Dal tramonto all’alba

Blocco di arenaria scolpito con figura di agnello. Trovato nella chiesa più piccola del complesso di Santo Stefano a Um er-Rasas, nell’atrio meridionale. III o IV secolo d.C.

Dopo la mostra “senza immagini”, vi presento un’altra piccola esibizione temporanea, sempre a Roma, che invece sembra affidarsi molto all’effetto scenografico.

Si tratta di “Giordania, l’alba del Cristianesimo”, allestita al primo piano del Palazzo della Cancelleria a Roma e aperta fino al 28 febbraio.

Si tratta di una mostra voluta dall’Ente del Turismo giordano e dunque ben pubblicizzata, con una inaugurazione in cui è intervenuta la neo ministra del turismo e delle antichità del Regno Hashemita di Giordania Sua Eccellenza Lina Annab, la quale, dopo un breve discorso, ha brillantemente riassunto le motivazioni che rendono questa una mostra effettivamente imperdibile:

Ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide

Il riferimento era, naturalmente, diretto ai rapporti tra Giordania e Italia: da una parte un Paese mediorientale in cui il 92% della popolazione pratica la religione musulmana di confessione sunnita e il 6% si dichiara cristiano, dall’altra un Paese che è sede del patriarca della religione cristiana cattolica e che nel 2025 celebra il venticinquesimo giubileo universale nella storia della chiesa cattolica.

Giubilo

Lastra decorata nella cosiddetta “pietra di Mosè” o bitume. Balaustra del presbiterio trovata a Rujm Al Kursi.

La mostra del Palazzo della Cancelleria intende inserirsi nelle celebrazioni giubilari e indicare i luoghi cristiani della terra giordana, presentando circa 90 oggetti, ritrovati in vari luoghi giordani, che testimoniano la presenza cristiana fin dal III secolo. Ci sono poi alcuni anniversari che legano ancora più strettamente la Giordania e la Santa Sede: nel 2025, infatti, si celebrano 30 anni di relazioni diplomatiche e 60 anni dalla visita di Paolo VI ad Amman.

Pellegrini

Bottiglia di vetro a forma di pesce, ritrovata a Khirbat Yajuz. VI secolo d.C.

Grazie a Nadia Pasqual e ad Archeologia Viva ho avuto l’opportunità di partecipare all’inaugurazione e di aggirarmi con calma tra le vetrine dell’allestimento molto suggestivo, a cura, tra gli altri, di Saleem Janini (Direttore Creativo) e di Paolo Francesco Caponi (Architetto). La selezione del materiale e la cura del catalogo sono invece opera del dottor Eyad Al-Khzuz, il quale ha voluto far emergere la storia cristiana della Giordania, attraverso i cinque siti di pellegrinaggio riconosciuti dal Vaticano:
Tel Mar Elias, il luogo di nascita del profeta Elia.
Nostra Signora della Montagna, santuario che commemora la Vergine Maria.
Monte Nebo, ultimo luogo di riposo del profeta Mosè.
Macheronte, dove si racconta del martirio di Giovanni Battista.
Il sito del Battesimo di Gesù Cristo (Maghtas) sul fiume Giordano.

Parafrasando la ministra, è vero che siamo ormai “abituati a pensare a una topografia del Cristianesimo che segua le vicende di Santi e martiri in Europa, relegando la terra da cui tutto è originato come territorio arabo” e musulmano, eppure continuiamo a utilizzare il termine Terra Santa per indicare la terra compresa tra mar Mediterraneo e fiume Giordano e costellata di luoghi sacri alle tre principali religioni monoteistiche. Anche da un punto di vista di marketing turistico, siti come il Monte Nebo o Al-Maghtas/Betania (per non parlare di Gerusalemme), sono mete di viaggi dalla chiara ispirazione spirituale.

Mosaico con iscrizione in aramaico. Scoperto presso la chiesa inferiore del monastero di San Cyrianus, Wadi Mujib, nella zona del Monte Nebo. Il testo commemora le azioni di Cyrianus e di altri benefattori che finanziarono il restauro della chiesa. V-VI secolo d.C.

La mostra romana vuole fermare proprio i pellegrini “mordi e fuggi” e presentare loro un territorio molto più vasto dei soliti siti, dove la pratica quotidiana del Cristianesimo è testimoniata, nell’arco di tre-quattro secoli, da oggetti semplici, ritrovati anche in luoghi non celebri.

Ritorno alle origini

Nell’accostarmi alla concezione della mostra, mi sono ritrovata a fare una riflessione: il culto della Magna Mater e il culto di Mithra si sviluppano in età romana, ma hanno origini dichiaratamente orientali. Vale a dire che è possibile individuare luoghi persiani e anatolici in cui venivano venerate queste divinità, ma quando parliamo del culto della Magna Mater e del culto di Mithra, facciamo riferimento alle forme romane di questi culti, che nel contatto con la civiltà di Roma hanno acquisito la forma che li ha resi popolari e diffusi fino negli angoli più remoti dell’impero.

