C’era una volta?

Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole, e la meraviglia delle cose, di cose come pietra, e legno, e ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e vino.

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.251

Sto leggendo per la prima volta il bellissimo saggio “Sulle fiabe“, una conferenza tenuta da Tolkien nel 1939 e pubblicata nel 1947. Si tratta ormai di un classico e ammetto di essere arrivata abbastanza tardi a leggerlo, ma – come si dice – meglio tardi che mai!

Sono molti gli spunti di riflessione offerti dalle parole di Tolkien, soprattutto per chi, come me, da circa otto anni sta cercando di trovare un modo efficace di introdurre giovani studenti statunitensi allo studio del mito classico. L’analisi sulla genesi delle fiabe, ma soprattutto sul rapporto tra le fiabe e il mondo dei bambini e quello degli adulti è brillante e illumina numerosi aspetti che ritrovo nelle mie lezioni. Perché i ragazzi che entrano nelle mie aule si aspettano di ascoltare storie di dèi, eroi, mostri, magie o super poteri e ben presto si rendono conto del fatto che dovranno studiare non tanto nomi astrusi, ma temi. Non dovranno imparare storie buffe e poco credibili (e quindi, dal loro punto di vista, innocue o addirittura ridicole) ma dovranno cercare di capire il motivo che ha portato all’invenzione di quelle storie. Non potranno tenersi lontani dai creatori del mito, ma dovranno confrontarsi con loro, fino a ritrovare loro stessi in quell’immenso specchio deformato che è lo studio dell’antropologia.

Una scarpetta gigante proprio sotto il castello di Marburg. Quale immensa Cenerentola l’avrà persa?

La verità ci fa male, lo so

Mi sono specchiata come una regina cattiva!

Una delle prime “lezioni” riguarda un aspetto essenziale del mio corso, vale a dire il concetto di vero e verosimile applicato ai miti classici. Come i bambini cui accenna Tolkien nel suo saggio, gli studenti sono interessati al grado di verità dei miti, ma la loro domanda non è “è vero che Zeus era il re degli dèi?”, quanto “è vero che i Greci credevano che Zeus fosse il re degli dèi?”. E proprio come Tolkien suggerisce, io sposto l’attenzione dei miei lettori: non chiedetevi se è vero o se chi lo ha ideato pensasse fosse vero, chiedetevi invece perché quello specifico mito è stato creato, che cosa ha condizionato la ideazione di un particolare racconto.

La domanda serve a stabilire una sorta di regola di base: qualunque racconto io stia per leggere, non è vero e quindi non può farmi male, ma nel momento in cui lo leggerò, deciderò se “sospendere l’incredulità” per potermi immergere completamente nella realtà che mi viene proposta.

Recovery

Nella prefazione all’edizione Bompiani di “Il Medioevo fantastico”, Gianfranco de Turris ci informa che, rispetto all’edizione del 1976, la traduzione italiana ha operato alcune scelte diverse. Una di queste riguarda i termini che definiscono i motivi per cui, secondo Tolkien, adulti e bambini ricorrono alle fiabe: per ottenere Fantasy, Recovery, Escape, Consolation. Il termine recovery era stato inizialmente reso come “ristoro”, perché la parola significa ristoro, guarigione, ritrovamento, reintegro, ripristino. Ma nella edizione 2018 è stato preferito renderla come “riscoperta”, intendendo in tal modo suggerire l’insieme delle accezioni summenzionate.

Un cestino gigante da portare alla nonna. Questo è stato lasciato in un angolo di Marburg.

Io, però, vorrei offrire una mia esperienza personale e promuovere la traduzione di recovery, in questo contesto fiabesco, con “guarigione”. Per sei anni, infatti, ho scelto di utilizzare fiabe vecchie e nuove per aiutare mia madre nella sua condizione di paziente di Alzheimer. Non solo ho trovato le illustrazioni molto gradite e gradevoli, ma i testi sono spesso stati un modo per lei di continuare a leggere ad alta voce, fino a quando la malattia glielo ha permesso, e quindi di sentirsi abile pur in un’attività semplice. Oppure, una volta abbandonata la possibilità di parlare, di seguire con interesse una storia breve e ricca di avvenimenti: colpi di scena, eventi buffi, personaggi simpatici, situazioni complicate, ma risolvibili.

Questo interesse l’ho sempre interpretato come la logica conseguenza del fatto che l’Alzheimer ti spoglia completamente di molte abilità e ti fa tornare a uno stato primitivo, che noi care-giver confondiamo con uno stato infantile.

