispettivamente sorella e zia di due giovanissime vittime della strage, è stata la toccante voce dell’orrore spontaneo e disperato di fronte a una violenza totale e cieca. L’intervento di Giuseppe Ayala è stato salutato da un applauso sincero e ricco di aspettativa: il magistrato ha appena pubblicato un libro che racconta i particolari del suo rapporto con due simboli della lotta alla mentalità del terrore, per questo la sua presenza in quel luogo e in una giornata dedicata al ricordo anche dei fatti più gravi e “scomodi”, sembrava preludere a una lettura pregnante di significato.
Tuttavia il magistrato ha scelto di ricordare il discorso di Pericle riportato da Tucidide, una scelta ripetuta anche nell’incontro di chiusura della manifestazione bolognese. Quelle parole così lontane nel tempo dovevano risvegliare un’indignazione popolare nel confronto, impietoso, tra la situazione greca del V sec. a.C. e quella italiana degli anni Duemila. Il risveglio c’è stato, partecipatissimo nel lungo applauso che ha chiuso l’intervento, e si è così rinnovata una lettura fuorviante di quel grande brano di letteratura che è l’encomio ai primi caduti della Guerra del Peloponneso. Direi di cominciare proprio da qui, dal contesto in cui Pericle avrebbe pronunciato il discorso: il condizionale è un omaggio alla professionalità di Tucidide, il quale è il primo ad ammettere che la sua non è una cronaca puntuale ma è la proposta di ciò che Pericle avrebbe verosimilmente detto in quell’occasione (Tucidide si immerge in una realtà della guerra appena iniziata, ma scrive quando ormai è nota la conclusione).
La tragedia della Guerra del Peloponneso è presente in ogni manifestazione culturale greca: dalle opere letterarie storiche a quelle teatrali, dalle decorazioni vascolari alle dediche votive nei santuari; per questo il discorso di Pericle si carica di un valore paradigmatico e Tucidide approfitta di un’occasione così dolorosa come la cerimonia funebre per i primi caduti, per far pronunciare al cittadino più importante di Atene un discorso generale, che si stacca dalla contingenza del funerale e si innalza verso le più alte vette dell’esempio ateniese in materia di politica interna ed estera. Il brano greco, così come la traduzione in italiano, ha una grande forza retorica che utilizza espedienti di sicuro effetto, come la ripetizione della formula “noi, ad Atene, facciamo così“, ma chi sono questi “noi“? Pericle si presenta ai parenti dei cittadini che hanno perso la vita per difendere la Patria, decide di farsi parte di tutti loro e quindi usa “noi”, tuttavia non possiamo certo immaginare che tutti gli abitanti di Atene fossero compresi da quel pronome “democratico”. A fronte di una popolazione dell’Attica di 250.000/300.000 unità nel V sec. a.C., si contavano tra i 170.000 e i 200.000 adulti. Tra gli adulti, i soli in possesso di diritti politici completi variavano tra i 30.000 e i 50.000 (gli 80.000 schiavi, i 25.000 stranieri, le donne e i bambini erano esclusi dalla vita pubblica). I diritti politici erano infatti riservati ai cittadini maschi, nati liberi e da genitori entrambi ateniesi. L’importanza del discorso di Pericle risiede anche e soprattutto nella dimensione diacronica che adotta per illustrare le bontà del governo ateniese, egli ripercorre infatti le tappe attraverso le quali questi diritti politici sono stati estesi anche ai cosiddetti poveri, superando le distinzioni di censo ma mantenendo caratteristiche ben lontane dal nostro suffragio universale.
Naturalmente anche i lettori o ascoltatori meno esperti avranno ben presente questo aspetto della democrazia ateniese, tuttavia ritengo improvvido scegliere di presentare ancora l’esperienza ateniese di V sec. a.C. come direttamente connessa alla nostra moderna sensibilità democratica. Tornando al discorso di Pericle, definiti i limiti demografici dell’assemblea cui si sta rivolgendo, notiamo che lo stratega ateniese riprende punto per punto le caratteristiche dell’organizzazione politica in cui si riconosce: il rapporto con le magistrature, gli interessi privati e quelli pubblici, l’accoglienza dello straniero, ecc. Ma perché lo fa? A chi sta rispondendo? Idealmente egli risponde a Sparta, città che da sempre ha scelto un regime politico antitetico a quello ateniese e che in quel momento (il primo anno della Guerra del Peloponneso) sembra avere successo nel tentativo di “esportarlo” in Attica. Pericle controbatte punto su punto nell’eterna partita del governo esemplare, che ha come premio la supremazia sull’Ellade; per questo Atene si pone come “scuola” dell’Ellade, come modello di riferimento. Dunque non è forse opportuno entrare nello specifico dell’organizzazione ateniese delle magistrature, o della gestione particolare del bene privato e di quello pubblico: i membri delle famiglie più eminenti, i personaggi che accentravano sulla loro persona beni privati e privati interessi, sapevano che il governo di Atene poteva reggersi solo se avessero accettato di far parte del sistema “democratico” e di farsi carico anche delle istanze dei “più”, ma non rinunciavano alle proprie prerogative.