Croce metallica scoperta nella chiesa di Milachios, Macheronte. VI secolo d.C.

Ebbene, nel caso del Cristianesimo, altra religioni iniziatica mediorientale, la diffusione capillare attraverso l’impero non si è mai davvero allontanata dalla narrazione primigenia, quella del fiume Giordano, del deserto della Giudea, del palazzo di Erode Antipa, del lago di Tiberiade.

Ecco, dunque, comparire, uno dopo l’altro, i parafernalia del culto cristiano, perfettamente conservati e “funzionanti” tra i resti delle chiese e delle cittadine giordane: croci utilizzate come pendenti, incensieri, lucerne con simboli cristiani, capitelli e mosaici decorati con agnelli e pesci, balaustre di presbiteri dai motivi intrecciati di croci e losanghe.

Morire di giovedì

Stele di Milchis, prestito dal Museo nel punto più basso del mondo.

C’è poi una serie di monumenti che mi ha particolarmente commosso: si tratta di stele funerarie con brevi iscrizioni che indicano i nomi dei defunti, l’età, l’anno del decesso e il giorno della settimana. Un uso che, come riporta l’approfondimento nel catalogo, in Oriente andò spegnendosi intorno al VI secolo.

Monumento di Milchis, figlio di Massimo, che morì all’età di 55 anni, nell’anno 280, il quindicesimo del mese di Distro, nel giorno di Giove. Sii di buon umore, Milchis, nessuno è immortale.

Perché visitare la mostra?

Devo aggiungere, per onestà, che, a fronte di un grande impatto scenico, la mostra è un po’ carente da un punto di vista del supporto didattico, con molti errori di stampa, frasi troncate e qualche attribuzione non chiara.

Tuttavia penso che uno degli obiettivi raggiunti sia quello di suscitare una curiosità nuova nei confronti della Giordania e di invogliare il visitatore a progettare un viaggio per ritrovare una poesia spirituale che oggi è sicuramente difficile da ricreare. Se i riferimenti testuali nel catalogo sono esclusivamente legati ai vangeli, ciò che troviamo in mostra ci parla di Storia e di esperienze umane, sia quelle degli antichi abitanti giordani che quelle dei moderni archeologi e studiosi.

A questo proposito, mi piace ricordare l’opera della Missione Archeologica Italiana a Wadi Mousa, di cui ho scritto tempo fa qui.

E anche la presenza italiana in luoghi chiave del territorio cosiddetto della Terra Santa come gli scavi al Santo Sepolcro, vedete, per esempio, qui.

Dal tramonto all’alba ho voluto intitolare questa mia breve riflessione, perché la nostra società sembra non riuscire a sfuggire alla corsa inarrestabile verso le tenebre dell’odio e dell’ignoranza, perciò qualunque alba, anche quella di un culto misterico ormai non più al passo con i tempi, spero possa portare un po’ di quella luce della Storia di cui tutti noi sentiamo la mancanza.

Mosaico con pesce dalla cattedrale di Madaba, VI secolo d.C.

Dal 31 Gennaio 2025 al 28 Febbraio 2025

Ingresso gratuito e prenotazione obbligatoria sul sito

Sito ufficiale: http://www.mostragiordania.com

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Genius Loci sul Gianicolo*

Qualche giorno fa ho visitato una mostra piuttosto curiosa, allestita nelle sale del Museo di Roma a Trastevere: racconta di una quercia e di un angolo di Roma ritratto molte volte nei paesaggi dipinti e incisi di autori italiani e stranieri.

Verrò a breve a spiegare della quercia in questione, ma intanto voglio offrirvi un’immagine più ampia: un colle che non troviamo citato spesso nelle vicende più note della fondazione di Roma o degli episodi salienti dell’età Repubblicana, tuttavia un luogo circondato da un’aura sacra.

Il nome, per esempio, sembra derivare dal dio Giano, il bifronte custode di ogni cominciamento e di ogni fine. In un’epoca mitica precedente la fondazione di Roma, Giano dimorava tra i boschi del colle e aveva accolto Chronos in fuga dalla Grecia. Nel Lazio, il crudele padre di Zeus cambia nome e destino, diviene Saturno, un saggio re che protegge i raccolti d’inverno e che viene celebrato nei giorni del solstizio di dicembre.

Non sembrano esserci episodi eclatanti legati a questo antico Gianicolo, però è curioso che, proprio qui, si trovi un luogo sacro a Furrina, divinità legata ai lavori nei campi. A Furrina, che divenne ben presto associata in gruppo (Furrine), era dedicato un boschetto sul Gianicolo, ma l’antico spirito della natura non era da sola: queste pendici attrassero alcune divinità siriane e infine Atargatis, oltre a uno Zeus “fulminante” (Keraunios) giustamente collocato in mezzo a quelle cime d’alberi che poteva distruggere con un cenno del capo!

Screenshot dal sito: https://www.digitalaugustanrome.org/records/iuppiter-optimus-maximus-heliopolitanus/

^ CIL VI, 422Iovi optimo maximo Heliopolitano Augusto, genio Forinarum et cultoribus huus loci.