E infine vi è il desiderio più antico e profondo, quella della Grande Evasione, l’Evasione dalla Morte

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.259

Questa riflessione di Tolkien mi ha però portato a pensare che, forse, quella signora di quasi ottant’anni, che non mi aveva mai letto fiabe quando ero bambina, stava nutrendo sia la sua parte infantile che quella adulta. Proprio quest’ultima riemergeva spesso e si rendeva conto, anche solo per un istante, della condizione in cui si stava trovando. Ecco, forse proprio quell’adulta mi chiedeva con gli occhi di “guarire”, “salvarsi”, “scappare” e leggere le fiabe che avevano ormai definito la nostra quasi quotidiana routine.

Ricerca

Lo studio analitico delle fiabe costituisce una preparazione (…) al loro godimento o alla loro creazione (…)

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.247
Su un’antica fonte, nel centro di Marburg, è appollaiato un ranocchio con la corona!

E così, più mi immergo nella intricata matasse delle genealogie degli dèi classici e delle teorie interpretative, più mi impegno nello scegliere la fiaba o la favola che possa piacere di più a mia madre (ormai non più, ma fino a poco tempo fa è stata una ricerca impegnativa e di grandi soddisfazioni), più cresce in me la voglia di entrare sempre di più nel mondo delle fiabe e lasciarmi incantare dai mille volti degli eroi e delle eroine oppure dalla suggestione di tracciare la lunga vita dei protagonisti dei racconti medioevali che animano l’infanzia della nostra generazione. Una ricerca sulle ninfe del mondo greco mi ha portato a ritrovarle lungo le sponde del Reno e perfino nelle sale del Walhalla!

Un QR code aiuta a seguire il percorso fiabesco tra il saliscendi delle strade di Marburg

Le immagini che ho usato per queste mie riflessioni sono tratte da un viaggio fatto pochi mesi fa sulle tracce dei Fratelli Grimm e delle storie più popolari tra quelle da loro raccolte e pubblicate a varie riprese nell’Ottocento. Ho visitato sia Marburg che Alfeld: nella prima i fratelli hanno cominciato a studiare legge per poi decidere di diventare filologi e narratori di storie del folklore tedesco; la seconda pare invece essere stata da loro visitata quando cominciarono a viaggiare per raccogliere le storie popolari.

La cittadina di Marburg ha deciso di seminare in giro per le strade e presso il castello oppure vicino ad antiche fonti, una serie di installazioni che riproducono alcuni dettagli delle storie più note, creando un vero e proprio percorso che invita il turista ad aguzzare la vista e a ripercorrere le trame delle fiabe.

Qualunque fine, basta che sia lieto

Ci sarebbero ancora tante cose da dire sulle fiabe e sui racconti, vecchi e nuovi. Quel senso di evasione e di catarsi a cui fa riferimento Tolkien è ancora molto forte e presente nei lettori moderni di fiabe. Ricordo uno studente, anni fa, che alla domanda “come mai hai scelto questo corso” rispose che sperava di “escape” dalle brutture del mondo contemporaneo e forse anche da qualche pesantezza personale. Una delle mie lezioni più care è quella che riguarda Delfi e il suo oracolo: adoro analizzare il mito di Edipo e spogliarlo degli aspetti morbosi per riconsegnarlo alla storia e alle istanze delle grandi famiglie aristocratiche che controllavano le trances della Pizia. In quel caso mi sembra di poter offrire ai ragazzi un modo per proteggersi e scegliere se lasciarsi sedurre dagli aspetti più macabri degli antichi miti oppure prenderne il controllo attraverso l’interpretazione.

Forse è questo il segreto del fascino che le fiabe esercitano sugli adulti: mentre le leggiamo possiamo farci coinvolgere, ma la nostra mente sa come raggiungere l’uscita di sicurezza, per così dire. I bambini, in effetti, hanno una qualità che si va perdendo negli anni della crescita: nel momento in cui cominciano a leggere una fiaba hanno già scelto e rispettano il proprio ruolo fino alla fine (se la fiaba è scritta bene, si intende).

Un lupo e sei capretti sbucano da un muro di Marburg.
Ma la fiaba è “Il lupo e i sette capretti“, che fine ha fatto il settimo?

Tutto può accadere nel territorio instabile della fiaba, perché le regole sono chiare fin dall’inizio, anche nelle trame più contorte. Mi ricordo che da piccola ero rimasta perplessa dalla storia di Alice nel Paese delle Meraviglie: prima di guardare la versione disneyana avevo letto una versione ridotta del racconto e non mi era piaciuto, mi creava un senso sottile di disagio. Tolkien nella sua conferenza spiega che Alice non è una fiaba, ma un sogno. E in quanto tale risponde a regole diverse, ma questa sua natura è lasciata volontariamente ambigua dall’autore e per questo gli effetti possono essere stranianti anche sul bambino.