Il contesto del discorso pericleo assume allora un’importanza ancora più evidente, perché Pericle sta parlando a chi ha perso un parente in guerra e sta cercando di convincere genitori e fratelli che quel sacrificio è stato fatto per una buona, ottima causa: per evitare che nel confronto con Sparta sia quest’ultima ad avere il sopravvento, facendo perdere agli abitanti di Atene le meravigiose opportunità che può offrire solo la loro democrazia. Il richiamo al valore in guerra per la difesa della Patria è costante in Pericle:
con un coraggio che non è frutto di leggi, ma di un determinato modo di vivere, abbiamo il vantaggio di non sfibrarci prima del tempo per dei cimenti che hanno a venire e, di fronte ad essi, ci dimostriamo non meno audaci di coloro che di fatiche vivono.
e nella chiusa del discorso, quasi di sfuggita come se fosse la cosa più naturale del mondo, lo stratega garantisce personalmente che lo Stato provvederà al mantenimento dei figli dei caduti fino al raggiungimento della maggiore età. Forse, allora, ci saremmo aspettati di ascoltare il discorso pericleo in una delle celebrazioni che accolgono ormai sempre più spesso il rientro delle salme dei militari italiani di stanza in Afghanistan:
“(…) giustizia vuole che sia posto in primo piano anche il valore mostrato nelle guerre per la patria da coloro che, per il resto, non brillarono di buona luce: con l’eroismo essi cancellarono le macchie precedenti e maggiore fu l’utile che apportarono al bene comune, che non il danno derivato dai loro difetti privati.”
“Ora, dunque, proponetevi di imitarli e, convinti che la felicità sta nella libertà e la libertà nell’indomito coraggio, non fuggite i rischi della guerra“.
Brani che non possono essere ignorati da chi cita il discorso tucidideo, perché ne sono parte integrante e la chiave di lettura per capire il personaggio di Pericle e i sentimenti che lo spingono a parlare di fronte alle tombe dei caduti ateniesi. Non è possibile, secondo me, leggere Pericle e puntare il dito contro Silvio Berlusconi, semplicemente perché chi parla non è un tribuno della plebe, piuttosto è un cittadino che corre costantemente il rischio di arrogarsi poteri che non gli competono, dunque di incarnare ciò che l’opinione comune oggi rimprovera al cittadino Berlusconi. Pericle ha però una consapevolezza in più: egli sa che chi lo ascolta, chi è riunito a piangere il figlio caduto in guerra, può determinare la fortuna o la disgrazia dello stesso Pericle. In questo sta, a mio avviso, la potenza e la modernità del discorso pericleo: nel ruolo attivo che lo stratega ateniese riconosce ai suoi concittadini e nel quale essi si distinguono dai cittadini di Sparta o delle città straniere, abitate da re e sudditi, una suddivisione impossibile da concepire per un vero Ateniese.
“il cittadino che di essi [dei problemi politici] assolutamente non si curi siamo i soli a considerarlo non già uomo pacifico, ma addirittura un inutile“.
Pericle è consapevole del fatto che non può ignorare i suoi concittadini, certo si potrà dire che buona parte della sua politica urbanistica sia una colossale campagna “pubblicitaria” per accaparrarsi la simpatia degli Ateniesi, ma pur nella propaganda la realtà dell’Atene del V sec. a.C. è ancora una realtà che tiene conto delle necessità del popolo. La democrazia ateniese porta chi governa di fronte al giudizio di chi è governato e, grazie anche al sistema del sorteggio e del ricambio costante dei membri dell’Assemblea, cerca il più possibile di condividere oneri e onori, di far partecipe anche il più anonimo dei cittadini. Questa è la lezione che ancora oggi Tucidide ci offre attraverso il personaggio di Pericle.
Noi stessi o prendiamo decisioni o esaminiamo con cura gli eventi: convinti che non sono le discussioni che danneggiano le azioni, ma il non attingere le necessarie cognizioni per mezzo della discussione prima di venire all’esecuzione di ciò che si deve fare
Abbiamo infatti anche questa nostra dote particolare, di saper, cioè, osare quant’altri mai e nello stesso tempo fare i dovuti calcoli su ciò che intendiamo intraprendere: agli altri, invece, l’ignoranza provoca baldanza, la riflessione apporta esitazione
Allora raccogliamo l’invito di Pericle e di Tucidide e fondiamo la NOSTRA democrazia su basi solide e discutiamo, attingiamo alle necessarie cognizioni, partecipiamo. Ora sì, possiamo cantare con Giorgio Gaber: libertà è partecipazione!
Riferimenti bibliografici:
D. Musti, Demokratìa. Origini di un’idea, Laterza 1997
E. Greco (a cura di), Venticinque secoli dopo l’invenzione della democrazia, Donzelli editore 1998.
Ottimo!
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