In questa iscrizione, che conferma la presenza in età severiana di culti legati all’Oriente (c’è un chiaro riferimento al Giove-Baalbek mediorientale), vediamo che alle Furrine è associato il genio.

“Non c’è luogo che non abbia un genio”

Ma cos’è un “genius“? Una creatura divina, molto più impalpabile di quelle divinità antropomorfe, che con gli essere umani condividono non solo le fattezze ma spesso le manifestazioni emotive. Il genius può essere legato a concetti, come quello di famiglia, o ai luoghi.

Il genius loci è uno spirito che innerva uno spazio frequentato dagli esseri umani. Proprio questa presenza fa sì che la natura possa dialogare con chi vi si accosta. Ecco un esempio tratto dall’Eneide di Virgilio:

Aveva appena parlato, quando un grosso serpente strisciò da sotto alla tomba, abbracciò calmo il tumulo dopo essersi attorto sette volte, posò sugli altari la schiena chiazzata di blu, squamosa d’oro lucente: sembrava l’arcobaleno che contro sole rallegra le nubi di mille colori. Enea stupì a quella vista: con lunghi contorcimenti il serpente strisciò tra tazze e lucenti bicchieri, assaggiò qualcosa e di nuovo, senza far male, lasciò gli altari, si ritirò sotto la tomba. Enea con passione ancora maggiore continua le feste iniziate in onore di Anchise, incerto se quel prodigio fosse il Genio del luogo o fosse al servizio del padre (…)

Virgilio, Eneide, V 95 e sgg. Trad. Cesare Vivaldi, Longanesi 1970

Servio, nel commento a questo passo dell’Eneide, sottolinea che nullus enim locus sine genius: non c’è luogo che non abbia un genio.

E allora, se è vero che sul Gianicolo templi, altari e lunghe tradizioni collocavano i Romani più antichi, appare logico trovare un genio che aleggi tra i cespugli, nelle forre, in mezzo ai ruscelli e, perché no, tra le radici di una quercia.

La quercia del Tasso

Veniamo allora alla quercia oggetto della mostra e partiamo da un adagio popolare romano: sul Gianicolo c’è la cosiddetta “quercia del Tasso”. Questo collegamento tra albero e autore sembra fare riferimento ad alcune lettere scritte dal Tasso durante i suoi mesi romani, quando aveva trovato rifugio e ristoro presso il Convento di Sant’Onofrio. La storia della chiesa di Sant’Onofrio risale al 1439: là dove sorgeva un romitorio dedicato a San Girolamo, fu edificato un convento, dove, cento anni dopo, Tasso trascorse gli ultimi mesi della sua vita e dove fu sepolto. Oggi vi si trova un piccolo museo dedicato al poeta di Sorrento.

Mi sono fatto condurre in questo munistero di Sant’Onofrio; non solo perché l’aria è lodata da’ medici, più che d’alcun’altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo luogo eminente; e con la conversazione di questi divoti padri, la mia conversazione in cielo.

P. Serassi, Vita di Torquato Tasso, p.319

Tasso non fa riferimento specifico alla quercia, ma appare chiaro che la sua giornata si svolga all’aria aperta e quella quercia offre un punto di vista molto suggestivo su Roma.

A poco a poco, quel colle e quella quercia diventano la meta di pellegrini devoti non tanto a Sant’Onofrio, quanto alla memoria di un poeta sventurato e frainteso, autore di opere fondamentali, erede del vate Virgilio, ma non abbastanza apprezzato in vita.

Giungiamo all’Ottocento, a quel movimento Romantico che vede nella natura una risposta alle esigenze dell’essere umano e una musa a quella creatività che fa di tutto per erompere dal petto di poeti spesso malinconici, sofferenti, ma sempre ispirati.

Alla quercia del Tasso troviamo allora Giacomo Leopardi, il quale

Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro;- ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? E’ pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura.

Giacomo Leopardi, Lettere 1822-1823

Ecco, il contrasto: certo può far effetto vedere che un autore così importante per la propria ispirazione poetica sia destinato a una sepoltura ignorata dai più. Il legame tra i due poeti torna nelle opere di Leopardi, il quale coglie un aspetto importante dell’aura del Tasso: la sua ricchezza d’animo. Tasso aveva un proprio genio e Leopardi, nelle Operette Morali, immagina quel genio (familiare) essere l’unico compagno della prigionia di Tasso a Ferrara.

E la quercia? L’augusto albero di Zeus/Giove resta a guardia della memoria di Torquato Tasso e si offre come espressione del genius loci: la passeggiata al Gianicolo conquista letterati e pittori e la mostra a Trastevere rende conto proprio di questa gloria centenaria. Alla fine dell’Ottocento anche un Santo è conquistato dalla quercia, si tratta di Filippo Neri, che qui ama ritirarsi per meditare oppure per organizzare le attività all’aperto del suo oratorio.