Uno dei fraintendimenti dell’Alzheimer è che questa malattia “fa dimenticare”, perciò sembra quasi banale dire che a mia madre ho letto più volte le stesse fiabe, in alcuni casi anche due volte di seguito. Ma non succede lo stesso anche con i bambini? Non è prassi quasi normale che i bambini e le bambine a un certo punto chiedano con insistenza di ascoltare lo stesso racconto (che sanno a memoria) o di vedere lo stesso cartone animato? Questa routine, questa reiterazione ha come effetto principale quello di rassicurare, da tutti i punti di vista. Nel bambino si aggiunge probabilmente anche una sorta di esercizio di apprendimento, ma qui si entra in un ambito affatto diverso.

La fiaba e la favola ci permettono di vivere e rivivere emozioni in un contesto controllato e controllabile, eppure, durante lo svolgimento del racconto, ci lasciamo dondolare dal trapezio più alto, illudendoci di compiere evoluzioni sempre più rischiose.

Non c’è una fine in questa mia riflessione, piuttosto un invito a riprendere le fiabe e le favole a voi più care e a leggerle a tutti, grandi e piccoli. Leggerle a voce alta, come facevo io con le Fiabe italiane di Calvino proposte a mio fratello quando aveva 8 anni e io 12, oppure come ho fatto questa estate con la raccolta dei Fratelli Grimm al mio compagno di viaggio.

Non c’è un’età per smettere di leggere fiabe.

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Gli dèi all’opera

Prologo

Un libretto piccolo piccolo, sia di formato che di spessore, ecco come mi si è presentato “L’Anello di Wagner” di Giorgio Pestelli (Donzelli editore, 2018). L’idea di immergermi nella sua lettura mi veniva sollecitata dalla passione per le storie e per i miti e da un ricordo lontano che legava i miti e le trame di opere liriche. Intorno ai dodici anni mi capitava spesso di andare a casa di una compagna di scuola, la cui nonna era “la prima arpa” dell’orchestra del Maggio. Una casa piena di spartiti, dunque, un pianoforte a mezza coda e, naturalmente, l’arpa. Quella famiglia era destinata ad avere un ruolo fondamentale nella vita di mia madre, ma questo ancora non lo sapevo.

Sapevo, però, che la mia amica aveva un libro molto voluminoso, dalla copertina rigida (quasi legnosa) nera e che in quel libro erano condensate le trame di TUTTE le opere liriche mai composte. Io leggevo i riassunti con lo stesso spirito entusiasta con cui bevevo le pagine di “Dèi ed eroi della Mitologia”: una serie di libri dedicati alla mitologia greca, romana, egizia, vichinga, che leggevo con avidità.

All’epoca non potevo cogliere il legame sotteso ai tanti, diversi racconti. Ma avvertivo il fascino di quelle vicende così remote e allo stesso tempo così familiari.

Atto Primo – scena di natura

È stato dunque un moto di nostalgia che mi ha portato ad aprire il libro di Pestelli. Ma quello che ho trovato è andato ben oltre ogni aspettativa: una vera e propria guida alla tetralogia, dove si ha la sensazione di aggirarsi indisturbati tra gli orchestrali e di leggere le scene direttamente sui loro strumenti. Ecco un esempio che spero spiegherà meglio ciò che intendo:

Anche la Walkiria incomincia con una entusiasmante “scena di natura”, un preludio in cui infuria una tempesta, fenomeno naturale presente in ogni atto dell’opera (…) le ottave ribattute sul pianoforte dalla mano destra diventano in Wagner un tremolo all’ottava, sempre su doppie corde, di violini secondi e viole sulla nota Re prolungato per 60 battute, rombo che cresce e diminuisce come le ventate e gli scrosci (…)

Pestelli, L’Anello di Wagner, pag.80

E così, in men che non si dica, mi sono trovata a leggere la preziosa guida davanti a un video recuperato su youtube, che riproduceva di volta in volta un’opera della tetralogia. Ho potuto seguire le fasi della composizione wagneriana, ma soprattutto introdurmi nel pensiero di Wagner, nella testa di Wotan, nel cuore di Brünnhilde, nell’animo di Siegfried, nel ghigno di Alberich, negli spruzzi delle Ondine.

Grazie alla guida sapiente e gentile di Giorgio Pestelli mi sono commossa. Ho ascoltato il dolore di un padre e di una figlia; ho guardato l’ingenuità di Siegfried e ne ho provato pietà. Ho ascoltato le voci delle Walkirie e ho intuito il loro dramma di figlie e dee, ho ascoltato la frivolezza delle Ondine e ne ho inteso la pericolosa lusinga, ho ascoltato la gravità delle Norne e ne ho compreso la disperazione.

Atto secondo – miti a confronto

Non sono in grado di elaborare qui un’analisi delle suggestioni classiche che Wagner ha utilizzato come riferimenti, anzi rimando volentieri non solo alla trattazione di Pestelli ma anche alla ricca bibliografia che l’autore produce. Wagner ha voluto mettere in musica una saga che riprendesse la tradizione celtica e i miti del Walhalla, seguendo una prima forte influenza folklorica: non dimentichiamoci che la stesura della tetralogia è stata molto lunga (forse già a partire dal 1849, fino alla prima rappresentazione nel 1876) ed è iniziata con la figura di Siegfried e con un richiamo ad alcune fiabe tedesche a cui il lavoro certosino dei fratelli Grimm aveva dato dignità letteraria. Siegfried era il personaggio più adatto, tra l’altro, a rappresentare anche molte istanze politiche che negli anni quaranta e cinquanta dell’800 stavano facendo letteralmente esplodere l’Europa.

Scena prima: Herda

Tuttavia, la figura della Madre Terra che dialoga con Wotan sull’ineluttabilità degli oracoli, mi ha risvegliato la memoria di Themis, personaggio primordiale del mito greco, presente a Dodona, il sito oracolare sacro a Zeus, con un tempio, ma anche a Delfi, dove Pseudo Apollodoro (Biblioteca 1.22) la ricorda oracolo originario ben prima dell’avvento di Apollo e dove Pausania (Periegesi della Grecia 10.3.5) ci dice che Gea, la versione greca della Madre Terra, era solita pronunciare oracoli.

Scena seconda: Walkirie e Ondine

Fonte: wikicommons The valkyries Hildr, Þrúðr and Hlökk bearing ale in Valhalla (1895) by Lorenz Frølich

Le Walkirie, antiche divinità acquatiche che nel Völundarkviða (Wolundar), che fa parte della vecchia Edda, sono ritratte nell’atto di spogliarsi delle piume di cigno e bagnarsi come giovani dee sulle rive di fiumi che attraversano fitte foreste. Le Walkirie, che sottraggono gli eroi dal campo di battaglia, eroi nordici che però condividono con i giovani greci e romani la condizione di nympholeptoi, cioè di rapiti dalle ninfe verso una vita non più vita, ma non per questo meno degna di essere cantata.

Fonte: wikicommons Åsgårdsreienlit.‘The Ride of Asgard‘, an 1872 painting by Peter Nicolai Arbo.

Con le Ondine il percorso è più breve: le figlie del Reno o del Re dei mari, gli esseri elementali studiati da Paracelso, sono solo una ennesima versione di quella piacevole paura, di quel brivido che ogni ragazzo, dalle rive dell’Ilisso alle sponde del Reno, sperava di provare almeno una volta nella vita. Con il pensiero vado a Hylas e ai versi che Teocrito dedica alla sua morte prematura:

In mezzo all’acqua danzavano le Ninfe, le Ninfe insonni, dee tremende ai contadini, Eunice e Malis e Nichea, che ha la primavera nello sguardo. Il fanciullo accostò all’acqua la sua grande brocca per attingere: subito tutte gli afferrano la mano, perché a tutte il tenero seno palpitava d’amore per il ragazzo argivo. Cadde di colpo nell’acqua nera (…)

Teocrito, Idillio XIII, vv. 43-49 (ed. Oscar Mondadori 1991, traduzione Marina Cavalli)

Scena terza: un drago e il suo oro

Ma le Ondine di Wagner proteggono un tesoro vero, una quantità d’oro degna di ripagare la grande opera del Walhalla. Quel tesoro, e l’anello che verrà maledetto, finirà tra gli artigli di un drago e come non pensare a quello che è forse il più antico drago guardiano d’oro nella storia del mito? Ladone, così lo chiama Esiodo nella Teogonia (v. 333) è il drakon che avvolge le proprie spire attorno all’albero dei pomi d’oro, quello del giardino delle Esperidi.

Il giardino delle Esperidi ritratto su un cratere a figure rosse del Pittore di Lycurgo, 360 a.C. Lo potete trovare al museo Jatta a Ruvo di Puglia. Questa immagine l’ho recuperata dalla pagina facebook del museo.

Atto terzo – l’artista

Immergermi nella tetralogia è stato come aprire uno dopo l’altro i libri più antichi delle storie degli dèi e dei mortali, uomini e donne sconvolti dalle azioni di divinità che agiscono in preda alle emozioni più violente. Mentre un destino imperscrutabile avvolge tutto e tutti, gli esseri mortali parlano con gli dèi, si innamorano di loro, li odiano, li combattono, scendono a patti con loro, li seguono fino alla completa distruzione.

E mentre i gorghi del Reno luccicavano invitanti, ecco che mi sono imbattuta in un altro fenomeno, una meteora, per così dire, che rischiara l’universo creato da Wagner: Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949).