Piano piano viene creato un anfiteatro:

San Filippo Neri per allettare la gioventù alla parola di Dio, e altresì per allontanarla dalle lusinghe del secolo, soleva nell’alto del giardino di quello convento andare a spasso con li suoi penitenti, e con bella grazia vi introdusse alcune conferenze spirituali, con altri devoti trattenimenti. Perciò i Preti dell’Oratorio ad imitazione del loro santo Fondatore seguitano in ogni festa di precetto dopo il vespro, principiando dal secondo giorno di Pasqua di Resurrezione fino alla festa di s. Pietro Apostolo, a venirvi con gran concorso di uomini devoti, e vi fanno de’ sermoni accompagnati con pii trattenimenti. A tal fine hanno eretto nel medesimo luogo, che frequentava s. Filippo tutto il comodo con sedili in forma di teatro, inalberando però sulla cima il segno della s. Croce.”     

[Questo è il testo dell’epigrafe che troviamo in loco]

Pasqua, la primavera, stagione che si era portata via Torquato, il 25 aprile del 1595. E così ogni anno, proprio attorno alla “sua” quercia, si celebrano feste religiose e incontri, una versione cristiana di quell’antico costume, tra i popoli del Mediterraneo, di esaltare la sacralità della natura attraverso alberi e boschi che diventano emanazione stessa delle divinità.

In mostra troviamo anche alcune versioni moderne sia del paesaggio romano in generale che dell’area della quercia. Sempre brillante l’interpretazione satirica di Achille Campanile, accompagnata da opere d’arte molto recenti.

Ecco allora che il genius loci del Gianicolo non solo ha resistito, ma è sopravvissuto a popoli e dominazioni e ha garantito l’antica promessa di un contatto tra il dio e i mortali.

“L’albero del poeta. La quercia del Tasso al Gianicolo”

Dal 29 gennaio al 1° giugno 2025
Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00
Ultimo ingresso un’ora prima della chiusura
Chiuso il lunedì

Per info: https://www.museodiromaintrastevere.it/it/mostra-evento/la-quercia-del-tasso-la-storia-i-personaggi

*Questo post non ha immagini della mostra perché un cartello avvertiva che non si potevano fare foto. La cosa curiosa è che, nel visitare la mostra, non essendo indicato chiaramente il punto di inizio dell’esposizione, ho scattato alcune foto per poi scoprire, alla fine del percorso, che non ero autorizzata. Mancavano custodi, per questo avevo potuto scattare foto indisturbata (non sono stata la sola). Questo episodio mi lascia alcuni dubbi: a partire dal senso di proibire foto in una mostra, al senso di proibirla per opere d’arte che fanno parte della collezione del museo stesso, per finire dubbi sul perché non definire chiaramente il senso di marcia del percorso. Tralascio la mancanza di personale, dal momento che questo aspetto riguarda problematiche molto ampie.

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C’era una volta?

Fu nelle fiabe che io intuii per la prima volta la potenza delle parole, e la meraviglia delle cose, di cose come pietra, e legno, e ferro; albero ed erba; casa e fuoco; pane e vino.

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.251

Sto leggendo per la prima volta il bellissimo saggio “Sulle fiabe“, una conferenza tenuta da Tolkien nel 1939 e pubblicata nel 1947. Si tratta ormai di un classico e ammetto di essere arrivata abbastanza tardi a leggerlo, ma – come si dice – meglio tardi che mai!

Sono molti gli spunti di riflessione offerti dalle parole di Tolkien, soprattutto per chi, come me, da circa otto anni sta cercando di trovare un modo efficace di introdurre giovani studenti statunitensi allo studio del mito classico. L’analisi sulla genesi delle fiabe, ma soprattutto sul rapporto tra le fiabe e il mondo dei bambini e quello degli adulti è brillante e illumina numerosi aspetti che ritrovo nelle mie lezioni. Perché i ragazzi che entrano nelle mie aule si aspettano di ascoltare storie di dèi, eroi, mostri, magie o super poteri e ben presto si rendono conto del fatto che dovranno studiare non tanto nomi astrusi, ma temi. Non dovranno imparare storie buffe e poco credibili (e quindi, dal loro punto di vista, innocue o addirittura ridicole) ma dovranno cercare di capire il motivo che ha portato all’invenzione di quelle storie. Non potranno tenersi lontani dai creatori del mito, ma dovranno confrontarsi con loro, fino a ritrovare loro stessi in quell’immenso specchio deformato che è lo studio dell’antropologia.

Una scarpetta gigante proprio sotto il castello di Marburg. Quale immensa Cenerentola l’avrà persa?

La verità ci fa male, lo so

Mi sono specchiata come una regina cattiva!

Una delle prime “lezioni” riguarda un aspetto essenziale del mio corso, vale a dire il concetto di vero e verosimile applicato ai miti classici. Come i bambini cui accenna Tolkien nel suo saggio, gli studenti sono interessati al grado di verità dei miti, ma la loro domanda non è “è vero che Zeus era il re degli dèi?”, quanto “è vero che i Greci credevano che Zeus fosse il re degli dèi?”. E proprio come Tolkien suggerisce, io sposto l’attenzione dei miei lettori: non chiedetevi se è vero o se chi lo ha ideato pensasse fosse vero, chiedetevi invece perché quello specifico mito è stato creato, che cosa ha condizionato la ideazione di un particolare racconto.