L’artista spagnolo mi incuriosisce da alcuni anni: prima sono stati i suoi quadri, dai chiaroscuri quasi violenti, drammatici e molto mediterranei; poi sono state le sue stoffe, stampate con motivi attinti dalle decorazioni vascolari e dagli affreschi che Sir Arthur Evans stava riportando alla luce tra le aride zolle di Cnossos a Creta proprio in quegli anni.

A poco a poco ho cominciato a guardare più da vicino questo artista geniale, che sembra avere avuto una passione per la sperimentazione e la contaminazione di generi e di tecniche. La tecnica della stampa, l’arte tessile e l’archeologia, ma anche le applicazioni pratiche dell’elettricità, l’arte scenografica e…la tetralogia!

Una delle passioni di Fortuny è infatti proprio l’opera di Wagner e sono infatti sue alcune delle immagini più iconiche dei personaggi e delle scene della saga nibelunga.


Non credo di aver visto una immagine più struggente: si tratta di Siegliende e Siegmund, fratelli separati alla nascita, figli di Wotan, perdutamente innamorati l’uno dell’altra e genitori di Siegfried. La spada di Siegmund, che scandirà i momenti salienti della saga, annuncia una fine tragica, ma il loro abbraccio sembra quasi di poterlo toccare. foto mia.
Henriette Negrin foto mia

Visitando la casa-atelier museo di Fortuny e della moglie Henriette Negrin (musa preziosa e collaboratrice molto attiva) a Venezia, scopro che l’artista aveva anche messo a punto un innovativo sistema per illuminare i fondali e creare profondità di paesaggi nel teatro di Bayreuth. Questa cittadina bavarese era stata scelta da Wagner per realizzare un teatro costruito espressamente per contenere la tetralogia.

Maquette per l’Oro del Reno di Richard Wagner applicata al modello per il teatro di Bayreuth, 1903 foto mia

Fortuny resta ammaliato da tutti i personaggi wagneriani e infatti alcuni quadri sono dedicati anche alla vicenda di Parsifal.

Queste sono le magiche fanciulle-fiore che si rivolgono a Parsifal: “Che dolci profumi… Siete voi fiori?”
“Siam del giardino gli spiriti aulenti… Cresciamo nel sole d’estate… Sii il nostro tenero amico…” anche per loro un destino da ninfe che rapiscono eroi. foto mia nel museo Fortuny

Epilogo

Queste mie riflessioni sono uscite qui sul blog perché … non ne potevano fare a meno. Ho ceduto alla loro insistenza e, per quanto si tratti ancora di abbozzi, ho deciso comunque di mettere nero su bianco le tante suggestioni suscitate dalla lettura della tetralogia wagneriana attraverso la guida di Giorgio Pestelli.

Ho dovuto, in qualche maniera, cominciare ad affrontare il cipiglio di Brünnhilde e la svagatezza di Siegfried o le risate argentine delle Ondine.

Ma in effetti mi piace immaginarmi nel giardino d’inverno di Fortuny, circondata da stoffe e damaschi, avvolta in profumi speziati. Vorrei provare a seguire il pennello mentre crea le ombre che minacciano i fratelli abbracciati, oppure scorgere sul volto del pittore un sorriso, un lampo nello sguardo, mentre immerge le Ondine nella luce…

Siegfried e le Ondine foto mia
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“Il re è vivo?”

Mentis Bostantzoglou (Bost), Alessandro Magno con la sorella (1984)
https://parallaximag.gr/thessaloniki-news/gorgona-thessaloniki

Le sirene dell’Egeo possono essere piuttosto insistenti. Se ve ne trovate una davanti nel mare in tempesta, probabilmente comincerà a chiedervi minacciosa “Alessandro è vivo?” Mi raccomando, la vostra risposta dovrà essere repentina e sicura: “Alessandro vive e regna!”, solo così la sirena (o la Gorgona) aiuterà la vostra imbarcazione, calmando le acque e salvandovi da un brutto naufragio.

La leggenda di Alessandro Magno si fonda con il folklore più stratificato e racconta di una famiglia mitica, in cui la sirena sarebbe addirittura sorella del re macedone. Ma del rapporto tra sovranità e ninfe o sirene ho parlato altrove e non è questo il luogo adatto per rifletterci.

Un re e la sua isola

Questa stessa apprensione mi è sembrato di scorgere nella voce di Maud, sirenesca e fatata presenza nella suggestiva ultima pubblicazione di Wu Ming 4 “La vera storia della banda Hood”.

Maud, come altri personaggi del romanzo, rivolge tale domanda a un cavaliere, prima ancora di capire chi è e cosa lo spinge ad addentrarsi nella foresta: non appena vede la croce sul petto e comprende la sua identità di crociato, gli chiede se Riccardo “Cuor di leone” sia ancora vivo. Una domanda legittima, viste le condizioni precarie in cui versa l’Inghilterra che il crociato ha lasciato, e soprattutto considerato il fatto che Maud e gli altri stanno abitando più o meno abusivamente la foresta, proprietà del re.