La domanda serve a stabilire una sorta di regola di base: qualunque racconto io stia per leggere, non è vero e quindi non può farmi male, ma nel momento in cui lo leggerò, deciderò se “sospendere l’incredulità” per potermi immergere completamente nella realtà che mi viene proposta.

Recovery

Nella prefazione all’edizione Bompiani di “Il Medioevo fantastico”, Gianfranco de Turris ci informa che, rispetto all’edizione del 1976, la traduzione italiana ha operato alcune scelte diverse. Una di queste riguarda i termini che definiscono i motivi per cui, secondo Tolkien, adulti e bambini ricorrono alle fiabe: per ottenere Fantasy, Recovery, Escape, Consolation. Il termine recovery era stato inizialmente reso come “ristoro”, perché la parola significa ristoro, guarigione, ritrovamento, reintegro, ripristino. Ma nella edizione 2018 è stato preferito renderla come “riscoperta”, intendendo in tal modo suggerire l’insieme delle accezioni summenzionate.

Un cestino gigante da portare alla nonna. Questo è stato lasciato in un angolo di Marburg.

Io, però, vorrei offrire una mia esperienza personale e promuovere la traduzione di recovery, in questo contesto fiabesco, con “guarigione”. Per sei anni, infatti, ho scelto di utilizzare fiabe vecchie e nuove per aiutare mia madre nella sua condizione di paziente di Alzheimer. Non solo ho trovato le illustrazioni molto gradite e gradevoli, ma i testi sono spesso stati un modo per lei di continuare a leggere ad alta voce, fino a quando la malattia glielo ha permesso, e quindi di sentirsi abile pur in un’attività semplice. Oppure, una volta abbandonata la possibilità di parlare, di seguire con interesse una storia breve e ricca di avvenimenti: colpi di scena, eventi buffi, personaggi simpatici, situazioni complicate, ma risolvibili.

Questo interesse l’ho sempre interpretato come la logica conseguenza del fatto che l’Alzheimer ti spoglia completamente di molte abilità e ti fa tornare a uno stato primitivo, che noi care-giver confondiamo con uno stato infantile.

E infine vi è il desiderio più antico e profondo, quella della Grande Evasione, l’Evasione dalla Morte

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.259

Questa riflessione di Tolkien mi ha però portato a pensare che, forse, quella signora di quasi ottant’anni, che non mi aveva mai letto fiabe quando ero bambina, stava nutrendo sia la sua parte infantile che quella adulta. Proprio quest’ultima riemergeva spesso e si rendeva conto, anche solo per un istante, della condizione in cui si stava trovando. Ecco, forse proprio quell’adulta mi chiedeva con gli occhi di “guarire”, “salvarsi”, “scappare” e leggere le fiabe che avevano ormai definito la nostra quasi quotidiana routine.

Ricerca

Lo studio analitico delle fiabe costituisce una preparazione (…) al loro godimento o alla loro creazione (…)

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2018, p.247
Su un’antica fonte, nel centro di Marburg, è appollaiato un ranocchio con la corona!

E così, più mi immergo nella intricata matasse delle genealogie degli dèi classici e delle teorie interpretative, più mi impegno nello scegliere la fiaba o la favola che possa piacere di più a mia madre (ormai non più, ma fino a poco tempo fa è stata una ricerca impegnativa e di grandi soddisfazioni), più cresce in me la voglia di entrare sempre di più nel mondo delle fiabe e lasciarmi incantare dai mille volti degli eroi e delle eroine oppure dalla suggestione di tracciare la lunga vita dei protagonisti dei racconti medioevali che animano l’infanzia della nostra generazione. Una ricerca sulle ninfe del mondo greco mi ha portato a ritrovarle lungo le sponde del Reno e perfino nelle sale del Walhalla!

Un QR code aiuta a seguire il percorso fiabesco tra il saliscendi delle strade di Marburg

Le immagini che ho usato per queste mie riflessioni sono tratte da un viaggio fatto pochi mesi fa sulle tracce dei Fratelli Grimm e delle storie più popolari tra quelle da loro raccolte e pubblicate a varie riprese nell’Ottocento. Ho visitato sia Marburg che Alfeld: nella prima i fratelli hanno cominciato a studiare legge per poi decidere di diventare filologi e narratori di storie del folklore tedesco; la seconda pare invece essere stata da loro visitata quando cominciarono a viaggiare per raccogliere le storie popolari.

La cittadina di Marburg ha deciso di seminare in giro per le strade e presso il castello oppure vicino ad antiche fonti, una serie di installazioni che riproducono alcuni dettagli delle storie più note, creando un vero e proprio percorso che invita il turista ad aguzzare la vista e a ripercorrere le trame delle fiabe.