Il racconto dei ladri ragazzi è estremamente coinvolgente e permette di guardare alla leggenda con occhi al contempo più storici e più sognanti. L’autore, presentando il libro alla Biblioteca delle Oblate, ha spiegato di aver fatto ricorso a fonti letterarie primarie, vale a dire le ballate medievali che cantavano di ragazzi del popolo, nascosti nella foresta di Sherwood, abili nello spogliare frati e nobili di passaggio.

Ora, non voglio rivelare troppi dettagli, anzi spero di incuriosire e motivare a leggere questa rivisitazione di un personaggio molto popolare. Il Robin Hood che viene raccontato da Wu Ming 4 è molto diverso da quello a cui la fortuna letteraria e cinematografica ci ha abituato, ma il piacere sta proprio nell’individuare la formazione del mito Robin Hood attraverso i dettagli più verosimili e storici raccolti in quest’ultima versione.

Questa è un’altra foresta, quella bretone di Broceliande, ma strettamente legata alle vicende mitiche dei Sassoni.

Perciò cercherò di evitare le vicende narrate troppo da vicino e mi concentrerò su alcuni personaggi. Maud, come avrete intuito, è sicuramente la figura che catalizza attorno a sé le emozioni più intense: curiosità, fascino, timore, un senso di appartenenza.

È una ragazzina (ma nella foresta il tempo accelera e rallenta senza seguire le logiche del villaggio o della città) abbigliata, per così dire, come si conviene a una creatura magica: capelli rossi e ricci, lentiggini, occhi verdi , lingua sciolta. La sua esuberanza è contenuta in un convento, da cui viene “estratta” quasi come la luna nel pozzo della fiaba: uno dei ragazzi incappucciati la lega con una corda e la issa al di qua dello steccato.

Ecco che è libera, ma anziché seguire il gruppo, Maud lo guida. Diviene la saggia che racconti i segreti della foresta, quelli delle erbe, degli alberi, dei troll. Maud impone la “legge delle storie”, per cui la vediamo raccontare ai “bimbi sperduti” tutto quello che devono sapere per dialogare con la foresta e non esserne inghiottiti, annientati.

Ma Maud è anche una figura che unisce due mondi e in questo senso sembra la degna erede delle sacerdotesse di Avalon, perché è lei la prima a riconoscere la devozione alla Vergine Maria. Tale dettaglio, che tanto marginale non è, sembra essere presente proprio nelle antiche ballate che hanno ispirato l’autore. Un mondo di madri mancate o desiderate, ecco cosa viene offerto ai ragazzi incappucciati.

Mentre in un punto noto solo a loro il volto arboreo del Green Man li guarda dal tronco di un albero, e mentre Cernunnos tenta di inghiottirli nell’oscurità, e mentre un cervo bianco ricorda che quelle sono le terre di un re.

La foresta di Wu Ming 4 è estremamente popolata e forse ci aspetteranno un Tom Bombadil che canta trasognato tenendo per mano la sua Baccadoro, ma quella è un’altra foresta, di un’altra terra, solo meno distante, ma distinta.

Leggere le vicende della banda di Sherwood in questo clima primordiale, di genesi e allo stesso tempo di stratificazione di miti, mi ha fatto tornare in mente una visita bellissima al museo delle terme romane di Bath. Il sito romano sorse su acque termali dove furono edificati non solo le sale delle abluzioni, così popolari presso di Romani, ma anche un tempio dedicato a divinità collegate alle acque e alle loro proprietà curative. Gli scavi hanno permesso di individuare una antica divinità locale detta Sulis, cui sarebbe stata associata Minerva – spesso legata a culti salutari – e anche una dea Luna, antica personificazione spesso sovrapposta a Diana. Ma ciò che mi ha risvegliato la memoria del sito termale è stato il pensiero del frontone del tempio di Minerva: ancora non completamente decifrato, il grande volto che campeggia sullo scudo circolare inscritto nello spazio frontonale, sembra proprio l’antesignano del Green Man.

Fonte dell’immagine: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Roman_baths_temple_pediment_02.JPG

Questa figura del folklore inglese è molto popolare ed è variamente identificata con folletti o creature del bosco, non sempre gentili, anzi spesso aggressive. Il volto arcigno è incorniciato da ciocche di capelli fluenti e una barba incolta. Gli occhi ti guardano, grandi e penetranti e spesso minacciosi. Ebbene, in un agile pamphlet a cura di Jeremy Harte, viene tracciata la possibile evoluzione iconografica: da decorazioni di età romana con teste di gorgoni circondate da serpenti e da motivi vegetali, alle elaborazioni cinquecentesche e poi barocche, fino alla trasformazione definitiva. Il volto di Bath non ha nulla di gorgonesco, se non la posizione centrale su uno scudo e lo sguardo magnetico, chissà se possiamo dire di trovarci di fronte a una sorta di grado zero…

Una delle riflessioni scaturite dalla presentazione del libro è che la figura di Robin Hood sarebbe un eroe dai mille volti nel senso di una composizione di più volti, di più personaggi, che prendono il nome dal Robin Goodfellow della tradizione folklorica inglese e i tratti del viso dal gruppo di ragazzi che si sono, letteralmente, dati alla macchia.