Qualunque fine, basta che sia lieto

Ci sarebbero ancora tante cose da dire sulle fiabe e sui racconti, vecchi e nuovi. Quel senso di evasione e di catarsi a cui fa riferimento Tolkien è ancora molto forte e presente nei lettori moderni di fiabe. Ricordo uno studente, anni fa, che alla domanda “come mai hai scelto questo corso” rispose che sperava di “escape” dalle brutture del mondo contemporaneo e forse anche da qualche pesantezza personale. Una delle mie lezioni più care è quella che riguarda Delfi e il suo oracolo: adoro analizzare il mito di Edipo e spogliarlo degli aspetti morbosi per riconsegnarlo alla storia e alle istanze delle grandi famiglie aristocratiche che controllavano le trances della Pizia. In quel caso mi sembra di poter offrire ai ragazzi un modo per proteggersi e scegliere se lasciarsi sedurre dagli aspetti più macabri degli antichi miti oppure prenderne il controllo attraverso l’interpretazione.

Forse è questo il segreto del fascino che le fiabe esercitano sugli adulti: mentre le leggiamo possiamo farci coinvolgere, ma la nostra mente sa come raggiungere l’uscita di sicurezza, per così dire. I bambini, in effetti, hanno una qualità che si va perdendo negli anni della crescita: nel momento in cui cominciano a leggere una fiaba hanno già scelto e rispettano il proprio ruolo fino alla fine (se la fiaba è scritta bene, si intende).

Un lupo e sei capretti sbucano da un muro di Marburg.
Ma la fiaba è “Il lupo e i sette capretti“, che fine ha fatto il settimo?

Tutto può accadere nel territorio instabile della fiaba, perché le regole sono chiare fin dall’inizio, anche nelle trame più contorte. Mi ricordo che da piccola ero rimasta perplessa dalla storia di Alice nel Paese delle Meraviglie: prima di guardare la versione disneyana avevo letto una versione ridotta del racconto e non mi era piaciuto, mi creava un senso sottile di disagio. Tolkien nella sua conferenza spiega che Alice non è una fiaba, ma un sogno. E in quanto tale risponde a regole diverse, ma questa sua natura è lasciata volontariamente ambigua dall’autore e per questo gli effetti possono essere stranianti anche sul bambino.

Uno dei fraintendimenti dell’Alzheimer è che questa malattia “fa dimenticare”, perciò sembra quasi banale dire che a mia madre ho letto più volte le stesse fiabe, in alcuni casi anche due volte di seguito. Ma non succede lo stesso anche con i bambini? Non è prassi quasi normale che i bambini e le bambine a un certo punto chiedano con insistenza di ascoltare lo stesso racconto (che sanno a memoria) o di vedere lo stesso cartone animato? Questa routine, questa reiterazione ha come effetto principale quello di rassicurare, da tutti i punti di vista. Nel bambino si aggiunge probabilmente anche una sorta di esercizio di apprendimento, ma qui si entra in un ambito affatto diverso.

La fiaba e la favola ci permettono di vivere e rivivere emozioni in un contesto controllato e controllabile, eppure, durante lo svolgimento del racconto, ci lasciamo dondolare dal trapezio più alto, illudendoci di compiere evoluzioni sempre più rischiose.

Non c’è una fine in questa mia riflessione, piuttosto un invito a riprendere le fiabe e le favole a voi più care e a leggerle a tutti, grandi e piccoli. Leggerle a voce alta, come facevo io con le Fiabe italiane di Calvino proposte a mio fratello quando aveva 8 anni e io 12, oppure come ho fatto questa estate con la raccolta dei Fratelli Grimm al mio compagno di viaggio.

Non c’è un’età per smettere di leggere fiabe.

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Gli dèi all’opera

Prologo

Un libretto piccolo piccolo, sia di formato che di spessore, ecco come mi si è presentato “L’Anello di Wagner” di Giorgio Pestelli (Donzelli editore, 2018). L’idea di immergermi nella sua lettura mi veniva sollecitata dalla passione per le storie e per i miti e da un ricordo lontano che legava i miti e le trame di opere liriche. Intorno ai dodici anni mi capitava spesso di andare a casa di una compagna di scuola, la cui nonna era “la prima arpa” dell’orchestra del Maggio. Una casa piena di spartiti, dunque, un pianoforte a mezza coda e, naturalmente, l’arpa. Quella famiglia era destinata ad avere un ruolo fondamentale nella vita di mia madre, ma questo ancora non lo sapevo.

Sapevo, però, che la mia amica aveva un libro molto voluminoso, dalla copertina rigida (quasi legnosa) nera e che in quel libro erano condensate le trame di TUTTE le opere liriche mai composte. Io leggevo i riassunti con lo stesso spirito entusiasta con cui bevevo le pagine di “Dèi ed eroi della Mitologia”: una serie di libri dedicati alla mitologia greca, romana, egizia, vichinga, che leggevo con avidità.

All’epoca non potevo cogliere il legame sotteso ai tanti, diversi racconti. Ma avvertivo il fascino di quelle vicende così remote e allo stesso tempo così familiari.