Mi piace pensare al libro di Wu Ming 4 come a un caleidoscopio, che ci permette di scomporre l’immagine popolare di Robin Hood nelle tante piccole tessere colorate e di tornare al giorno in cui quelle tessere sono state raccolte e composte per creare il volto di Hood.

E mi piace pensare che almeno tre o quattro di quelle tessere riproducano i riccioli rossi e lo sguardo profondo della magica Maud.

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Il pomeriggio che diventai un bardo longobardo

Immagine di Chiara Raimondi

Una bella idea

Si è concluso ieri il convegno organizzato dai ragazzi di Let’s Dig Again: C.A.S.T. Convegno di Archeologia, Storia e giochi da Tavolo. Realizzato con il contributo di Ri-Volt/McWatt e patrocinato da Longobardi in ItaliaConfederazione Italiana Archeologi, Associazione Italiana di Public History e Federludo, il convegno si è svolto il 1 e 2 marzo a Firenze, negli spazi del Caffè Letterario Le Murate e di Murate Idea Park.

La prima giornata si è concentrata sui contributi di relatori che hanno portato la propria esperienza di “gamification“, un termine inglese che si riferisce in senso lato a programmazione di attività di gioco applicate ad ambiti che normalmente non lo prevedono. Nei vari ambiti in cui è possibile sviluppare attività di gioco c’è anche quello educativo, in cui il gioco può avere intenti didattici. Per questo motivo, il concetto di gamification sta divantando popolare e diffuso nei luoghi di divulgazione culturale, soprattutto di cultura antica.

La seconda giornata ha poi aggiunto la materia prima del convegno, ovvero i giochi e i loro giocatori! Una sala è stata interamente allestita con tavoli su cui hanno trovato posto tabelle e pedine, carte e regolamenti, scatole multicolori e perfino un intero e complesso diorama. Dalla mattina alla sera appassionati vecchi e nuovi hanno stretto alleanze oppure scoperto insanabili divergenze con alter ego provenienti da tutta Italia, mentre in una sala del Caffè Letterario continuavano gli interventi e venivano affrontati i temi più caldi del gioco di ruolo ambientato nell’antichità.

Quali fonti usare?

Per avere un’idea dei diversi aspetti affrontati negli interventi in sala vi mando direttamente alla pagina web che Let’s Dig Again ha dedicato a C.A.S.T. e agli account Facebook e Instagram che hanno raccolto le immagini salienti della due giorni.

Io invece voglio soffermarmi su alcuni argomenti che mi hanno incuriosito, per esempio la bella discussione sull’uso delle fonti antiche per ideare e organizzare un gioco, soprattutto un gioco di ruolo. I protagonisti della tavola rotonda erano persone impegnate da anni nella divulgazione storico-archeologico tramite giochi rievocati oppure creati ad hoc: Jacopo “Faust” Buttiglieri (Langobardia Horribilis), Laura Cardinale (Il Salotto di Giano APS, Jano Studio S.r.l., Federludo), Iacopo Trotta (Associazione AFBIS, Federludo), Mirella Vicini (Vicepresidente Federludo), Sara De Sanctis (D.R.A.G.O. APS, Federludo) e Marco Moderato (Accademia dei Pugni).

In maniera credo prevedibile la risposta alla domanda iniziale è stata unanime: le fonti vanno usate tutte! Ma i singoli relatori, ognuno impegnato in un ambito particolare della divulgazione storica, hanno sottolineato un aspetto che forse spesso sfugge: il gioco storico o archeologico che voglia riuscire nell’intento di immedesimarsi nell’epoca giocata, non dovrebbe avere lo scopo di ricreare un evento storico, ma di dare corpo al cosiddetto “non detto”.

Perché il bello non è riuscire a rivivere momento per momento un evento, anche famoso, per il quale abbiamo fonti scritte che di per sé sono fonti parziali e da maneggiare con cautela. Se vogliamo davvero trasmettere l’emozione della storia antica e magari aiutare a comprendere meglio gli usi e costumi antichi, è molto più utile (e più onesto) elaborare uno scenario inventato, ma plausibile e mettere il giocatore nella condizione di sviluppare la propria sensibilità all’argomento.