Atto Primo – scena di natura

È stato dunque un moto di nostalgia che mi ha portato ad aprire il libro di Pestelli. Ma quello che ho trovato è andato ben oltre ogni aspettativa: una vera e propria guida alla tetralogia, dove si ha la sensazione di aggirarsi indisturbati tra gli orchestrali e di leggere le scene direttamente sui loro strumenti. Ecco un esempio che spero spiegherà meglio ciò che intendo:

Anche la Walkiria incomincia con una entusiasmante “scena di natura”, un preludio in cui infuria una tempesta, fenomeno naturale presente in ogni atto dell’opera (…) le ottave ribattute sul pianoforte dalla mano destra diventano in Wagner un tremolo all’ottava, sempre su doppie corde, di violini secondi e viole sulla nota Re prolungato per 60 battute, rombo che cresce e diminuisce come le ventate e gli scrosci (…)

Pestelli, L’Anello di Wagner, pag.80

E così, in men che non si dica, mi sono trovata a leggere la preziosa guida davanti a un video recuperato su youtube, che riproduceva di volta in volta un’opera della tetralogia. Ho potuto seguire le fasi della composizione wagneriana, ma soprattutto introdurmi nel pensiero di Wagner, nella testa di Wotan, nel cuore di Brünnhilde, nell’animo di Siegfried, nel ghigno di Alberich, negli spruzzi delle Ondine.

Grazie alla guida sapiente e gentile di Giorgio Pestelli mi sono commossa. Ho ascoltato il dolore di un padre e di una figlia; ho guardato l’ingenuità di Siegfried e ne ho provato pietà. Ho ascoltato le voci delle Walkirie e ho intuito il loro dramma di figlie e dee, ho ascoltato la frivolezza delle Ondine e ne ho inteso la pericolosa lusinga, ho ascoltato la gravità delle Norne e ne ho compreso la disperazione.

Atto secondo – miti a confronto

Non sono in grado di elaborare qui un’analisi delle suggestioni classiche che Wagner ha utilizzato come riferimenti, anzi rimando volentieri non solo alla trattazione di Pestelli ma anche alla ricca bibliografia che l’autore produce. Wagner ha voluto mettere in musica una saga che riprendesse la tradizione celtica e i miti del Walhalla, seguendo una prima forte influenza folklorica: non dimentichiamoci che la stesura della tetralogia è stata molto lunga (forse già a partire dal 1849, fino alla prima rappresentazione nel 1876) ed è iniziata con la figura di Siegfried e con un richiamo ad alcune fiabe tedesche a cui il lavoro certosino dei fratelli Grimm aveva dato dignità letteraria. Siegfried era il personaggio più adatto, tra l’altro, a rappresentare anche molte istanze politiche che negli anni quaranta e cinquanta dell’800 stavano facendo letteralmente esplodere l’Europa.

Scena prima: Herda

Tuttavia, la figura della Madre Terra che dialoga con Wotan sull’ineluttabilità degli oracoli, mi ha risvegliato la memoria di Themis, personaggio primordiale del mito greco, presente a Dodona, il sito oracolare sacro a Zeus, con un tempio, ma anche a Delfi, dove Pseudo Apollodoro (Biblioteca 1.22) la ricorda oracolo originario ben prima dell’avvento di Apollo e dove Pausania (Periegesi della Grecia 10.3.5) ci dice che Gea, la versione greca della Madre Terra, era solita pronunciare oracoli.

Scena seconda: Walkirie e Ondine

Fonte: wikicommons The valkyries Hildr, Þrúðr and Hlökk bearing ale in Valhalla (1895) by Lorenz Frølich

Le Walkirie, antiche divinità acquatiche che nel Völundarkviða (Wolundar), che fa parte della vecchia Edda, sono ritratte nell’atto di spogliarsi delle piume di cigno e bagnarsi come giovani dee sulle rive di fiumi che attraversano fitte foreste. Le Walkirie, che sottraggono gli eroi dal campo di battaglia, eroi nordici che però condividono con i giovani greci e romani la condizione di nympholeptoi, cioè di rapiti dalle ninfe verso una vita non più vita, ma non per questo meno degna di essere cantata.

Fonte: wikicommons Åsgårdsreienlit.‘The Ride of Asgard‘, an 1872 painting by Peter Nicolai Arbo.

Con le Ondine il percorso è più breve: le figlie del Reno o del Re dei mari, gli esseri elementali studiati da Paracelso, sono solo una ennesima versione di quella piacevole paura, di quel brivido che ogni ragazzo, dalle rive dell’Ilisso alle sponde del Reno, sperava di provare almeno una volta nella vita. Con il pensiero vado a Hylas e ai versi che Teocrito dedica alla sua morte prematura:

In mezzo all’acqua danzavano le Ninfe, le Ninfe insonni, dee tremende ai contadini, Eunice e Malis e Nichea, che ha la primavera nello sguardo. Il fanciullo accostò all’acqua la sua grande brocca per attingere: subito tutte gli afferrano la mano, perché a tutte il tenero seno palpitava d’amore per il ragazzo argivo. Cadde di colpo nell’acqua nera (…)

Teocrito, Idillio XIII, vv. 43-49 (ed. Oscar Mondadori 1991, traduzione Marina Cavalli)

Scena terza: un drago e il suo oro

Ma le Ondine di Wagner proteggono un tesoro vero, una quantità d’oro degna di ripagare la grande opera del Walhalla. Quel tesoro, e l’anello che verrà maledetto, finirà tra gli artigli di un drago e come non pensare a quello che è forse il più antico drago guardiano d’oro nella storia del mito? Ladone, così lo chiama Esiodo nella Teogonia (v. 333) è il drakon che avvolge le proprie spire attorno all’albero dei pomi d’oro, quello del giardino delle Esperidi.