È un mondo difficile

La tavola rotonda successiva ha ribadito e ampliato i discorsi dei precedenti relatori: “Gioco e società: storia, archeologia e giochi a servizio di un progresso sostenibile e inclusivo“ con Giovanni Bacaro (Presidente Federludo), Laura Cardinale, Sara De Sanctis e Diego Morgera (Accademia dei Pugni). Io non ho potuto fare a meno di ricordare una collega che storceva il naso quando le raccontavo di creare in classe quiz a tema e brevi giochi di deduzione in cui gli studenti vestivano di volta in volta i panni di Teseo, Ulisse, Enea, oppure di aruspici etruschi. La collega mi diceva che non dovremmo “farli divertire”, ma istruirli e io pensavo che per me è impagabile l’emozione di ascoltare il ragionamento di uno studente o di una studentessa che cerca di prendere in considerazione i pro e i contro di una decisione che salverà la vita all’eroe oppure di capire come orientare il templum. Un altro aspetto che secondo me non viene mai considerato abbastanza è che il gioco in classe aiuta a creare un’atmosfera di collaborazione che nessun tema o quiz o ricerca di gruppo riuscirà mai a ottenere. In un’atmosfera di gioco anche la competitività riesce a trovare un proprio canale di sfogo e non si ferma alle aride questioni di voti e gratificazioni accademiche.

Giocano, sai? Giocano tutti! (quasi cit.)

Mattia Mancini (a sinistra) e Gabriele Zorzi

Mattia Mancini, Egittologo impegnato nella ricerca e nella divulgazione anche online con il suo celebre blog djedmedu, e Gabriele Zorzi, istrionico animatore delle tante attività di La Fara Longobarda, hanno infine contribuito alla discussione in maniera a un tempo rigorosa e divertente: il loro intervento ha riguardato alcuni giochi che venivano praticati, rispettivamente, nell’antico Egitto e nel mondo longobardo. Questo per ribadire il fatto che la dimensione del gioco appartiene all’animo umano ed è quindi parte integrante di quelle civiltà che vogliamo così ostinatamente studiare e divulgare!

Io, Ilderico

Immagine tratta dal sito:
https://travelnostop.com/lombardia/curiosita/alla-scoperta-dei-longobardi-con-il-gioco-di-ruolo-prima-che-il-gallo-canti_586211

E infine veniamo alla mia esperienza al C.A.S.T.! Sabato pomeriggio ho vissuto la mia prima avventura in un gioco à la Dungeons&Dragons ambientato nell’Italia longobarda!!

Il gioco si chiama “Prima che il Gallo Canti” ed è un’avventura basata sulla quinta edizione di D&D. Giada Taribelli ed Emilio Palmerini sono gli ideatori e gli sceneggiatori sia dell’avventura intera che del fumetto che ne definisce l’antefatto. Un fumetto disegnato e curato da Francesco Mazziotta. A Firenze il progetto è stato presentato da Arianna Petricone, che nell’ Associazione Italia Langobardorum è impegnata nella Segreteria Tecnico-Scientifica e nel coordinamento del sito seriale; accanto a lei Carlo Piloni (Project Manager Gummy Ind.) e Giovanni Manzoli (Business Unit Manager Gummy Ind.) hanno spiegato chiaramente che un prodotto di questo tipo, per essere efficace, deve essere coordinato e gestito non solo dagli esperti di storia longobarda, ma anche da esperti di game design e di fumetti. Perché, ancora una volta, ciò che viene prodotto non è una rievocazione storica ma un sistema per sperimentare la storia in modo immersivo e avvolgente.

Il fumetto e gli aspetti tecnici che in queste situazioni sono riservati al Master di un gioco di ruolo sono scaricabili nella sezione Download del sito di Longobardi in Italia, dove, tra l’altro, è possibile raccogliere molto materiale e informazioni sul sito seriale dei Longobardi, che coordina diverse aree archeologiche sparse per l’Italia.

Io, come dicevo, ho voluto provare l’ebbrezza di essere Ilderico, un bardo istruito presso Benevento, dall’aria pacioccona ma pronto a darsi da fare per aiutare il prossimo anche in situazioni complicate! Accanto a me Adelmo, Folco, Orso e Sigmar hanno vissuto un’avventura a tratti buffa ma molto avvincente. Nel nostro gruppo c’erano sia giocatori esperti sia chi, come me, per la prima volta si affacciava al mondo del gioco di ruolo. I nostri Master sono stati proprio i due autori dell’avventura, che ci hanno guidato con ironia e competenza.

CAST A…gain!

Spero che gli amici di Let’s Dig Again annuncino presto la seconda edizione di questa bella avventura. Perché il convegno ha il pregio di condividere idee ed esperienze e perché il mondo della divulgazione storico-archeologica in Italia ha bisogno di diffondere sempre di più le idee che le realtà anglosassone o francese, per esempio, stanno sviluppando già da tempo.

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