Il giardino delle Esperidi ritratto su un cratere a figure rosse del Pittore di Lycurgo, 360 a.C. Lo potete trovare al museo Jatta a Ruvo di Puglia. Questa immagine l’ho recuperata dalla pagina facebook del museo.

Atto terzo – l’artista

Immergermi nella tetralogia è stato come aprire uno dopo l’altro i libri più antichi delle storie degli dèi e dei mortali, uomini e donne sconvolti dalle azioni di divinità che agiscono in preda alle emozioni più violente. Mentre un destino imperscrutabile avvolge tutto e tutti, gli esseri mortali parlano con gli dèi, si innamorano di loro, li odiano, li combattono, scendono a patti con loro, li seguono fino alla completa distruzione.

E mentre i gorghi del Reno luccicavano invitanti, ecco che mi sono imbattuta in un altro fenomeno, una meteora, per così dire, che rischiara l’universo creato da Wagner: Mariano Fortuny y Madrazo (1871-1949).

L’artista spagnolo mi incuriosisce da alcuni anni: prima sono stati i suoi quadri, dai chiaroscuri quasi violenti, drammatici e molto mediterranei; poi sono state le sue stoffe, stampate con motivi attinti dalle decorazioni vascolari e dagli affreschi che Sir Arthur Evans stava riportando alla luce tra le aride zolle di Cnossos a Creta proprio in quegli anni.

A poco a poco ho cominciato a guardare più da vicino questo artista geniale, che sembra avere avuto una passione per la sperimentazione e la contaminazione di generi e di tecniche. La tecnica della stampa, l’arte tessile e l’archeologia, ma anche le applicazioni pratiche dell’elettricità, l’arte scenografica e…la tetralogia!

Una delle passioni di Fortuny è infatti proprio l’opera di Wagner e sono infatti sue alcune delle immagini più iconiche dei personaggi e delle scene della saga nibelunga.


Non credo di aver visto una immagine più struggente: si tratta di Siegliende e Siegmund, fratelli separati alla nascita, figli di Wotan, perdutamente innamorati l’uno dell’altra e genitori di Siegfried. La spada di Siegmund, che scandirà i momenti salienti della saga, annuncia una fine tragica, ma il loro abbraccio sembra quasi di poterlo toccare. foto mia.
Henriette Negrin foto mia

Visitando la casa-atelier museo di Fortuny e della moglie Henriette Negrin (musa preziosa e collaboratrice molto attiva) a Venezia, scopro che l’artista aveva anche messo a punto un innovativo sistema per illuminare i fondali e creare profondità di paesaggi nel teatro di Bayreuth. Questa cittadina bavarese era stata scelta da Wagner per realizzare un teatro costruito espressamente per contenere la tetralogia.

Maquette per l’Oro del Reno di Richard Wagner applicata al modello per il teatro di Bayreuth, 1903 foto mia

Fortuny resta ammaliato da tutti i personaggi wagneriani e infatti alcuni quadri sono dedicati anche alla vicenda di Parsifal.

Queste sono le magiche fanciulle-fiore che si rivolgono a Parsifal: “Che dolci profumi… Siete voi fiori?”
“Siam del giardino gli spiriti aulenti… Cresciamo nel sole d’estate… Sii il nostro tenero amico…” anche per loro un destino da ninfe che rapiscono eroi. foto mia nel museo Fortuny

Epilogo

Queste mie riflessioni sono uscite qui sul blog perché … non ne potevano fare a meno. Ho ceduto alla loro insistenza e, per quanto si tratti ancora di abbozzi, ho deciso comunque di mettere nero su bianco le tante suggestioni suscitate dalla lettura della tetralogia wagneriana attraverso la guida di Giorgio Pestelli.

Ho dovuto, in qualche maniera, cominciare ad affrontare il cipiglio di Brünnhilde e la svagatezza di Siegfried o le risate argentine delle Ondine.

Ma in effetti mi piace immaginarmi nel giardino d’inverno di Fortuny, circondata da stoffe e damaschi, avvolta in profumi speziati. Vorrei provare a seguire il pennello mentre crea le ombre che minacciano i fratelli abbracciati, oppure scorgere sul volto del pittore un sorriso, un lampo nello sguardo, mentre immerge le Ondine nella luce…

Siegfried e le Ondine foto mia
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